La Colonia Eritrea Beniamino Melli Esportato da Wikisource il 5 maggio 2024. Segnala eventuali errori su it.wikisource.org/wiki/Segnala_errori Questo testo è stato riletto e controllato. Tenente B. MELLI * * * La Colonia Eritrea dalle sue origini fino al 1.° Marzo 1899 con annesse 2 carte a colori ed uno schizzo del campo di battaglia d’Adua PARMA LUIGI BATTEI 1899. AI MORTI E AI SUPERSTITI DELLE CAMPAGNE D’AFRICA Indice Prefazione Elenco delle pubblicazioni consultate Spiegazione dei vocaboli indigeni Introduzione Parte I Dalle origini della Colonia fino al governatorato di Baratieri Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Parte II La Colonia sotto il Governo di Baratieri e fino alla battaglia d’Adua Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo XVII Capitolo XVIII Parte III Dalla battaglia d’Adua fino al 1.° marzo 1899 Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo XXI Conclusione Appendice I. Note sull'Abissinia Appendice II. Note sulle tribù mussulmane dell'Eritrea Appendice III. Note sul Benadir e sulle spedizioni di Bottego Appendice IV. Documenti Trattato d'Uccialli Convenzioni addizionali Protocole Elenco degli ufficiali decorati Schizzo del campo di battaglia d'Adua Colonia Eritrea Abissinia e Sudan Possedimenti italiani sull'Oceano Indiano Indice PREFAZIONE * * * Presento al pubblico questo modesto mio lavoro, fatto col solo scopo di riunire in poche pagine tutte le principali notizie che riguardano la nostra Colonia Eritrea dalle sue origini fino al giorno d’oggi. L’utilità di un tal libro, che finora manca nella nostra bibliografia africana, sarebbe certamente indiscutibile se le mie forze fossero state pari al mio ardimento ed all’importanza del soggetto; ma se anche apparirà il contrario, spero che si vorrà tener conto della mia buona volontà ed usarmi una benigna indulgenza. Ho desunto il presente lavoro da tutte le relazioni ufficiali e dalle altre migliori pubblicazioni nazionali ed estere, uscite finora alla luce intorno alla nostra Colonia; ed ho cercato di avvalorarlo colle preziose testimonianze di amati colleghi che ebbero tanta parte nelle sue vicende, procurando anch’io di giovarmi dei ricordi del passato e di qualche esperienza acquistata nella mia non breve permanenza laggiù.1 Mi fu guida l’amore per la nostra patria e pel nostro esercito. Parma, li 1 marzo 1899. L’Autore. * * * ↑ Tra quelli che maggiormente mi giovarono, col fornirmi schiarimenti e notizie, debbo segnalare e ringraziare pubblicamente il tenente G. Battista Raimondo, glorioso avanzo di Makallè e di Tucruf, e il tenente Girolamo La Villa valoroso superstite della battaglia di Adua, il cui teatro volle disegnare coll’annesso schizzo. ELENCO delle pubblicazioni consultate nella compilazione del presente lavoro. Arbib E. — L’Africa italiana alla Camera. (Dalla Nuova Antologia). Baratieri O. — Memorie d’Africa. Bianchi G. — Alla Terra dei Galla. Cecchi A. — Da Zeila alle frontiere del Caffa. Chiala L. — La spedizione di Massaua. Chiala V. — Il Generale Da Bormida nella giornata del 1.° marzo 1896. Cugia R. — Gli avvenimenti del Sudan. D’Amato N. — Da Adua a Addis-Abeba. Dal Verme L. — I Dervisci nel Sudan Egiziano. De Chaurand de S. Eustache F. — Le lotte per l’espansione coloniale nel secolo 19°. De La Jonquiere C. — Les italiens en Érytrèe. Fabris G. — Nozioni di geografia storica. » — Corso di storia generale. Gamerra G. — Ricordi di un prigioniero allo Scioa. Mantegazza V. — La Guerra in Africa. Massaia — In Abissinia e fra i Galla. Martini F. — Nell’Africa Italiana. » — Cose Africane. Menarini G. — La brigata Da Bormida alla battaglia d’Adua. Menzinger W. — Studi sull’Africa Orientale. Nicoletti Altimari A. — Da Assab a Adua. (Dalla Rivista militare). » — Fra gli Abissini. Osio — La spedizione inglese in Abissinia nel 1867-68. (Dalla Rivista Militare). Sapeto — Etiopia. Slatin R. — Ferro e fuoco nel Sudan. Ximenes E. — Sul Campo d’Adua. N. N. — La battaglia d’Adua da fonti russe e abissine (Dalla Rivista Militare. N. N. — I nostri errori in Africa. I Libri Verdi. Le Relazioni Ufficiali. I Giornali militari. SPIEGAZIONE DEI VOCABILI INDIGENI che si incontrano sovente nel libro * * * Abba — padre. Abuna — (nostro padre) Capo spirituale della religione abissina. Ad, Az — stirpe, tribù. Addi — paese. Adisc — nuovo. Af — Gola. Ain — sorgente. Amba — monte isolato a pareti verticali e sommità piatta. Bab — porta. Bet — Casa. Beit — stirpe, tribù. Barka — bassura. Calcal — pianoro. Cagnasmac — comandante dell’ala destra. Cor, Chor — rio, torrente. Damba — rifugio per gli armenti. Debra — monte con convento. Degiac — Grande capo immediatamente inferiore al Ras. Eccighiè, o Ecceghiè — Capo religioso e politico della chiesa abissina. Ela — pozzo Enda — monte con chiesa. Fantasia — festa pubblica religiosa con canti e danze. Felassi — monaco. Fitaurari — comandante di un’avanguardia. Gaber, gabru — contadino. Grassmac — comandante dell’ala sinistra. Gulti — terra, feudo. Mai — Acqua, sorgente. Mascal — Croce. Mobo — comandante di retroguardia Nefas — vento. Negus — Re. Negus Neghest — Re dei Re. Ras — Principe, Capo supremo. Razzie — Imprese a scopo di predare. Rora — altipiano. Scium — Capo di città o villaggio. Sellassiè — Trinità Tsade — bianco. Uadi — Vallata. Ugrì — ulivo. Zemeccià — Grandi razzie che imprende lo Scioa contro le popolazioni Galla del sud. * * * INTRODUZIONE. Il movimento d’espansione coloniale iniziatosi quattro secoli or sono per parte della Spagna e del Portogallo dopo le grandi scoperte geografiche che illustrarono il passaggio dall’evo medio all’evo moderno, ha raggiunto nel secolo presente uno sviluppo così grande da formare una delle principali cure di quasi tutte le nazioni europee. A determinare questo grande fenomeno concorsero varie cause naturali e speciali che possono riassumersi come segue: a) Gli istinti dell’umana specie. b) L’aumento della popolazione. c) Il progresso della civiltà. La specie umana nella sua lenta evoluzione è costretta da ineluttabile necessità ad una continua lotta per l’esistenza e per ricavare dalla natura che la circonda, e che concede con parsimonia i suoi favori, il benessere materiale e morale. Nel dibattersi in questa lotta fatale, essa pur sentendo anche gli istinti di generosità, di amore e di fratellanza sociale, è predominata da quello dell’egoismo, che forma la base principale di tutto il suo funzionamento vitale e che ne dirige gli sforzi secondo la linea della maggiore utilità e della minore resistenza. Questo predominio dell’egoismo sull’altruismo desta cupidigie, rivalità e concorrenza in ogni ramo dell’attività umana, trasformando l’ambiente sociale in un vasto agone ove è un’affannarsi di individui o di masse che tentano di sopraffarsi a vicenda, dando il primo impulso alle imprese ed alle conquiste d’ogni specie e talora anche porgendo l’esca al divampare delle violenze che desolano l’umanità. A rendere più aspra e violenta questa lotta egoistica dell’umana specie ed a creare nuovi impulsi ai movimenti dei popoli, concorre potentemente anche l’aumento generale della popolazione. Se anche si debba ritenere che la teoria di Malthus pecchi di esagerazione nell’affermare che la popolazione umana, quando nessun ostacolo le si frapponga, tenderebbe a raddoppiarsi in ogni periodo di 25 anni, aumentando cioè secondo la progressione geometrica 1. 2. 4. 8 ecc., mentre nello stesso periodo di tempo la produzione alimentare aumenterebbe solo secondo la progressione aritmetica 1, 2, 3, 4 ecc, è tuttavia ormai constatato che quando le guerre, le epidemie, i cataclismi ed altri malanni non perturbano la società, essa cresce in un modo spaventoso, superando di molto l’aumento che malgrado il perfezionamento agricolo e industriale può aversi nei prodotti alimentari. Abbiamo esempi in questo secolo di nazioni europee, tra le quali è anche l’Italia, le quali malgrado le guerre sanguinose, le non poche emigrazioni e le visite del morbo asiatico, hanno dato un sensibilissimo aumento nella popolazione, mentre le statistiche dei prodotti alimentari hanno segnalato dei risultati tutt’altro che floridi. Questo aumento di consumatori non secondato da un corrispondente aumento dei mezzi d’esistenza promuove l’esodo di molti individui che trovansi a disagio o che vedono troppo ristretto o conteso il campo delle loro aspirazioni, e dà una spinta all’emigrazione la quale è una delle forme d’espansione coloniale. Se dalle predette cause generali, che sono in massima comuni a tutte le razze, derivarono gli impulsi naturali al movimento d’espansione dei popoli; la spinta maggiore e la forza per effettuarlo vennero loro date dalla civiltà. Finchè l’Europa fu avvolta nella semibarbarie del medio evo, non diede alcun segno di forza e di vitalità. Lacerata dalle continue lotte tra imperatori e papi, tra principi e vassalli, tra padroni e schiavi, piuttosto che ad invadere si trovò pronta ad essere invasa. Pochi sprazzi di luce colle crociate, e colle conquiste di Venezia e quasi null’altro. Per poco non restava anch’essa inghiottita dall’elemento Arabo che nella Sicilia, nella Spagna, pei nostri mari e sulle nostre coste spadroneggiava minaccioso. Ma poi sorse il Rinascimento col prosperare delle lettere, delle arti e delle scienze, coll’invenzione della stampa, col perfezionamento della bussola, colle scoperte geografiche e colla costituzione delle nazionalità; e nacquero le prime colonie trapiantate dall’attività europea in un nuovo mondo. Ed alle colonie in un nuovo mondo progredendo col Risorgimento la civiltà, fecero seguito altre in un mondo nuovissimo, e le prime avvisaglie coloniali nei continenti antichi; finchè col trionfo della libertà causato dalla rivoluzione francese, essendo tolto ogni freno all’attività umana, la civiltà avanzatasi a passi giganteschi, determinò nei popoli europei una tale esuberanza di forza e di vitalità, che non potè più essere contenuta nei loro confini naturali e politici, e dovette prorompere e diffondersi per tutto il mondo. Infrante le catene che tenevano schiavo il pensiero, la società si è slanciata con sommo ardimento nel culto delle scienze positive, spingendo i suoi sforzi nello studio dei più grandi problemi che interessano l’umanità. Schiere di filosofi, naturalisti, economisti ed altri scienziati di alto valore si sono dati con febbrile attività ad indagare le più ardue sorgenti del vero, a scandagliare nelle viscere della natura e a scoprire i fenomeni pei quali si evolvono l’universo, l’individuo e la società; e ne hanno ricavate le più utili dottrine pel bene individuale e collettivo. Ciò servì di stimolo al concepimento di grandiose idee, a tentare dei colossali progetti di utilità pubblica, a compiere viaggi e scoperte geografiche nelle più remote regioni1, a instituire missioni e propagande d’ogni specie e a intraprendere spedizioni scientifiche ed anche militari per istruire e convertire i popoli, per diffondere ed imporre la civiltà: una corrente di benefica luce si spande pel mondo e tende ad abbracciare ne’ suoi fasci luminosi tutti i popoli della terra, traendo la sua prima forza dal movimento d’espansione coloniale2. Al progresso scientifico ha fatto seguito quello industriale. L’applicazione dei nuovi portati della scienza e l’adozione dei macchinari hanno determinato un grande sviluppo nelle industrie, e creato nuove necessità economiche e commerciali, esercitando un’influenza diretta sulla colonizzazione. La produzione europea delle stoffe, delle armi, delle macchine, delle navi, e di infiniti altri oggetti di utilità pubblica e privata è divenuta così abbondante da esuberare di molti i bisogni interni, e tanto perfezionata ed economica da vincere ogni concorrenza esterna: perciò si è resa necessaria e vantaggiosa la diffusione di tali industrie per tutto il mondo; mentre per rimediare all’enorme consumo di materia prima che in esse si impiega, essendo insufficiente quella locale, si impone la necessità di farne incetta là dove inerte essa abbonda. Così, pel risparmio di fatica ottenuto coll’uso delle macchine e per l’impiego che si può fare con esse dell’opera delle donne e dei fanciulli, il progresso industriale ha pure creato un nuovo equilibrio tra le braccia e il lavoro, esercitando il suo contraccolpo sulla distribuzione della popolazione e sull’emigrazione. Altri fattori, e prodotti ad un tempo, della moderna civiltà europea, e che influiscono direttamente sul movimento d’espansione coloniale, sono i nuovi mezzi di viabilità e di comunicazione creati in questi ultimi tempi. La navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi, i tagli di istmi e di gallerie, hanno stabilito quasi il contatto tra le più lontane regioni e dischiuse nuovi orizzonti all’attività umana. Le vie sono divenute più brevi; più celeri e meno dispendiosi i trasporti; gli scambi e le comunicazioni facilissimi. L’apertura del canale di Suez, chiamò l’Europa ai traffici col lontano oriente, ed accrebbe l’importanza dei mari di transito e specialmente del Mediterraneo, le cui coste ed il cui predominio sono divenute il pomo del desiderio, dell’invidia e della discordia di quasi tutte le nazioni europee. Dall’agitarsi delle predette cause naturali e speciali derivarono gli interessi economici, commerciali, religiosi, morali, politici e militari che formano si può dire la base dell’odierno movimento di colonizzazione. Le sue forme principali sono le seguenti. a) Le colonie d’emigrazione. — Esse sorgono dall’ esodo pacifico di individui e di famiglie che si recano in estranei paesi, e vi crescono e vi si industriano all’ombra delle leggi e sotto l’autorità dei governi locali. Nelle relazioni colla madre patria fanno capo ai rispettivi consoli. b) I protettorati coloniali. — Sono regioni o Provincie sulle quali, in seguito a trattati stipulati per amore o per forza, colle autorità indigene, una nazione assume la diretta ingerenza, specialmente nelle relazioni internazionali, e l’obbligo di protezione e di difesa. Generalmente hanno lo scopo palese di proteggere la vita e l’opera dei coloni, ma sovente hanno anche quello occulto di predisporre le Provincie e regioni stesse all’annessione definitiva sotto il dominio della nazione protettrice. c) I possedimenti coloniali. — Sono lembi di continenti di coste, isole, stretti, porti, o bacini fluviali sottratti definitivamente alle autorità indigene, mediante acquisti o conquiste od anche in seguito a libera elezione dei nativi o dei coloni sovr’essi prevalenti. A seconda dell’utilità che presentano, si distinguono in Colonie agricole, o commerciali, ed in Stazioni militari o navali, ed a seconda delle necessità locali e dei criteri delle nazioni dominanti, sono retti da governi civili o militari o misti, cui sottostanno coloni e indigeni. d) Le occupazioni militari — Sono una nuova forma di espansione coloniale, determinata generalmente da interessi politici, e che ha per iscopo di tutelare e difendere colla forza la regione occupata in un periodo di crisi o di pericoli, per impedirne i danni o prevenire le brame di qualche altra potenza. Dovrebbero aver carattere provvisorio ma bene spesso, malgrado le opposizioni e gli incidenti internazionali, finiscono per diventare veri possedimenti coloniali. L’esempio più importante di questa forma d’espansione coloniale è l’occupazione inglese dell’Egitto. Ritenendo inutile di parlare del pacifico svilupparsi delle colonie di emigrazione sparse per tutto il mondo, si accennerà per sommi capi alle altre imprese e lotte coloniali sostenute in questo secolo dall’Europa. Furono loro teatro tutti gli altri quattro continenti, ma non in tutti colla stessa intensità, cogli stessi scopi e risultati. L’America, fatta ormai civile per la laboriosità della razza bianca affluitavi da tutte le parti e che al nord è già prevalente sull’elemento indigeno, ha iniziato da oltre un secolo il movimento di riscossa per sottrarsi al dominio degli europei; e non solo v’è ormai quasi completamente riuscita, ma per parte degli Stati Uniti, che è una delle nazioni più civili del mondo, si è già cominciato a concorrere alle gare coloniali colle altre nazioni europee. Chi sopportò le maggiori spese di questa lotta d’emancipazione degli Americani, furono l’Inghilterra, la Spagna ed il Portogallo che dovettero cedere gran parte dei loro domini. Ma le terribili lotte intestine tra bianchi e indigeni, specialmente nell’America centrale e meridionale, determinarono bene spesso l’intervento delle nazioni europee a difesa dei connazionali e dei propri interessi coloniali. Nel 1829 la Spagna portò le sue armi contro le repubbliche del Messico e fu battuta; nel 1830 la Francia più fortunata, bombardando San Giovanni d’Ulloa ed occupando Vera Cruz, poteva imporre alla stessa repubblica un trattato favorevole ai coloni francesi; più tardi dal 1838 al 1843 la Francia e l’Inghilterra dovettero intervenire nel Plata contro Roxas tiranneggiante la Confederazione Argentina; Francia, Spagna e Inghilterra nel 1861 impresero una nuova campagna contro il Messico che fu poi proseguita dalla sola Francia, e terminò infelicemente nel 1867 colla fucilazione dell’imperatore Massimiliano. Altre guerre dovette sostenere la Spagna dal 1861 al 1866 contro l’isola di Haiti che occupò e poi dovette abbandonare, e contro il Perù ed il Chili desolati dalla guerra civile; e finalmente la stessa nazione fu costretta a sostenere una lotta ventenne gigantesca contro l’insurrezione di Cuba e la recente guerra cogli Stati Uniti, che ha dato l’ultimo tracollo alla vecchia sovrana di quasi tutte le Americhe. Nell’Oceania le imprese coloniali furono condotte per parte della Francia, dell’Inghilterra e dell’Olanda. La Francia arrivò a stendere il suo dominio sull’Arcipelago di Taiti e quindi nel 1880 ad annetterselo definitivamente; l’Inghilterra dal 1840 al 1871 sostenendo due guerre sanguinose contro gl’indigeni affermò il suo possesso sulle isole della Nuova Zelanda; l’Olanda si è annessa il sultanato di Atchin nell’isola di Sumatra. Ma dove le lotte e le imprese coloniali degli stati europei si esplicarono maggiormente fu in Asia e in Africa. Nell’Asia l’Inghilterra si è annesso l’immenso dominio dell’Indostan e la Birmania; la Francia si è stabilita in Cocincina, nel Candboge e nell’Annaam; Inglesi e Francesi uniti nel 1860 entrarono in Pechino e forzarono il celeste impero ad aprire i suoi porti alle navi europee. Nel 1858 gli stessi, col concorso della Russia e degli Stati Uniti, avevano imposto altrettanto al Giappone. La Russia, dalle regioni settentrionali dell’Asia, si è spinta fino alle regioni dell’Indo ed al mare del Giappone, meravigliando il mondo coi suoi progressi coloniali. In Africa, l’Inghilterra ha fatto un vice reame dell’antica colonia del Capo, ha esteso il suo dominio sopra una parte della Senegambia, sulla Sierra Leone, sulla Costa d’oro, sulla Nigrizia e sulla Zambesia, ed ha portato il suo protettorato nell’Amatonga, nel Zanzibar e tra i Somali. Finalmente nel 1882 occupò militarmente l’Egitto. La Francia si è annessa l’Algeria, il Senegal, le Rivières du Sud, la Costa dell’Avorio, i possedimenti del Gabon e del Congo francese, la Costa di Obok e del golfo di Tagiura; ed ha messo il suo protettorato nella Tunisia, nel Madagascar e nel Gran Popo ed Agouè. Il Belgio gettava le basi di un grande stato Africano: il Congo; il Portogallo, si annetteva una parte della Senegambia ed allargava il possedimento di Cabinda; ed anche la Spagna si impadroniva del governatorato del Rio d’oro. Finalmente anche la Germania entrava in lizza impiantando stabilimenti nel Togo, annettendosi il Camerun, il Lüderitsland, una parte del Zanzibar ed imponendo il suo protettorato su altra parte di questo e sul Wituland3. La giovane Italia non poteva rimanere inerte davanti ad un movimento così generale di espansione coloniale, ed in pochi anni ha portato la sua bandiera sulla costa Dancala, nell’altipiano Etiopico e tra i Somali. Si vedrà nel corso del presente lavoro, come questo movimento coloniale per parte del nostro paese si svolse. ↑ Tra le più ardite e perigliose imprese tentate nel campo geografico va ricordata la recente spedizione areonauta di Andree al polo Nord, sulle sorti della quale, da oltre un anno, è trepidante tutta Europa. ↑ Il sommo filosofo ed economista francese Leroy-Beaulieu, nella sua opera magistrale — Traitè thèorique et pratique d’economie politique (Paris 1896, Tom. IV, pag. 639 e seg.) — ha dimostrato che senza la tutela e l’iniziativa degli stati civili, la metà del globo sarebbe rimasta per sempre relativamente improduttiva, e che il genere umano deve una gran parte del suo benessere e della sua condizione sociale alla colonizzazione. ↑ Per evitare possibili attriti tra le potenze, in questa gara generale di espansione coloniale, dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885, sotto la presidenza di Bismark, si tenne a Berlino una solenne conferenza internazionale, cui parteciparono i rappresentanti di tutti gli Stati Europei, degli Stati Uniti d’America, e dell’Associazione internazionale Africana. In essa furono delineati i confini dello Stato del Congo, proclamata la libertà di navigazione sul Niger e sul Congo, proibito il commercio degli schiavi ed all’ultimo stabilite le norme per render valide le nuove occupazioni. Le potenze provvidero in seguito ai propri interessi ed alle proprie aspirazioni, stipulando tra di loro apposite convenzioni delimitanti sul territorio le rispettive zone di influenza (Hinterland). Note PARTE I. * * * Dalle origini della Colonia fino al governatorato di Baratieri * * * Indice Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX CAPITOLO I. (1869-1882) * * * Acquisto di Assab e adiacenze — Primo atto di sovranità esercitata dall’Italia — Eccidio di Beilul — Incidente di Raehita — Convenzione coll’Inghilterra — Assab dichiarato colonia Italiana. L’Italia rivolse lo sguardo alle regioni Etiopiche prima ancora che fosse sorta ad unità. Fin dal 1858 tra il conte di Cavour ed il cardinale Massaia furono gettate le basi di un trattato di amicizia coll’Abissinia, rimanendo incaricato di rappresentare il piccolo Piemonte presso Negussiè, allora capo del Tigrè, un certo Antonio Rizzo italiano residente all’Asmara. Ma l’apertura del canale di Suez che cambiò l’itinerario dell’Europa per le Indie, attirò l’attenzione dei governanti anche al Mar Rosso, il quale per la sua posizione e per le condizioni delle sue coste poteva offrire stazioni commerciali e approdi per rifugio e per rifornimento delle navi. Si è perciò che nel 1869 il Governo italiano presieduto dal Lanza, incoraggiato dalle continue proposte fatte dal professore Giuseppe Sapeto, già dimorante in Etiopia e fra i Dancali, e spinto anche da un voto delle camere di commercio riunite in Genova, autorizzò il professore suddetto ad acquistare dal sultano Berehan di Raehita la baia di Assab, e l’isola vicina di Damarkiè, per conto della ditta Rubattino, anticipando per tale acquisto la somma di lire 47,000 che gli fu poi restituita. Tale acquisto cagionò vive proteste dall’Egitto e dalla Turchia, che vantavano su quei luoghi dei diritti di sovranità; per cui il Governo d’allora, temendo delle complicazioni internazionali in un momento in cui si stava per compiere la liberazione di Roma ed infuriava la gigantesca guerra franco-germanica, rinunziò all’idea vagheggiata di stabilire regolarmente il suo dominio sul territorio acquistato, limitandosi a conservare la sua protezione ed i suoi incoraggiamenti al Rubattino. E così durò fino al 1879 nel qual anno il Governo presieduto dal Cairoli, spinto dal Parlamento e dall’opinione pubblica, fece sbarcare, sulla fine di dicembre e sul principio di gennaio 1880, uomini e materiali ad Assab, collo scopo palesato di impiantarvi uno stabilimento commerciale di deposito per la società Rubattino, la quale frattanto aveva ceduto i suoi acquisti allo Stato, e con quello segreto di assumerne l’effettiva sovranità. Questo primo atto di occupazione italiana nel Mar Rosso, suscitò diffidenze e controversie coll’Inghilterra, che vedeva di mal occhio un’altra nazione europea attraversare i suoi disegni sui territori dipendenti dall’Egitto; ma queste diffidenze furono poi vinte con dichiarazioni di remissività del Governo italiano, e specialmente poi quando al Gabinetto Beaconsfield-Salisbury, sottentrava nell’anno stesso a Londra quello Gladstone-Grandville. Maggiori difficoltà incontrò invece la nostra occupazione da parte dell’Egitto e della Turchia, i quali sollevavano proteste ed opposizioni a tutti gli atti del governo italiano, e specialmente alla nomina di un commissario civile per la piccola colonia, che fu oggetto di non poche controversie. Senonchè nel maggio 1881 accadevano due fatti che dettero una maggiore spinta alla nostra politica coloniale, cioè l’occupazione di Tunisi per parte dei Francesi, e l’eccidio della spedizione Giulietti la quale erasi internata a quattro o cinque giornate di marcia da Beilul allo scopo di aprire una via di comunicazione coll’Abissinia1. Al Gabinetto Cairoli era succeduto il 29 maggio predetto quello Depretis, col Mancini agli esteri, il quale stabilito coll’Inghilterra un modus vivendi, spiegò verso l’Egitto ed intorno all’eccidio di Beilul un’azione energica. Invocò dal Governo del Kedivè una severa inchiesta da farsi col concorso delle autorità italiane per accertare i fatti e le cause dell’eccidio, e scoprire e punire i colpevoli; e riuscì ad imporla; ma come prevedevasi, essa non ebbe alcun risultato, per la mala fede delle autorità egiziane. Le relazioni tra l’Egitto e l’Italia erano quindi già tese, quando ad aggravarle maggiormente concorso un altro incidente. Il Governo kediviale ostinandosi sempre più a contrastare la legittimità del nostro acquisto d’Assab, per avere in ciò maggior forza ed appiglio, e per prevenire nuovi ingrandimenti dell’Italia, aveva ordinato che dopo l’inchiesta predetta, i commissari egiziani della stessa facessero un viaggio d’ispezione sul territorio di Raehita, allo scopo di affermarvi dei diritti di sovranità, disponendo a tal uopo perchè vi sbarcassero anche delle truppe. Ma fu pronto ad opporsi energicamente ai predetti disegni il capitano Frigerio, della corvetta Ettore Fieramosca che tenne al largo convenientemente le truppe egiziane; ed il Governo italiano, non solo approvò l’opera sua, ma gli diede ordini categorici e risoluti di impedire lo sbarco a qualsiasi costo, spedendo a tal uopo nelle acque di Suez la nave Affondatore pronta a prestargli aiuto. Queste energiche misure, più che le note e le rimostranze, valsero a dissuadere il Governo kediviale dalla sua progettata impresa; sicchè alfine vi rinunziò, pur protestando e dichiarando di riserbarsi libertà d’azione per l’avvenire.2 Alla pacifica soluzione di questo grave incidente concorsero anche i buoni uffici ed i consigli dell’Inghilterra, colla quale veniva poscia stipulato (15 maggio 1882) apposita convenzione che garantiva all’Italia il possesso territoriale e la sovranità sulla baia d’Assab e adiacenze malgrado le riserve e la non accettazione della convenzione stessa per parte dell’Egitto e della Porta. Così, con legge 5 luglio 1882 il nostro piccolo possedimento africano veniva dichiarato ufficialmente Colonia Italiana. * * * ↑ Giulietti era accompagnato dal sottotenente di vascello Biglieri e da dieci marinai. ↑ Il 20 settembre 1881 tra il R. Commissario civile di Assab cav. Branchi ed il sultano Berehan fu stabilita una convenzione che metteva tutto il territorio di Raehita sotto la protezione dell’Italia coll’obbligo al Sultano predetto di non cederlo a nessun’altra potenza. Note CAPITOLO II. (1882-1884) * * * Crisi egiziana ed insurrezione Mahdista — Loro influenza sul movimento d’espansione coloniale dell’Italia. La crisi egiziana e l’insurrezione mahdista furono due avvenimenti che ebbero una grande influenza nella politica coloniale europea e specialmente dell’Italia. L’Egitto sotto il governo di Mehemed-Alì e dei suoi successori si era ingolfato in guerre di conquista che ne avevano esteso il dominio sull’alta Nubia e su tutte le provincie della valle superiore del Nilo fino ai laghi equatoriali, e sulle coste orientali del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano fino alle regioni dell’Harrar e dei Somali. Ma le grandi lotte sostenute e le strepitose sconfitte subite negli anni 1875 e 1876 contro l’Abissinia, avevano dissanguato l’erario e scossa la coesione dell’immane dominio. Il kedive Ismail pascià, per far fronte alle spese della sua mania conquistatrice, tentò delle forti speculazioni commerciali che diedero adito nel paese all’influenza europea, e si gettò egli stesso alla testa di colossali imprese industriali, tra le quali va annoverata a sua gloria l’apertura del canale di Suez (1859-69). Ma ben pochi vantaggi ne derivarono all’erario del paese. Quando l’Inghilterra si accorse che quella opera grandiosa poteva essere proficua ai proprii interessi, approfittando delle strettezze del Kedive, acquistò per 100 milioni di lire tutte le azioni del Canale da lui possedute e divenne così la principale azionista di quell’opera. Fatta così cointeressata nelle faccende d’Egitto, l’Inghilterra trovò poi modo nel 1876 di far sottoporre le sue finanze pericolanti ad un controllo di funzionari francesi ed inglesi. Ma questa ingerenza straniera nell’amministrazione interna dell’Egitto, non arrecò alcun vantaggio alle sue finanze e servì solo a destare la ripugnanza della popolazione contro l’influenza europea e la diffidenza della Sublime Porta alta sovrana del paese. Crescendo gli imbarazzi finanziari ed i malumori interni, Ismail pascià nel 1879 fu costretto ad abdicare, e gli successe il figlio Tewfyck pascià con poteri alquanto ridotti dalla Sublime Porta, e quasi sotto la tutela delle potenze europee. Finalmente nel 1882 avvenne il pronunciamento di Arabì pascià. Suo scopo era quella di sottrarre l’Egitto all’influenza delle nazioni europee, di consolidare l’alto dominio della Turchia, e di dotare il paese di ordini rappresentativi nei quali gli elementi mussulmani fossero in maggioranza. Questo movimento trovò largo favore nell’ufficialità e nella popolazione ed appoggio dalla Turchia. In breve Arabì fu portato dall’aura popolare alla carica di ministro della guerra, e dal Cairo poteva dirigere la rivoluzione: nelle città succedevano sommosse contro i cristiani e gli europei; la Porta preparava di soppiatto dei rinforzi, e si parlava già della deposizione del Kedivè. Allora l’Inghilterra dopo aver sollecitato invano la Francia, ed inutilmente invitato l’Italia, che oppose un formale rifiuto, decise il suo intervento. In seguito ad una sommossa avvenuta in Alessandria, nella quale furono uccisi alcuni cristiani, l’ammiraglio inglese Seymour nelle giornate 11 e 12 luglio 1882 la faceva bombardare dalla sua squadra, riducendola alla quiete; e poco appresso un grosso corpo inglese, sbarcando a Porto Said e ad Ismailia, preveniva i rinforzi della Turchia e prendeva alle spalle Arabi pascià, il quale nella giornata del 13 settembre successivo veniva sbaragliato e disperso con tutti i suoi a Tel el Kebir1. Da quel momento l’Inghilterra, malgrado le invidie gelose delle potenze e le proteste della Turchia, stabilì e mantenne l’occupazione militare sull’Egitto che la rese effettivamente padrona di tutto il paese; ed ogni altra ingerenza delle nazioni europee, all’infuori dei diritti nominali della Porta, effettivamente ivi scomparve. Mentre l’Egitto era in preda alla rivoluzione interna, scoppiava nel Sudan l’insurrezione madhista. Un certo Mohamed Ahmed figlio di un carpentiere di Dongola, dopo aver vissuto lunghi anni da anacoreta, ritirato nell’isola di Abba, sul Nilo Bianco, e di essere divenuto in fama per santità e dottrina, si annunziò Mahdi o profeta vaticinato di Maometto, e cominciò a predicare l’insurrezione, col programma di voler purificare la religione secondo le primitive leggi del Corano e di abbattere il dominio degli egiziani. Il mal governo dell’Egitto aveva esasperato quelle provincie; le angherie ed i soprusi esercitati dalla maggior parte dei governatori egiziani, intesi solo ad arricchire ed a spremere balzelli, e la guerra mossa alla tratta degli schiavi unica sorgente di guadagno pei mercanti di quelle contrade, avevano creato nelle popolazioni un odio insormontabile. Perciò il movimento Mahdista trovò terreno fecondo, ed attaccò facilmente, e rapidamente si allargò in modo formidabile. Il Darfour il Kordofan ed il Sennaar vennero in breve tempo in potere del Mahdi, e le piccole guarnigioni egiziane sparse fra i due Nili, sopraffatte in tutti gli scontri erano massacrate o costrette a ripiegare su Kartum. Lo stesso avveniva nella Nubia ove il luogotenente del Mahdi Osman Digma stringeva la guarnigione di Sinkat, Tokar, Kassala e Berber e minacciava i porti del Mar Rosso. Il fanatismo religioso eccitato dalle parole del Mahdi infiammava gli insorti e li rendeva temerari, sprezzanti della morte e feroci non soltanto contro gli uomini, ma anche contro le donne ed i fanciulli; quanti europei capitavano fra le loro mani venivano passati a fil di spada. Già due corpi egiziani mossi da Suakim per recarsi in soccorso delle guarnigioni bloccate erano stati quasi distrutti l’uno a Kasgil il 9 novembre 1883 (Hichx pascià) e l’altro ad El Teb il 1° febbraio 1884 (Bacher pascià); l’Egitto e la Turchia si dibattevano nell’impotenza, e l’insurrezione rumoreggiava nel basso Nilo: allora l’Inghilterra che per l’occupazione militare del paese, ne era divenuta la tutrice naturale, spinta dall’opinione pubblica e dal Parlamento, credette doveroso di intervenire e di assumersi l’incarico della liberazione delle predette guarnigioni. Cominciò col far allestire un primo corpo di spedizione sotto gli ordini dei generali Stevenson e Graaham, i quali però, non riuscirono ad impedire la caduta di Tokar e Berber nelle mani degli insorti. Si valse quindi dell’opera del celebre generale inglese Gordon, il quale sotto Ismail pascià, era già stato due volte governatore nel Sudan, acquistandosi fama di giusto e di forte. Egli fu inviato a Kartum munito dei più ampi poteri perchè cercasse di arrestare l’insurrezione e provvedesse alla salvezza degli europei e della guarnigione rinchiusa nella città. Rinforzò quindi la squadra del Mar Rosso affidandone il comando all’ammiraglio Hevett, il quale per mantenere buono verso l’Egitto il potente Negus d’Abissinia e facilitare all’occorrenza la liberazione della guarnigione di Kassala stringeva con lui un trattato di amicizia e di commercio (3 giugno 1884)2. Gordon giunto a Kartum il 17 febbraio 1884, tentò tutti i mezzi onde riuscire nel proprio intento, ma era troppo tardi; rimasto assediato nella città, chiese rinforzi al suo Governo e si dispose ad una eroica resistenza. Sui primi di agosto 1884 finalmente l’Inghilterra si decise ad una nuova ed importante spedizione collo scopo di muovere in suo soccorso. Ne fu affidato il comando al generale Volseley e fu scelta come strada di percorso la valle del Nilo. Ma intanto le condizioni di Kartum si erano fatte quasi disperate e quelle degli altri presidi della Nubia più critiche e minacciose3. Fu in questo frangente che tra l’Inghilterra e l’Italia furono intavolati gli accordi segreti che condussero all’occupazione di Massaua. Aprofittando degli imbarazzi della Turchia e della necessità in cui per gli eventi del Sudan si trovava l’Egitto di dover abbandonare i porti più lontani del Mar Rosso, l’Inghilterra, per evitare che essi andassero in mano di altre potenze meno amiche che l’Italia, e per avere all’occorrenza man forte nella sua impresa contro il Sudan o suggeriva o autorizzava l’occupazione di Massaua4. * * * ↑ Arabì fatto prigioniero fu relegato nell’isola di Ceylan. ↑ Questo trattato che segnò l’apogeo della potenza del Negus Giovanni stabiliva, tra altro, la libertà di transito delle merci da Massaua, la cessione all’Abissinia del territorio dei Bogos, e l’obbligo al Negus di facilitare la ritirata delle guarnigioni di Kassala, Amedib e Sanhit investite dai mahdisti. ↑ Al di là del Sudan, nelle così dette provincie equatoriali, rimaneva pure bloccato il celebre Emin Pascià governatore egiziano, il quale fu miracolosamente liberato dall’intrepido viaggiatore Stanley molti anni dopo. ↑ Nel carteggio diplomatico finora pubblicato non risulta da quale nazione sia partita la proposta dell’occupazione di Massaua. Pare però che l’Italia avesse dirette le sue mire soltanto verso Beilul, e che in seguito ai crescenti imbarazzi egiziani ed ai movimenti d’espansione della Francia nel golfo di Tadgiura, sia stata invitata dall’Inghilterra (tollerante l’Egitto) ad occupare anche Massaua. Note CAPITOLO III. (1885) * * * Eccidio della spedizione Bianchi — Occupazione di Beilul — Occupazione di Massaua — Proteste della Turchia — La caduta di Kartum — Conseguenze — L’Italia offre i suoi aiuti all’Inghilterra che li rifiuta — L’Inghilterra rinunzia al Sudan — La nostra occupazione di Massaua resta paralizzata. Il rifiuto opposto nel 1882 dall’Italia all’invito dell’Inghilterra d’intervenire con essa in Egitto, avea suscitato nel parlamento italiano e nel paese unanimità di biasimi e di recriminazioni: si era tacciata la nostra politica di pusillanimità e di insipienza e accusati i ministri di aver trascurata l’occasione di prendersi una rivincita dell’occupazione francese in Tunisia e di affermarsi come grande potenza nel Mediterraneo. Perciò l’opinione pubblica accolse con grande simpatia la voce di segreti accordi presi coll’Inghilterra sulla fine del 1884 per una possibile cooperazione con essa nel Sudan, e spingeva il Governo ad agire. Già pochi mesi prima era venuto ad infiammare gli animi un’altro fatto doloroso che reclamava una politica coloniale più forte ed ardita. L’intrepido viaggiatore Gustavo Bianchi nel mentre ritornava con alcuni compagni da una missione presso il Negus d’Abissinia, veniva assalito dalle tribù Dancale ed ucciso con tutti i suoi nel territorio di Aussa, pel quale tentava di aprirsi una via verso Assab. In seguito a questo evento, ed ai precedenti accordi coll’Inghilterra il 25 gennaio 1885 il comandante Trucco della Castelfidardo sbarcava un centinaio di uomini a Beilul, dichiarandolo territorio italiano e disarmando il piccolo presidio egiziano che veniva inviato subito a Massaua; ed il 5 febbraio successivo, una spedizione di circa 1000 uomini agli ordini del colonnello Saletta, salpata il 17 gennaio da Napoli, tra l’entusiasmo universale per ignota destinazione, sbarcava in Massaua stessa, inalberando la bandiera italiana accanto a quella egiziana, malgrado le proteste del vice governatore Izet bey. La Turchia protestò vivamente contro l’occupazione italiana e minacciò di contendere colla forza il possesso dei luoghi occupati, ma dovette calmarsi in seguito ai consigli dell’Inghilterra, ed accontentarsi di una dichiarazione per parte dell’Italia, colla quale si lasciavano impregiudicati i diritti di sovranità territoriale1. La nostra occupazione fu vista di mal occhio anche dalla Francia, la quale possedendo fin dal 1882 il porto di Obok ed essendosi recentemente estesa nel golfo di Tadgiura, aveva forse posto le sue mire in qualche altra parte della costa del Mar Rosso compresa nella nostra sfera d’azione, e specialmente su Zula nella baia d’Adulis, sulla quale vantava alcuni pretesi diritti, riconosciuti poscia infondati. Le altre potenze europee non fecero obbiezioni2. In Italia invece l’ardimento del governo Depretis-Mancini incontrò le simpatie del Parlamento e del paese, e si pronosticava già uno splendido avvenire per la nostra colonia, che da un’azione contro il Sudan in unione coll’Inghilterra, avrebbe ottenuto degli adeguati compensi territoriali e commerciali. Se non chè le faccende del Sudan precipitavano; il 26 gennaio 1885 e prima ancora che il generale Volseley fosse arrivato coi rinforzi a tendere la mano a Gordon, Kartum era caduta nelle mani del Madhi e tutta la guarnigione compreso il Generale stesso cogli europei ivi rimasti, erano stati massacrati. L’annuncio di questa catastrofe giungeva in Europa il 5 febbraio, cioè il giorno stesso dell’occupazione di Massaua, cagionando speciamente in Inghilterra ed in Italia un doloroso stupore. Le rosee previsioni concepite sull’avvenire della nostra colonia, appena divulgatasi in Italia la notizia della tremenda catastrofe, cominciarono ad essere offuscate dal timore che essa potesse arrestare le operazioni inglesi contro il Sudan. Per molti invece, ed anche pel Governo italiano, la gravità dell’evento fece più viva la speranza di un’energica azione in comune tra le due potenze per la riconquista di quel paese. Si vide in questa impresa impegnato l’onore dell’Inghilterra; si giudicò che essa non potesse arretrarsi senza scapito del suo decoro, e per facilitare il suo compito l’Italia da fedele amica ed alleata le offriva i suoi aiuti e la sua cooperazione. Frattanto il 24 febbraio, con una seconda spedizione di 1600 uomini, partiva pure alla volta di Massaua, in missione speciale, il tenente generale Agostino Ricci sotto capo di stato maggiore, che fu tosto designato dall’opinione pubblica a comandare le sperate e progettate operazioni militari contro il Sudan. Ma il Gabinetto inglese pur mostrandosi riconoscente alle premure affettuose del Governo e del popolo italiano rifiutava gli aiuti profferti, sotto pretesto che avrebbero ferito l’amor proprio della nazione, e differiva frattanto le proprie decisioni riguardo al Sudan. Ciò sconvolse le speranze del Governo italiano, il quale però nutrì ancora lusinga di poter cooperare in qualsiasi modo coll’Inghilterra e fornirle degli aiuti indiretti, sia sostituendola come ne correva la voce, nell’occupazione di Suackim, sia muovendo d’iniziativa propria alla liberazione di Kassala, mentre le truppe inglesi risalissero l’alto Nilo. Senonchè anche queste ultime speranze svanirono: il Governo inglese, ritenendo, come si esprimeva Gladstone, che il Sudan era una disgrazia, per l’Egitto, e non volendo distrarre le forze inglesi in altre imprese, mentre le relazioni colla Russia si erano fatte assai tese, minacciando questa di invadere l’Afganistan, l’11 aprile 1885 alla camera dei lordi, ed il 27 a quella dei comuni, dichiarava solennemente di rinunciare per allora a qualunque idea di rivincita contro Mahdi. Questa decisione inaspettata destò un’amara delusione nel cuore degli italiani: si vide il nostro possedimento di Massaua già paralizzato e circoscritto ad un breve tratto di spiaggia del Mar Rosso, in clima torrido e malsano, ed in territorio sterile e sabbioso, senza speranza di future espansioni nè di grandi vantaggi commerciali. Aggiungasi inoltre che la permanenza in Massaua del condominio egiziano, che conservava sempre la sua bandiera accanto a quella italiana, rendeva ancora incerta la stabilità del nostro dominio. E ciò avveniva proprio mentre alla conferenza di Berlino si invitavano quasi le potenze europee alla spartizione dell’Africa, e la Germania, la Francia ed il Belgio vi fondavano senza difficoltà dei vastissimi e fecondi domini. Rimaneva sempre la quistione di Kassala investita dai mahdisti, ma non sarebbe stato più conveniente per l’Italia, nè approvata dal Parlamento un’azione sua isolata contro il Sudan, piena di pericoli e di incertezze, mentre l’Inghilterra vi rinunziava affatto e ritirava le sue truppe su Uadi Halfa. La liberazione della predetta piazza venne poscia affidata dall’Inghilterra al Negus d’Abissinia, che s’incaricò anche di quella di altri piccoli presidi egiziani bloccati. Si parlò anche della cessione di Suachim all’Italia e corsero infatti delle trattative in proposito tra il Governo italiano e quello inglese, ma la caduta di Gladstone avvenuta l’11 giugno 1885, interruppe ogni cosa. All’Italia non rimase quindi che di accontentarsi delle conquiste già fatte, le quali consistevano allora in Assab, Beilul e Massaua, intorno alla quale eran stati occupati dal colonello Saletta i vilaggi di Monckullo e Arkico distanti da essa circa dieci chilometri, ed il piccolo villaggio di Arafali nella baia di Anneslei; e sebbene tali conquiste non avessero costati gravi sacrifici di sangue e di denaro, furono ritenute un risultato troppo modesto per la nostra politica coloniale che aveva fatto concepire tante speranze. Ne successero quindi calorose discussioni al Parlamento, in seguito alle quali il 17 giugno 1885 il ministro Mancini rimaneva quasi battuto (163 voti favorevoli e 159 contrari) ed era costretto a rassegnare le dimissioni3. * * * ↑ Prima del 1866 la maggior parte delle coste del Mar Rosso, compresa Massaua, erano sotto la sovranità diretta della Turchia, la quale in detto anno ne fece cessione all’Egitto suo vassallo. ↑ La Francia si stabilì ad Obok nel 1862 nello stesso modo come l’Italia ad Assab. Sulla fine del 1884 approfittando degli imbarazzi dell’Egitto inalberò la sua bandiera anche a Tadgiura facendovisi chiamare dai dancali sollevatisi. Le sue mire si spinsero anche su Zeila e Berbera, ma l’Inghilterra fu pronta a prevenirla occupando queste due importanti località colle sue truppe anglo-indiane. Finalmente nel 1887 la Francia in seguito ad accordi stipulati coll’Inghilterra, nei quali si strinsero patti reciproci di rinuncia a qualsiasi impresa contro l’Harrar, potè estendersi fino a Gibuti donde ora tende i suoi sforzi ad aprirsi una via commerciale verso l’Harrar e verso lo Scioa ed a portarvi la sua influenza piuttosto ostile verso l’Italia. I pretesi diritti francesi accampati su Zula ebbero origine da un acquisto illegale fatto nel 1860 dal capitano Roussel con un capo ribelle e spodestato dal Negus Teodoro; acquisto che fu ritenuto nullo dallo stesso governo imperiale francese d’allora. ↑ Il 20 settembre 1884 anche il piccolo sultanato di Raehita, in seguito alla morte di Berehan, era passato sotto il dominio dell’Italia. Note CAPITOLO IV. (1885) * * * Primi attriti coll’Abissinia — Missione Ferrari — Occupazione di Saati con truppe irregolari — Irritazione del Negus e di ras Alula — Protettorato sugli Habab — Cessazione del condominio egiziano a Massaua. Mentre la nostra politica coloniale, appena dischiusi nuovi orizzonti ed eccitate grandi speranze, si incagliava, determinando la caduta del ministro Mancini, a cui sottentrava nel portafoglio degli esteri lo stesso presidente del consiglio Depretis, sorgevano nell’Etiopia delle nubi foriere di tempesta. Il negus Giovanni aveva visto di mal occhio la nostra occupazione di Massaua, che gli toglieva la speranza tante volte vagheggiata di farne un porto pel suo impero; e la sua natura diffidente e sospettosa, abilmente montata da consiglieri europei nemici dell’Italia, residenti in Abissinia, non tardò a concepire il dubbio che gli italiani volessero attentare ai confini dell’Etiopia. Per rassicurare il Negus sulle buone intenzioni dell’Italia il Governo italiano, appena occupata Massaua, gli aveva spedito in missione il capitano Vincenzo Ferrari, accompagnato dal dottor Nerazzini della R. Marina, munito di cospicui doni, e coll’incarico di fargli le più ampie assicurazioni sui nostri pacifici intendimenti e di manifestargli il proposito dell’Italia di mantenere coll’Etiopia le ottime relazioni di buon vicinato ed inalterati i patti stipulati dall’ammiraglio Hevett. Il Ferrari portava inoltre una lettera autografa di S. M. Umberto I nella quale si prometteva di inviare quanto prima al Negus un’altra più solenne missione per regolare un trattato di amicizia. La missione fu benissimo accolta, ed il Negus parve così rasserenato che volle concorrere alla ricerca degli assassini della spedizione Bianchi, e come segno della sua gratitudine spediva poi al re Umberto le armi stesse del Bianchi trovate sul luogo dell’eccidio. Ma non tardarono a prendere sopravvento nell’animo del Negus i sentimenti di avversione e di diffidenza, specialmente poi dopo che il colonnello Saletta, secondo le istruzioni governative, aveva proceduto all’occupazione di Arkico e di Arafali e gli annunciava imminente anche l’occupazione di Saati e di Amba. Cominciarono le agitazioni e le scorrerie intorno ai nuovi possedimenti per parte di ras Alula, governatore dell’Amasen e residente ad Asmara, sempre mascherate allo scopo di razzie e di repressione di ribelli; ma che tuttavia lasciavano spesso travedere il mal animo del Ras a nostro riguardo. Quando poi verso la metà d’agosto i nostri basci-bouzuc occuparono Saati, sostituendovi un piccolo presidio egiziano ivi esistente, allora l’irritazione del Ras e quello del suo Sovrano si palesarono apertamente. Al greco Marcopulo, segretario del vicegovernatore Izet Bey, recatosi all’Asmara per sollecitare il Ras a nome del Governo anglo-egiziano a mantenere la promessa di liberare Kassala, questi sdegnato rispose che non avrebbe mosso un passo se prima non fosse sgombro Saati che egli considerava terreno neutrale. Questa località, oggetto di tante contese, era già stata occupata dagli egiziani nel 1866 quando si stabilirono a Massaua; essi vi tennero un piccolo presidio fino al 1876, dopo di che lo ritirarono in seguito alle gravi sconfitte subite a Gudda-Guddi ed a Gura. La rioccuparono quindi durante le trattative dell’ammiraglio Hevett, e la tenevano ancora presidiata quando vi si insediarono i nostri basci-bouzuc. Trattavasi quindi di un territorio che come tutti quelli di confine tra l’Abissinia e le regioni limitrofe era di incerta e male definita giurisdizione, nel quale sempre era prevalso il diritto del primo occupante, o del più forte; ed il colonnello Saletta oltrechè da motivi politici, era stato consigliato ad occuparlo anche dallo scopo di voler premunire da una possibile sorpresa per parte degli abissini il villaggio di Monkullo importantissimo per la sua posizione e più specialmente pe’ suoi serbatoi di acqua che alimentano quelli della città di Massaua. Avuto sentore dell’inasprito animo del Negus e di ras Alula a nostro riguardo, il Governo italiano ritentava tosto di placarli, facendo loro ripromettere pel mese di novembre, la solenne missione già annunciata al Negus dal Ferrari, colla quale si sarebbero appianati tutti i dissidi. Parve che questa promessa acquetasse alquanto il Negus ed il suo Ras, il quale subito dopo si mise in marcia con 10000 uomini, muovendo alla liberazione di Kassala. Nelle vicinanze di Cuffit s’incontrava il 23 settembre 1885 in un corpo di 5000 madhisti condotto da Osman Digma e lo distruggeva quasi completamente, subendo però egli stesso gravi perdite e rimanendo anche ferito ad una spalla. Questi risultati e la notizia che fin dal 29 luglio Kassala era caduta nelle mani del Mahdi, determinarono il vittorioso ras Alula a ritornare all’Asmara, donde mandò a chiedere al colonnello Saletta medici e medicinali per curare i feriti. Ma le buone disposizioni d’animo che il Ras fingeva o sentiva in queste occasioni, furono tosto turbate da un’altro avvenimento che lo fece andare su tutte le furie. La tribù degli Habab situata a nord di Massaua e nemica dell’Abissinia aveva chiesto il nostro protettorato, ed il suo capo Hamed el Driz si era offerto di mettere a disposizione del colonnello Saletta all’occorrenza circa 10000 uomini, concedendo anche una stazione estiva nel centro del suo territorio per la cura dei nostri ammalati. Questo Kantibai era nemicissimo di ras Alula e da lui odiato per antiche controversie; destò quindi nel Ras un’irritazione profonda la notizia che il colonnello Saletta il 7 ottobre aveva ricevuto solennemente e con grandi onori in Massaua il capo degli Habab, stringendo con lui degli accordi di amicizia. Il Ras voleva dapprima trattenere in ostaggio, e poi scacciava con disprezzo i medici italiani inviatigli, e per mezzo di Marcopulo, intimò quasi al colonnello Saletta che sfrattasse da Massaua il Kantibai, non calmandosi neppure dopo aver ricevuto novella partecipazione della solenne missione promessa dal Ferrari, sebbene ne approfittasse per chiedere in dono al Saletta un cavallo baio, come pegno di amicizia. Erano a tal punto le relazioni italo-abissine quando verso la metà di ottobre del 1885 il generale conte Di Robilant assumeva il portafoglio degli esteri. Egli si era sempre mostrato poco entusiasta di ogni espansione coloniale, e si proponeva di eliminare dignitosamente ogni causa d’attriti coll’Abissinia vagheggiando un modesto programma di pace e di raccoglimento. Primi atti della sua politica furono quelli di riunire nelle mani del comandante delle truppe, tutta l’autorità, che prima era stata condivisa e sottoposta per ragioni di grado e di anzianità anche al comandante della squadra ivi distaccata, e di assumere egli stesso la direzione generale del governo della colonia, lasciando ai ministri della guerra e della marina la sola parte tecnica e disciplinare dei vari servizi. Quindi avendo il colonnello Saletta chiesto il rimpatrio, affidava la carica di comandante superiore delle truppe in Africa al generale Genè, che arrivava a Massaua verso la metà di novembre di detto anno. Per comporre al più presto le controversie coll’Abissinia Robilant designava il Genè stesso a capo della solenne missione già promessa pel Negus, e gli dava istruzioni di astenersi da qualsiasi nuova occupazione, mantenendo però quelle che fino allora erano state fatte, compreso quindi anche il territorio di Saati, a presidiare il quale fu preferita la destinazione di truppe irregolari. Il 2 dicembre 1885 avvenne il piccolo colpo di stato col quale il generale Genè faceva cessare in Massaua la condominazione egiziana. Con un proclama agli abitanti e con apposite istruzioni date alla truppa, furono occupati tutti i pubblici uffici, le carceri ed i corpi di guardia, e dappertutto fu abbassata la bandiera egiziana. I soldati egiziani non opposero alcuna resistenza; quelli regolari furono imbarcati sopra un piroscafo kediviale che li ricondusse in Egitto, ed i basci-bouzuc (soldati irregolari) passarono quasi tutti al nostro servizio. Protestò la Porta e con molta vivacità, ma il linguaggio risoluto e fiero del conte Di Robilant la rese tosto remissiva e disposta a tollerare il fatto compiuto. * * * Note CAPITOLO V. (1886-1887) * * * Missione Pozzolini — È sospesa in seguito a cattive notizie pervenute dall’Abissinia — Minaccioso contegno di ras Alula — Spedizione Salimbeni — Occupazione di Uà — Ras Alula fa incatenare la spedizione Salimbeni e la trascina dietro a Ghinda — Ultimatum di ras Alula al generale Genè — Combattimento vittorioso di Saati — Combattimento e strage di Dogali. L’indirizzo politico coloniale del ministro Robilant, pur mantenendosi fermo ed energico, tendeva a dissipare le diffidenze che l’occupazione di Massaua aveva destato nell’animo del Negus. Perciò il nuovo comandante superiore Genè si astenne da ogni ulteriore atto che potesse spiacere a quel Sovrano ed al suo Ras di Asmara, troncando le trattative cogli Habab e respingendo le proposte del famoso Debeb ribelle scorazzante nelle provincie tigrine ed aspirante al dominio sopra di esse. Riconosciuto pericoloso il distogliere il Comandante Superiore dalle sue attribuzioni politiche e militari, il Robilant pensò allora di affidare l’incarico della solenne missione promessa al Negus, al generale e deputato Giorgio Pozzolini, il quale munito di ricchi doni e di lettere del Re d’Italia ed accompagnato dal capitano medico dottor Nerazzini e da altri funzionari ed ufficiali italiani, partì per Massaua l’11 gennaio 1886. Giunto a Massaua il generale Pozzolini mandò lettere a ras Alula ed al Negus, annunziando la solenne missione italiana e chiedendo al primo di potergli inviare subito il dottor Nerazzini per concordare insieme il viaggio e la sicurezza della missione stessa. Il Ras accolse di buon grado la lettera e quindi chiamò il Nerazzini al quale permise ed assicurò il transito della missione fino a Borumieda ove trovavasi il Negus. Ma mentre la missione stava per salire l’altipiano avvenne un fatto che impressionò talmente il ministro Robilant da determinarlo a sospenderla. Per mezzo del conte Antonelli residente allo Scioa ed intimo della Corte Scioana, egli ricevette la copia autentica di una lettera scritta quattro mesi prima dal Negus a Menelik, la quale palesava tutto l’odio di quel Sovrano verso gli italiani e manifestava i più fieri propositi di rappresaglia verso di essi. Robilant non si sentì più sicuro dell’esito della missione, e non volle più avventurarla nell’interno dell’Etiopia, temendo che fosse fatta prigioniera e maltrattata. Mascherando la causa vera della sua determinazione coll’addurre la troppa lontananza del Negus e l’imminenza della stagione delle pioggie, il ministro fece avvertire dal Pozzolini ras Alula che l’Italia ed il suo Re, pur mantenendo i sensi di cordiale amicizia per l’Abissinia e pel suo Sovrano, erano costretti a differire l’invio della missione. Questa notizia accrebbe l’ira del Negus e quella del Ras, e destò anche in Itala un grande clamore. Ormai si vide lo stato di guerra latente tra l’Italia e l’Etiopia, e l’ottimismo del Governo non arrivava a dissipare le preoccupazioni. Ras Alula dal suo alpestre nido dell’Asmara cominciò a scorrazzare razziando e minacciando fin sotto le nostre posizioni avanzate. Un’accolta di malvagi europei e specialmente di greci, tra i quali va annoverato il famigerato dottor Parisis1 e Marcopulo-bey già segretario del vice governatore Jzet-bey in Massaua, soffiavano ai nostri danni, ed i sintomi di rappressaglia si verificavano in tutti i modi. Finalmente il Comando Superiore si determinò a chiedere rinforzi di truppe al Governo. Mentre le relazioni italo-abissine erano così tese concorse ad intricarle ed a renderle più difficili l’intromissione inopportuna di una nuova spedizione scientifico-industriale che, a quanto pare, non ebbe alcun carattere ufficiale, ma che tuttavia gettò il paese e la colonia in grandi imbarazzi. Il conte Augusto Salimbeni che era già stato nel 1883 nel Goggiam e vi aveva costrutto un ponte sul Temciàh aveva promesso al re Tecla Haimanot di ritornarvi e di eseguire un altro grandioso ponte sul Nilo Azzurro. A tal uopo e sebbene fosse sconsigliato dal ministro Robilant, che declinò ogni responsabilità in proposito, il 25 settembre 1886, accompagnato dal maggiore di cavalleria Piano, dal tenente Savoiroux e da alcuni suoi operai, il Salimbeni s’imbarcò per Massaua; ove giunto, annunziò tosto il suo arrivo e lo scopo a ras Alula ed al Negus chiedendo loro il passaggio fino al Goggiam. Per non destare diffidenze il maggiore Piano ed il tenente Savoiroux furono qualificati come ingegneri. Il Ras accettò la domanda di Salimbeni, riserbandosi di ricevere la spedizione all’Asmara appena che egli fosse di ritorno da una razzia che stava per compiere verso Kassala. Intanto però che il Ras era impegnato in questa impresa, le frequenti scaramuccie che avvenivano nelle vicinanze di Zula tra i nostri irregolari ed i seguaci del predone Debeb determinarono Genè a far occupare anche la posizione di Uà posta al confluente dei torrenti Haddas e Alighedè, per proteggere le carovane scendenti alla costa. Ras Alula ritornò all’Asmara il 5 gennaio 1887 e quando seppe della predetta occupazione ne fu irritatissimo; Salimbeni che da un mese circa era già all’Asmara coi suoi compagni non potè certo placarlo co’ suoi doni nè colla dichiarazione di ignorare le occupazioni suddette. Dovette sospendere perciò la sua marcia verso Adua, e scrivere a Genè per consigliarlo all’abbandono di Uà. Quando poi il Ras venne a sapere che Piano e Savoiroux non erano ingegneri ma due ufficiali, non seppe più contenersi; fece tradurre tutti i membri della spedizione nella sua tenda e quindi li fece incatenare, trascinandoseli dietro al suo esercito fino a Ghinda ai piedi dell’altipiano. Quindi il Ras mandò a Genè un ultimatum fatto scrivere dal Salimbeni e recapitare da uno degli operai del suo seguito, col quale ultimatum intimava di sgombrare Saati ed Uà pel 18 gennaio, od altrimenti avrebbe fatto tagliar la testa a tutta la spedizione e mosso guerra all’Italia. Glie ne mandò un secondo il giorno 20, facendoglielo portare da un servo tigrino. Genè frattanto informato degli intendimenti ostili del Ras e della sua discesa su Ghinda aveva fatto rinforzare Uà e Saati occupandoli anche con truppe regolari. Agli ultimatum di ras Alula egli rispose che non intendeva affatto di sgombrare i luoghi occupati giustificandone l’occupazione collo scopo di rendere più sicure le strade ed i commerci, ed affermando che le intenzioni dell’Italia eran sempre amichevoli verso l’Abissinia. Da quel momento prese consistenza e cominciò a diffondersi in Europa la notizia che ras Alula marciava su Massaua, producendo in Italia una viva commozione; alla Camera piovvero interpellanze, e qui una frase disgraziata del ministro Robilant che qualificava gli abissini col nome di quattro predoni, dimostrò come fosse grande la sua sicurezza e come si ignorassero allora le condizioni militari dell’Abissinia. Il 25 gennaio ras Alula con circa 10000 seguaci mosse contro le fortificazioni di Saati, occupate da un battaglione composto di 2 compagnie italiane, 1 sezione d’artiglieria, e circa 300 irregolari, agli ordini del maggiore Boretti. Le operazioni di guerra non potevano cominciare meglio per l’Italia, perchè quel battaglione oppose un’eroica resistenza, obbligando il Ras a ritirarsi, subendo gravissime perdite2. Preoccupato Genè sulla sorte di quel battaglione e desiderando di rinforzarlo affinchè potesse sostenersi contro i nuovi attacchi che si temevano dal Ras, dispose che un’altro battaglione forte di 500 uomini circa, oltre ad una cinquantina di irregolari, agli ordini del tenente colonnello De Cristoforis, muovesse il 26 gennaio da Monkullo per Saati. Un grande entusiasmo animava i nostri soldati; la notizia della vittoria del maggiore Boretti li infiammava e li spronava alla gloria, spensierati, audaci e direi quasi temerari. Senonchè giunta la colonna De Cristoforis il mattino di detto giorno a circa 11 chilometri da Monkullo in una località detta Dogali, ove un piccolo rio di questo nome si congiunge al torrente Desset, fu sorpresa da ras Aìula che stava in agguato con tutto il suo esercito. Si impegnò tosto un fierissimo combattimento dove i nostri compirono prodigi di valore. Il minuscolo esercito dei 500 uomini rinnovò le gesta delle antiche sacre falangi. Stretti attorno al loro eroico Duce e tutti bersagliati da un cerchio di fuoco micidiale, i bianchi, soldati d’Italia bruciarono fin l’ultima cartuccia tenendo a bada per più ore l’intero esercito tigrino forte di oltre diecimila uomini, finchè esaurite le munizioni e schiacciati dall’immensità del numero, in una lotta corpo a corpo caddero tutti, difendendosi come leoni e facendo pagar cara la vittoria al nemico, il quale lasciava sul terreno tra morti e feriti più del triplo dei nostri. Dal poggio tristamente celebre, detto poi di «Ras Alula», la spedizione Salimbeni assisteva incatenata, e con quale animo è facile immaginarsi, a tutte le fasi del combattimento. Dell’eroico manipolo italiano rimasero morti sul campo 418 individui, fra cui 23 ufficiali; e ne rimasero salvi appena 91 (tra cui un solo ufficiale, il capitano d’artiglieria Michelini) che tutti feriti ed abbandonati per morti, poterono sfuggire all’efferata strage compiuta dal nemico. All’indomani con una marcia notturna che ebbe del prodigioso, il maggiore Boretti, eludeva la vigilanza dell’esercito tigrino e riusciva a trarre in salvo il suo battaglione a Monkullo. Il mondo restò ammirato dell’eroico valore dimostrato dall’Italia in questa sua prima fazione di guerra, dopo quelle della sua indipendenza, e tutte le nazioni ebbero parole di caldo elogio pei valorosi soldati di Dogali e Saati. In Italia poi fu un’esplosione immensa di dolore e di ammirazione. Tutti gli ordini di cittadini sentirono il lutto della patria e l’orgoglio pei proprii soldati, ed andarono a gara per onorarli. Si raccontarono terribili episodi che gettarono su quel manipolo di eroi una luce di poesia e di gloria; ed una frase del capitano Tanturi che giunto in sulla sera sul luogo della catastrofe, descriveva i loro cadaveri quasi allineati sul colle fatale dell’ultima difesa, scolpiva a caratteri di sangue tutto il loro sublime ed eroico sacrificio.3 * * * ↑ Il conte Antonelli in una corrispondenza da Entotto all’Opinione in data 20 dicembre 1886 narra che il Parisis traducendo davanti al Negus una lettera di Umberto a Menelik chiamava quest’ultimo re di Cassa, invece che di Caffa, venendo in tal modo a significare che il re Giovanni Cassa era qualificato vassallo del Re dello Scioa. ↑ In questo primo combattimento i nostri ebbero soltanto 5 morti (2 bianchi, 3 indigeni) tra cui il tenente Cuomo Federico, e 3 feriti. ↑ In questo combattimento così glorioso trovarono eroica fine: il ten. colonnello De-Cristoforis, i capitani Longo, Bonetti, Puglioli, De-Benedictis; il capitano medico Gasparri; i tenenti Fusi, Gattoni, Di Bisogno, Feliciani, Galanti, Sburlati, Griffo, Comi, Saccani, Tirone; il ten. medico Ferretti; i sottenenti Dessi, Tofanelli, Lombardini, Martelli, Bellentani. Note CAPITOLO VI. (1887-1888) * * * Il Parlamento italiano vota 20 milioni per la rivincita di Dogali — Crispi ministro degli esteri — Invio di rinforzi — Spedizione San Marzano — Missione inglese Portal — Costruzione della ferrovia Massaua-Saati — Rioccupazione di Saati — Il Negus a Sabarguma — San Marzano lo costringe alla ritirata. Il doloroso avvenimento di Dogali ebbe per conseguenza immediata nella nostra colonia lo sgombro oltrechè di Saati anche di Arafali e di Uà che rimasero abbandonati. Era intenzione di Genè di provvedere subito alla riscossa e ne faceva proposta al Governo; ma questi invece doveva frattanto far i conti col Parlamento. La colpa della catastrofe oltrechè all’inesperienza del generale Genè, fu attribuita anche all’imprevidenza dei ministri Robilant (agli esteri) e Ricotti (alla guerra) i quali furono poi sostituiti, il primo da Francesco Crispi, ed il secondo dal generale Bertolè Viale. Al posto del generale Genè veniva quindi destinato il generale Saletta, primo occupatore di Massaua1. La Camera italiana su proposta dell’on. Crispi interprete dell’opinione pubblica, che reclamava una rivincita ed una vendetta, votava un credito di 20 milioni per un’operazione militare contro l’Abissinia e decretava che Saati, Arafali, ed Uà, dovessero essere rioccupati e mantenuti colla forza. Questi propositi dell’Italia non furono osteggiati da alcun’altra potenza; anzi l’Inghilterra offerse i suoi buoni uffici per facilitare con una missione la necessaria riparazione presso il Negus, sperando che questi sconfessasse il suo Ras e non muovesse in sua difesa. Frattanto in mezzo all’entusiasmo popolare più schietto partivano alla volta di Massaua i primi battaglioni di rinforzo alla stremata guarnigione ivi rimasta. Quivi il Ras vincitore, giuocando abilmente di astuzia e di malafede, patteggiava la liberazione della spedizione Salimbeni, chiedendo in compenso medicinali, armi ed ostaggi indigeni, e quando poi aveva ottenuto ogni cosa, non adempiva completamente la promessa trattenendo ancora prigioniero il tenente Savoiroux che fu solo liberato alcuni mesi dopo mediante riscatto in danaro. Ma il generale Saletta troncò ogni relazione col Ras, e decretando il blocco dalla costa di Anfila fino all’isola Dufnein veniva a dichiarare la guerra a tutta l’Abissinia. Si procedette con estremo rigore contro gli spioni; i traditori e violatori del blocco furono giudicati e condannati; la popolazione indigena sotto l’impulso energico del Comandante si rianimò. In base ai voti ed ai mezzi dati dal Parlamento in ottobre e novembre 1887 vennero spediti nella colonia 2 reggimenti cacciatori, 1 squadrone di cavalleria e 4 compagnie cannonieri, del Corpo Speciale d’Africa (truppe volontarie con ferma e competenze speciali) ed un’altra brigata di rinforzo. Queste truppe con le altre ivi esistenti, e con circa 2000 indigeni assoldati formarono 4 brigate, con 6 batterie d’artiglieria, 2 squadroni cavalleria, 6 compagnie genio, e 4 compagnie d’artiglieria da fortezza, della forza complessiva di circa 18000 combattenti con 38 pezzi di artiglieria mobile, non compresi gli equipaggi e gli armamenti delle navi ancorate intorno a Massaua, e non compresi 1900 fuorusciti abissini della banda di Debeb, cugino ribelle del Negus, che si pose ai nostri servigi, ma poscia sul più bello defezionò2. A capo di questa spedizione fu posto il ten. generale Di San Marzano che conservò il Saletta ai suoi ordini ed ebbe per missione definita di rioccupare Uà e Saati, e di mantenervisi ad ogni costo, facendo anche costrurre una ferrovia che congiungesse quest’ultima località con Massaua. Generali in sottordini oltre il Saletta erano Cagni, Lanza, Baldissera e Genè. Nell’intento di distogliere il Negus dall’accorrere in aiuto di ras Alula, l’Italia aveva accettato la mediazione inglese, ed aiutata la missione di sir Geraldo Portal, latore di lettere e di consigli della regina Vittoria in nostro favore. Ma questa missione, ricevuta dal Negus presso Ascianghi, non riuscì a nulla, e ben presto il Portal ritornò a Massaua apportatore della notizia che tutta l’Abissinia era in armi, e che il Negus, bandita la guerra santa contro gli italiani, s’avanzava alla testa di oltre 80.000 combattenti in aiuto di ras Alula. Accompagnavano il Negus i più potenti Capi dell’Etiopia, tranne il Re del Goggiam rimasto a fronteggiare i dervisci minaccianti dal Gallabat, e Menelik. Questi, però sebbene il 20 ottobre avesse firmato col conte Antonelli inviato dell’Italia una convenzione di amicizia e di alleanza accompagnata da promesse di neutralità mediante il compenso di 500 fucili, non si era astenuto dal raccogliere il suo esercito, dietro ordine del Negus, a Borumieda, donde poi precedette lentamente fino ad Ascianghi, pronto a dar ragione al più forte ed a gabellare all’occorrenza il Negus e l’Italia. Sui primi di dicembre il corpo di spedizione italiano era al completo, e guidato dal sapiente e prudente suo Capo, cominciò a muovere lentamente con successive tappe fortificate, donde proteggeva la costruzione della ferrovia. Questa alla metà di marzo 1888 metteva capo a Saati e San Marzano allora occupò questa località fortificandovisi ed aspettando. Dieci giorni dopo tutta l’Etiopia si riversava dall’altipiano fin contro le posizioni tenute dagli italiani. Per una fronte di circa 20 chilometri lungo le valli del Damàs e del Jangus tutto il territorio compreso tra Ailet, Sabarguma Ambatocam e Aideraben brulicava di immense orde abissine, che avevano spinto avamposti fino a Gumod e tra i meandri dei Digdigta e del Jangus fin quasi sotto le nostre posizioni. Campeggiavano sulla sinistra del fronte nemico ras Alula e ras Agos coi tigrini; al centro il Negus col fiore dell’armata abissina e coi grandi dignitari ed ecclesiastici; a destra ras Ailù colle grandi masse amariche già condotte dal figlio del Negus, ras Area Sellassie, rimasto in viaggio ammalato; e dietro a queste stavano appostati in riserva i grossi corpi di riserva di ras Michael e Mesciascià, mentre dall’altipiano dell’Agametta un’altra massa agli ordini di Bigerondi Lantiè minacciava la posizione di Arkico. I calcoli più modesti fecero salire le forze abissine a non meno di 80000 fucili, ed a circa 10000 lancie. Contro questo esercito formidabile ed agguerrito il generale Di San Marzano, avendo lasciata la 4a brigata a difesa di Massaua e della linea di forti che la circondano, poteva opporre soltanto tre brigate della forza complessiva di circa 14,000 combattenti, le quali furono disposte: la 3a (Baldissera) a destra, contro Ailet, e la 2a (Cagni) a sinistra, contro il Jangus, e la 1a (Genè) con altri reparti speciali in riserva dietro Saati presso il Poggio Comando occupato dal Quartier Generale. Alcune orde di irregolari fiancheggiavano il corpo d’operazione, ed una di circa 300 uomini guidata dal capobanda Adam aveva occupata una zeriba avanzata fin oltre i pozzi di Adeita. Ma se le truppe italiane erano anche pochissime in confronto al nemico, la loro sapiente dislocazione e le opere di difesa provvisoria che avevano costrutto intorno a sè, consistenti in muriccioli a secco, parapetti di terra, e zeribe di spini, dietro cui tratto tratto si elevavano i famosi fortini mobili Spaccamela, avevano rese le loro posizioni formidabili. Il Negus appena giunto ad Ailet cercò tosto intavolare delle trattative, ma esse si interruppero subito e non approdarono a nulla, pretendendo l’Italia che le fosse ceduto non soltanto Saati, che teneva già, ma anche la valle di Ailet ed i confini fino a Ghinda, e volendo invece il Negus che essa sgombrasse anche Saati. Non rimaneva che la soluzione colle armi, e più volte l’esercito abissino, con pattuglie e dimostrazioni tentò di attirare il nostro fuori delle sue posizioni per schiacciarlo colla preponderanza del numero, ma San Marzano, fermo nella sua linea di condotta sagace e prudente, non si prestò a fare il giuoco dell’avversario. Si dubitò per un momento che il Negus, spinto specialmente dalle fiere insistenze di ras Alula, volesse dare l’assalto alle nostre posizioni, o cercasse di sfondare il centro della linea d’operazìone verso Hamassat, oppure di tentare un colpo di mano su Arkico, la posizione più debole e più esposta, ma astuto ed intelligente qual era, non ebbe in animo di giuocare questa partita e cominciò a prepararsi di soppiatto la ritirata. Quindi nella sera del 2 al 3 aprile, dopo aver già fatto incolonnare fin dal giorno precedente le donne e le bestie ingombranti, riprese con parte del suo esercito la via di Ghinda-Asmara, mentre altra parte si ritirava per Aidereso-Gura. Le dubbie e poco pronte informazioni, la non breve distanza guadagnata subito dal Negus e più che altro la difficoltà di poter raggiungere, con soldati pesanti e poco mobili come i nostri, su terreni frastagliati e salienti e per sentieri difficili ed ingombri, delle truppe svelte e leggere come le abissine, impedirono al nostro corpo d’operazione di tentarne l’inseguimento, e venne per tal modo a mancare la così detta prova delle armi, rimanendo all’Italia la sola vittoria strategica e morale. Pertanto se anche la spedizione del 1887 non rifulse pel valore delle armi, ebbe tuttavia dei risultati felicissimi; e ciò si dovette (e nessuno vorrà più negarlo ora, dopo il lutto della recente catastrofe) alla somma perizia del generale Di San Marzano; il quale non si lasciò smuovere dal suo proposito di fermezza e di prudenza, nè lusingare da mire ambiziose, malgrado l’eccitamento dell’opinione pubblica e della stampa, i commenti poco benigni e la taccia di quasi pusillanimità che gli veniva da certa gente non d’altro capace che di criticare. Secondo gli ordini ricevuti dal Governo ed il suo piano prestabilito egli aveva occupato, mantenuto e difeso Saati contro tutta l’Etiopia; la sua missione era dunque compiuta; guai se avesse fatto un passo falso: forse l’Italia avrebbe pianto fin d’allora una giornata fatale come quella del 1° marzo 1896. Nè la rioccupazione di Saati fu il solo frutto delle operazioni militari compiute; ormai erano tornate in nostro potere anche le località abbandonate di Uà, Arafali e Zula, ed in seguito alle sottomissioni di numerosi capi di tribù, tutta la costa Dancala fino a Beilul e quella di Massaua fino ai piedi dell’altipiano, ed altre vaste regioni ad ovest e a nord di Massaua si erano sottoposte al protettorato italiano.3 * * * ↑ Con r. decreto 17 aprile 1887 la colonia ritornava interamente alla dipendenza del ministro della guerra. ↑ Ancoravano nel porto le seguenti navi quasi tutte di vecchio tipo: le cannoniere Provana, Scilla e Cariddi; le golette Miseno, Calatafimi e Mestre; gli arieti-torpedinieri Bausan e Dogali; l’avviso Colonna; i trasporti Città di Genova, Cavour ed Europa, ed altre due o tre navi disarmate e di nessun conto. ↑ Oltre alle tribù degli Habab si erano sottoposti al nostro protettorato quelli di: Belad Sceik, Ad Temariam Ad Taclès, Assaorta, Teroa-Bet-Sarah, Teroa-Bet-Musa, Mensa, Ailet ed altre minori, e tutte quelle della costa Dancala. Note CAPITOLO VII. (1888-1889). * * * Il generale Baldissera succeduto a San Marzano — Prima sistemazione della colonia — Alleanze cogli Arabi intermedi tra Cassala e Massaua — Cure interne — Incidente italo-francese circa le capitolazioni — Vittoria di Crispi e scacco di Goblet — Doloroso avvenimento di Saganeiti — Vicende interne dell’Abissinia — Menelik alleato dell’Italia — Il negus Giovanni contro i Mahdisti — Sua sconfitta e morte a Metemmah — Menelik imperatore — Trattato d’Uccialli — Missione etiopica in Italia — Occupazione di Keren e Asmara e successivo ampliamento della colonia fino al Mareb — Rimpatrio di Baldissera — La Colonia Eritrea. Se la ritirata di un esercito di 100.000 uomini vinto senza combattere, che aveva fama di bellicoso e che era stato guidato da un condottiero meritatamente celebrato per intelligenza e per valore, costituiva un grande successo per la spedizione del generale Di San Marzano, non meno importanti e proficui per la nostra colonia furono i risultati che, approfittando delle conseguenze della ritirata suddetta, col concorso degli avvenimenti e dell’azione politica del Governo, seppe ottenere il generale Baldissera succeduto a San Marzano nel comando delle truppe d’Africa nel maggio 1888, dopo il rimpatrio della maggior parte del corpo d’operazione. Prima cura del nuovo Comandante fu quella di tradurre in atto gli scopi immediati della grande spedizione sistemando l’occupazione di Saati, rendendola definitiva, e sicura contro ogni pericolo d’invasione. Quindi pose ogni attenzione nel riordinare il corpo d’occupazione secondo i nuovi bisogni della colonia. Fu aumentato il Corpo Speciale d’Africa, e si costituirono dei reparti regolari di truppe indigene inquadrandoli con ufficiali e sottufficiali italiani, ed iniziando così quell’ordinamento militare che diede le più belle pagine di storia della nostra colonia. Allo scopo di evitare qualche pericolo dalla parte dei Mahdisti, che avrebbe impedito di rivolgere l’attenzione all’Abissinia, Baldissera pensò di interporre fra loro e l’Italia una specie di cuscinetto, dando ascolto a molti capi di tribù indipendenti o ribelli al Kalifa situate tra Kassala e Massaua, accordando loro il protettorato richiesto, interessandosi della loro amministrazione, e delle loro faccende interne con dignitosa prudenza e giustizia ed acquistandosene la benevolenza. Così si strinsero maggiormente le relazioni già esistenti con alcune tribù, e nuove se ne annodarono con altre situate nelle valli dell’Anseba, del Barca e del Gasch, e specialmente con quella importantissima dei Beni Amer, riuscendo per tal modo non solo a garantire la nostra difesa verso il Sudan, ma a facilitare, occorrendo, le nostre operazioni militari verso quella parte. Baldissera si occupò anche dei bisogni interni di Massaua e della colonia, riordinando il servizio della posta e quello della dogana, facendo ampliare uffici, diga, ospedali e caserme, facendo ricostruire l’acquedotto di Monkullo, e sistemando l’edilizia della città. Perchè poi le popolazioni trafficanti nei commerci di Massaua, concorressero nelle spese che andavano a beneficio di tutti, istituì una leggera tassa comunale. Grave incidente generò questa misura tra l’Italia e la Francia in causa di un tal Mercinier, che si riteneva vice console francese, il quale non solo si diede ad eccitare contro di essa tutti i francesi residenti in Massaua, ma offrì la sua protezione anche agli altri stranieri ivi esistenti, istigandoli ad opporsi al pagamento della tassa, sotto il pretesto che a Massaua dovevano osservarsi le così dette Capitolazioni1. Le lunghe e vivaci controversie diplomatiche tra il ministro Crispi ed il Goblet francese terminarono coll’adesione di tutta l’Europa alle ragioni del nostro ministro e con uno scacco rumoroso a quello francese. Intanto un evento doloroso venne a turbare l’opera del generale Baldissera. Egli aveva pensato di far sorprendere il traditore Debeb nel suo campo di Saganeiti, oltrechè per punirlo della sua recente defezione, anche per liberarne il paese su cui scorazzava, razziando, taglieggiando e vivendo di rapina; ed affidò l’incarico al capitano Cornacchia, che raccolte le sue forze di circa 400 basci-bouzuc a Uà, il 2 agosto 1888 mosse poi alla volta di Saganeiti seguito da altri 200 uomini irregolari sotto gli ordini di Adam Agà nostro capobanda. Ma l’impresa andò completamente fallita, perchè Debeb, avvertito in tempo, potè sventare l’accerchiamento che gli si tentava, ed appostarsi in modo da sconfiggere il piccolo corpo di spedizione del capitano Cornacchia, il quale vi lasciava la vita unitamente ai tenenti Poli, Virgini, Viganò e Brero e ad un centinaio circa dei nostri indigeni. Questo nuovo evento doloroso sollevò tosto grandi clamori in Italia, ove specialmente tra i partiti estremi cominciò a determinarsi una forte corrente d’avversione contro la nostra politica coloniale; ma i gravi avvenimenti che succedevano intanto nell’interno dell’Abissinia lasciavano travedere tali speranze e vantaggi per l’Italia che anche i più malevoli dovettero tacere, per non turbare l’opera del Governo. Mentre il negus Giovanni accampava contro gli Italiani, l’Abissinia era stata invasa dai Mahdisti, i quali dopo aver sconfitto a Debra Sin il Re del Goggiam, si spinsero fino a Gondar, distruggendola quasi completamente. Il Negus avrebbe voluto accorrere subito in difesa del suo impero e della sua religione; ma dovette rimandare il suo disegno; perchè dopo l’insuccesso contro gli Italiani lo scoramento erasi propagato nel suo esercito, che indebolito dalla fame, ed assottigliato dalle diserzioni, in breve si sfasciò. La stella di Giovanni che aveva già rifulso di tanto splendore si era già offuscata e volgeva al tramonto. Ad aggravare le condizioni del Negus si aggiunse l’inattesa ribellione del Re del Goggiam ed il contegno minaccioso di Menelik che dopo infiniti tentennamenti pareva che si fosse pronunciato definitivamente contro il suo Sovrano. Si presentavano quindi occasioni favorevoli all’Italia, per raccogliere qualche frutto della sua politica coloniale, ed il Governo di Crispi, spingeva il Comando Superiore di Massaua ad agire, mentre per mezzo dell’Antonelli 2 abbracciava completamente la così detta politica scioana, cercando di stringere un’aperta alleanza con Menelik al quale veniva promessa la corona imperiale. Sulla fine del 1888 la fortuna sorrise ancora all’imperatore Giovanni, che raccolto un esercito abbastanza numeroso potè vincere e debellare il Re del Goggiam. Il vile Menelik che aveva già occupato il paese dei Wollo Galla, trascurando ogni trattativa in corso coll’Italia, fu allora pronto a smettere i suoi propositi bellicosi verso il Negus, il quale potè così raccogliere un esercito immenso e portarlo ad un ultimo sforzo contro i dervisci che si erano radunati nel Gallabat con propositi di invadere l’Etiopia. Approfittando di questa circostanza e dell’assenza di ras Alula, in marcia col suo Sovrano, il generale Baldissera, nei primi di febbraio del 1889 mandava il maggiore De Maio ad eseguire una ricognizione su Keren e poscia la faceva occupare dal fuoruscito abissino messosi al nostro servizio barambaras Kafel. In pari tempo aizzava contro il Tigrè il ribelle Debeb (pacificatosi col comando) che occupò l’Asmara e proponeva di spingersi fino ad Adua, sperando di ottenerne l’investitura dall’Italia. Le condizioni della nostra colonia e dell’Abissinia erano a tal punto quando a precipitare gli eventi ed a far approdare finalmente l’alleanza italo-scioana corse improvvisa una grande notizia: in una sanguinosa battaglia avvenuta nei giorni 10 e 11 marzo 1889 nelle vicinanze di Metemmah tra 85000 dervisci dell’emiro Zaki Tummal, e 150000 Abissini guidati dal Negus, questi era stato sconfitto ed ucciso ed il suo cadavere stesso era caduto nelle mani dei dervisci che lo mandarono in trionfo al Kalifa in Ondurman.3 Allora tutta l’Etiopia fu in preda ai rivolgimenti interni; Menelik, d’accordo con Antonelli, sottoscrisse il 2 maggio il famoso trattato di Uccialli, inviando in Italia la missione di Maconnen per ratificarlo; e proclamatosi Imperatore, si mise tosto in marcia col suo esercito su Gondar per esservi incoronato. D’altra parte Mangascià figlio naturale del defunto Negus e da lui riconosciuto prima di morire e raccomandato alle cure di ras Alula e di tutti gli altri capi del suo esercito, accampava diritti sulla corona imperiale. Ma nel Tigrè gli si opponevano Debeb, Sebath, Kafel, ed altri capi che gli volevano togliere anche questo regno disputandoselo fra di loro, guerreggiandosi a vicenda e gettando il paese in completa anarchia. L’ora propizia era giunta per l’Italia ed il generale Baldissera approfittando che il barambaras Kafel teneva a Keren un’attitudine sospetta di tradimento e di probabili connivenze con ras Alula, fece occupare per sorpresa questa città dalle truppe italiane condotte dal maggiore De Maio (2 giugno 1889) disarmandovi il Barambaras, che fu relegato ad Assab. Il 3 agosto successivo poi il generale in persona eseguiva l’occupazione dell’Asmara installandosi nell’antica residenza del Ras tigrino autore dell’eccidio di Dogali. Tuttociò avveniva senza colpo ferire, sia per le misure di prudenza e di sicurezza prese dal generale Baldissera, che avevano prevenuto ogni possibile azione degli Abissini; sia perchè le popolazioni abissine stanche dall’anarchia e dagli orrori della guerra civile accoglievano i nostri come liberatori. Mangascià frattanto che aveva potuto disfarsi a tradimento del suo rivale Debeb era riuscito specialmente coll’aiuto del suo fido ras Alula a prevalere sugli altri rivali e ad affermarsi capo del Tigrè. Senonchè anche Menelik riconosciuto imperatore dalla popolazione e dal clero mandava come suo rappresentante a sottomettere questo regno il suo degiac Seium, promettendo al Governo italiano di recarvisi egli stesso al più presto possibile per garantire ed assicurare i confini stipulati nel trattato d’Uccialli. Mentre Seium accampava contro Mangascià in una lotta di poco conto nella quale però egli aveva la peggio, Baldissera non curando le preghiere e le proposte amichevoli di Mangascià, con energica avvedutezza compieva per suo conto e senza aspettare l’intervento di Menelik l’occupazione di tutti i territori posti al di qua della linea Mareb-Belesa-Muna, comprendenti le Provincie dell’Amasen, del Serae, dell’Oculè-Kusai, del Gundet e del Maitzade, e cacciandone il fremente ras Alula4. I lieti successi della nostra impresa coloniale furono coronati dall’arrivo in Roma della missione etiopica capitanata da Maconnen e guidata dall’Antonelli; la quale il 28 agosto fu solennemente ricevuta al Quirinale. Essa presentava il trattato d’Uccialli per essere ratificato e le condizioni per contrarre un prestito di quattro milioni con una banca d’Italia. Il trattato d’Uccialli assicurava all’Italia la linea di confini: Arafali, Halai, Saganeiti, Asmara, Adi Nefaz ed Adi Iohannes con prolungamento indefinito verso ovest; e coll’articolo XVII veniva a porre l’Etiopia sotto il protettorato dell’Italia.5 La firma di questo trattato oltrechè il miglior frutto ricavato dalle nostre operazioni militari, segnò anche per allora il trionfo della nostra politica coloniale. In poco più di quattro anni e senza gravi sacrifici di sangue e di danaro, l’Italia era riuscita ad occupare un posto importante ed un estesissimo tratto di costa del Mar Rosso, ad annettersi un’altra vasta regione dell’altipiano etiopico, e ad imporre il suo protettorato sopra tutta l’Etiopia, rimasta da secoli indipendente, oltrechè su altre località di minore importanza. In verità non v’era da lamentarsi6. L’Italia approvò caldamente la politica del Crispi e fece buona accoglienza alla Missione etiopica che fu trattata regalmente. Fu anche concesso a Menelik il prestito di quattro milioni; riconosciuto poi necessario di fare alcune aggiunte al trattato d’Uccialli, tra Maconnen e Crispi fu stipulato il 1° ottobre 1889 a Napoli una convenzione addizionale allo stesso, che rettificava i confini in base alle nuove occupazioni fatte dal Baldissera, e stabiliva le condizioni del prestito dei 4 milioni.7 In base alle modalità stabilite dalla Conferenza di Berlino il protettorato sull’Abissinia fu comunicato alle potenze europee l’11 ottobre 1889, ed il 6 dicembre successivo veniva pure ad esse comunicato l’articolo di un altro trattato, già stipulato il 9 dicembre 1888 tra Antonelli e l’Anfari d’Aussa che stabiliva il protettorato italiano sopra quel sultanato, e nessuna potenza ebbe a fare opposizione tranne la Russia che fece qualche osservazione, senza seguito. Sulla fine del 1889 il generale Baldissera dopo aver fortificato e consolidato le nostre occupazioni dell’altipiano chiedeva il rimpatrio. In Italia si accennò a dissidi che egli avrebbe avuto col Governo in causa della politica Antonelliana, ritenendo pericoloso per la nostra colonia l’abbracciar troppo ardentemente la causa scioana e l’accentrare tutta l’Etiopia nelle mani del negus Menelik. Ufficialmente il suo rimpatrio fu annunziato per motivi di salute. Comunque sia nel dicembre di detto anno e proprio nei giorni in cui arrivava a Massaua la missione scioana reduce dall’Italia egli cedeva il comando al suo successore generale Orero, e rimpatriava dopo aver gettato le prime basi per la sistemazione definitiva della nostra colonia, lasciandovi impresse delle orme profonde di sapienza civile e militare. Per consacrare le nuove conquiste e riunirle colle precedenti in un’unica amministrazione, e sotto un unico governatore coloniale, con decreto reale del 1° gennaio 1890 tutti i possedimenti italiani del mar Rosso vennero riordinati sotto il nome di Colonia Eritrea. * * * ↑ Le Capitolazioni sono speciali convenzioni internazionali che sanciscono dei diritti di franchigia e di immunità per gli stranieri in certi luoghi dipendenti dalla Turchia. La loro origine data da un trattato conchiuso nel 1535 tra Francesco I e Solimano I. Prima ebbero carattere di concessioni graziose dei Sultani; in seguito vennero imposte dalla diplomazia europea. ↑ Il conte Pietro Antonelli, nipote del celebre cardinale di Pio IX, fin dal 1878 si era recato allo Scioa presso il marchese Antinori, il quale aveva fondato a Lett Mareffià una stazione geografica italiana. Quivi l’Antonelli seppe addentrarsi nelle grazie di Menelik e della regina Taitù, ed occuparsi con essi del commercio di armi ricavandone fortuna ed onori. L’Antonelli che dopo la morte d’Antinori era divenuto il rappresentante dell’Italia presso Menelik, aveva ideato di utilizzare Assab come capo della via di comunicazione collo Scioa, ed a tale scopo propose al Governo italiano un trattato d’amicizia coll’Anfari di Aussa per il permesso e le garanzie del passaggio nel suo territorio. Questo trattato fu stabilito nel 1888 e servì per qualche tempo, ma poi perdette ogni valore per la mala fede dell’Anfari e per l’installazione dei francesi ad Obok e nel golfo di Tadgiura donde potevano trovarsi nuove e più comode vie per quel regno. ↑ Se non era la morte di questo valoroso Negus, è più che certo che Menelik, malgrado gli impegni assunti verso l’Italia, e le promesse sibilline sempre contradette dai fatti, non avrebbe mai osato di sottoscrivere un trattato di aperta alleanza con essa, e molto meno di osservarlo, dichiarandosi ribelle al suo Signore; e chissà per quanto tempo ancora avrebbe continuato a gabbarla ed a sfruttarla, movendo al più col suo esercito da Entotto a Borumieda e viceversa, senza decidersi mai. Menelik è altrettanto furbo e maligno nelle faccende diplomatiche quanto è prudente e timido in quelle di guerra; e perciò non v’è dubbio che faccia la morte del suo predecessore, il quale avea del leone mentre egli ha della volpe e del coniglio. Durante la battaglia d’Adua, se è vera la narrazione del signor Elez, attinta da Leontieff, e da fonti abissine, non pare che Menelik sia stato visto in alcun punto della lotta, ma sembra che invece sia rimasto in chiesa a pregare con l’Abuna Mattehos, uscendone soltanto quando tutto era finito a respirare la gloria della vittoria. ↑ Questa brillante e rapida operazione fu eseguita in gran parte dal maggiore De Maio coadiuvato specialmente nell’Oculè-Kusai dal capo abissino nostro alleato Batah Agos e da bande indigene, che davano così il ben servito al loro antico Signore. ↑ Vedasi nell’appendice il testo di questo trattato che ebbe tanta importanza e così gravi conseguenze per l’Italia. ↑ Sotto l’impulso del ministro Crispi e durante il suo governo l’Italia espandeva inoltre il suo dominio sul litorale africano dell’Oceano Indiano: Sulla fine del 1888 il Sultano d’Oppia Iussuf chiese la protezione dell’Italia che l’accordò con atto dell’8 febbraio 1889. Il 7 aprile di detto anno in seguito a negoziati col Sultano dei Migiurtini l’Italia ebbe la sovranità di tutto il territorio dal Capo Auad a quello Beduin; e nell’agosto successivo veniva in suo potere anche la Costa del Benadir. ↑ Vedasene il testo nell’appendice. Note CAPITOLO VIII. (1890). * * * Il generale Orero — Mangascià prevale nel Tigrè contro il legato imperiale e contro gli altri pretendenti — Menelik in marcia per il Tigrè — Marcia di Orero su Adua — Sua ritirata — Convegno di Ausen — Doppiezze ed inganni di Menelik — Ritorno di Menelik nello Scioa — L’articolo 17 del trattato d’Uccialli contestato da Menelik — Dissidi tra Antonelli ed Orero — Rimpatrio del generale — Il generale Gandolfi primo governatore dell’Eritrea — Prima vittoria italiana di Agordat contro i dervisci. Mentre l’Italia estendeva i suoi domini fino a quella linea Mareb-Belesa-Muna, che fu ritenuta da allora in poi la frontiera indispensabile alla nostra colonia, ras Mangascià prevaleva contro degiacc Seium rappresentante di Menelik e stabiliva il suo dominio sulla maggior parte delle antiche provincie tigrine, disconoscendo ogni autorità del Negus. Ciò valse a determinare Menelik a muovere finalmente contro il Ras per sottomettere il Tigrè, farsi incoronare in Axum ed affermarvi la sua autorità imperiale. Il generale Orero, avuta la certezza che il Negus era già arrivato al lago Ascianghi, nell’intento palese di prestargli man forte e di facilitare la sua missione, secondo le istruzioni del Governo, ma più specialmente con quello occulto di imporsi militarmente nel Tigrè e di trovare l’occasione di prendere contro ras Alula una rivincita di Dogali, determinò di eseguire la famosa marcia su Adua. Postosi alla testa di circa 6000 uomini tra italiani ed indigeni e con 6 pezzi di artiglieria e con tutti i relativi servizi, il generale Orero s’avanzò arditamente oltre il Mareb per la via di Gundet, ed il 26 gennaio del 1890 tra le accoglienze festose della popolazione e del clero entrava nella capitale tigrina ove commemorava il terzo anniversario dell’eccidio di Dogali. Intanto Toselli, il futuro eroe di Amba-Alagi, si spingeva colle sue truppe fino a Makallè. Ma l’impresa di Orero, che era stata tuttavia approvata da Maconnen mentre era ancora residente a Massaua, fu giudicata temeraria e compromettente verso il Negus dal conte Antonelli, anch’egli residente nella colonia; il quale timoroso dell’ardimento del generale, e di complicazioni che compromettessero gli effetti della sua politica, riuscì a provocare dei contrordini dal Governo che indussero Orero a ritirarsi al di qua del Mareb. Questi alcuni giorni dopo si ritirava da Adua, lasciandovi quale suo rappresentante ras Sebath, capo alleato dell’Agamè. Frattanto Menelik dopo aver avuto un piccolo scontro con Mangascià, giungeva a Makallè verso la metà di febbraio e procedeva quindi lentamente verso Adua, mentre il Ras tigrino, con Alula, campeggiava nel Tembien. Parve che Menelik rimanesse poco edificato e tutt’altro che sicuro del contegno delle popolazioni tigrine, le quali non tralasciarono alcuna occasione di mostrare il loro odio e disprezzo per gli Scioani; sì che giunto nelle vicinanze di Ausen (tra Makallè ed Adua) si soffermò nella sua marcia, rinunziando alla vagheggiata incoronazione nella città santa di Axum. Incontro al Negus, e scortato da ras Sebath, mosse allora l’inviato diplomatico italiano conte Antonelli, per assistere alle trattative che dovevano disporre del Tigrè, e dei confini della nostra colonia. Sebath e Antonelli credevano di aver già in mano i frutti della loro opera a favore del Negus, ma un’amara delusione li aspettava. Menelik sebbene, ricevendo Maconnen di ritorno dall’Italia, ne avesse approvato la condotta, e ratificata la convenzione addizionale al trattato di Uccialli, quando vide impossibile sottomettere e spodestare colla forza Mangascià cui i Tigrini e Alula restavano costantemente fedeli, venne segretamente con lui a trattative, ricevendolo anche personalmente ad Ausen, giocando così malamente il nostro inviato diplomatico ed il suo alleato Sebath. Senza neppure aspettare i costoro consigli Menelik dispose del Tigrè a suo talento, assegnando a Mangascià la parte occidentale, a Seium quella orientale, compreso l’Agamè, ed interponendo fra essi e la colonia Eritrea con residenza ad Adua, un altro capo scioano chiamato Mesciascià Uorchiè. Sebath quando seppe così disposto del suo dominio fuggì segretamente dal convegno di Ausen, recandosi a contrastarne il possesso e ad apprestare la difesa; Antonelli invece dovette ingoiare la pillola, e rassegnarsi alle disposizioni di Menelik. Anche la delimitazione italiana secondo la linea Mareb-Belesa-Muna, voluta dal Governo e corrispondente allo stato di fatto, come accennava la convenzione addizionale, non potè effettuarsi per l’opposizione che trovò nei Ras e nel Negus; il quale, premendogli di ritirarsi al più presto dal Tigrè, si limitò a nominare dei delegati scioani che, insieme a Mesciascià, ad Antonelli e ad altri delegati da nominarsi dall’Italia, si accordassero circa i predetti confini. I delegati scioani ebbero l’intesa di concedere come linea di confini quella di Siket, con esclusione dell’Okulè-Kusai e del Seraè che erano già occupati e posseduti dai nostri; e per meglio riuscire nel loro scopo essi cercarono di invadere, con truppa armata, questa regione; ma ne furono impediti dai Delegati per l’Italia1, i quali non solo si opposero energicamente all’effettuazione di un tale disegno, ma non vollero neppure intraprendere alcuna trattativa che non avesse per base la linea del Mareb-Belesa-Muna; lasciando ogni cosa impregiudicata fino ad ulteriori pratiche da farsi presso Menelik. Questi frattanto si ritirava frettolosamente allo Scioa e lo accompagnava il Degiacc Seium, il quale facendo di necessità virtù, rinunziava a Sebath e ad altri capi le provincie orientali del Tigrè, che erano state a lui assegnate, ma che gli altri possedevano effettivamente e si apprestavano a difendere a tutt’oltranza. Il subdolo contegno tenuto dal nuovo Negus nel convegno di Ausen, palesò apertamente la sua malafede e la sua doppiezza. Ottenuta la corona imperiale cogli aiuti e col consenso dell’Italia, la ripagava della più aperta ingratitudine, mancando a tutti gli accordi convenuti. Cominciò inoltre a sollevare obbiezioni circa l’articolo 17 del trattato di Uccialli, col quale si era obbligato a servirsi dell’Italia come intermediaria nelle relazioni internazionali, ed a riconoscerne così il protettorato sull’Etiopia, adducendo per iscusa che tale articolo era stato tradotto male dal testo amarico da lui approvato. Quale importanza egli annettesse a quel trattato già lo mostrava il fatto che fino dal 14 dicembre 1889 aveva già violato l’articolo predetto comunicando direttamente alla Germania ed alla Francia, il suo avvento al trono d’Etiopia. E sebbene poi in seguito alle premure dell’Antonelli ed alle sollecitazioni del Governo italiano, Menelik acconsentisse, mentre era ancora nel Tigrè, a farsi rappresentare dall’Italia ad una conferenza internazionale a Brusselles, lo faceva più specialmente perchè in tale conferenza l’Italia avrebbe fatto riconoscere il diritto d’importare armi in Abissinia. Malgrado tuttociò il governo italiano prestò l’opera sua ad insediare in Adua il rappresentante imperiale Masciascià Uorchiè, incaricandosi anche, senza poterne poi avere alcun compenso, di somministrargli viveri ed altri aiuti in omaggio a quella politica scioana che il Negus sfruttava tutta a suo vantaggio. I gravi ed aperti dissensi sorti tra il conte Antonelli ed il generale Orero relativamente alla nostra politica coloniale, determinarono quest’ultimo a chiedere il rimpatrio, ed in sua vece nel mese di giugno 1890 veniva inviato a Massaua il generale Gandolfi che assumeva per primo il titolo di Governatore dell’Eritrea. L’opera del generale Orero nella nostra colonia fu breve, ma rimase segnalata per la ardimentosa marcia compiuta con grande perizia su Adua, che affermò per la prima volta il potere dell’Italia nella capitale tigrina. Nell’amministrazione interna della colonia e nelle relazioni colle tribù arabe circonvicine, egli seguì le tracce del suo predecessore, adoperando una politica conciliatrice ed energica che si acquistò il rispetto e la stima di tutti. Fu sulla fine del suo periodo di comando, cioè nel giugno 1890, che comparvero in scena per la prima i dervisci contro la colonia. Un migliaio circa di essi erano penetrati tra i Beni Amer nostri dipendenti, predando, uccidendo e devastando il paese. Il capitano Fara, mosso da Keren ad incontrarli, li sorprendeva poco lungi da Agordat sul Barca, e li attaccava alla baionetta sbaragliandoli completamente, uccidendone oltre a 250 e togliendo loro il bottino ed i prigionieri che trasportavano. In seguito a questo fatto Agordat divenne da allora il nostro posto avanzato sulla frontiera verso il Sudan. * * * ↑ Tra questi Delegati era il futuro eroe di Amba Alagi capitano Pietro Toselli. Note CAPITOLO IX. (1890-1892) * * * Il generale Gandolfi governatore civile e militare dell’Eritrea — II colonnello Baratieri vice-governatore — Il deputato Leopoldo Franchetti commissario per la colonizzazione agricola — Consiglio di governo — Cure e riforme civili e militari — Missione Antonelli allo Scioa — Insuccesso della medesima — Zona d’influenza italiana e confini abissini — Accuse contro l’amministrazione coloniale e scandali — Reale Commissione d’inchiesta — Processo Cagnassi e Livraghi — Operato della Commissione d’inchiesta — Politica tigrina — Trattato del Mareb — Politica di raccoglimento del Gabinetto Di Rudinì — Rimpatrio del generale Gandolfi. Nel giugno del 1890 veniva destinato nell’Eritrea il generale Gandolfi, che per effetto del regio decreto 1° gennaio dell’anno stesso vi assumeva il titolo di Governatore civile e militare. Lo accompagnavano il colonnello Oreste Baratieri per le funzioni di vice-governatore ed il deputato Leopoldo Franchetti incaricato dal Governo di fare nell’Eritrea degli esperimenti di colonizzazione agricola. In base al suddetto decreto la Colonia fu posta alla dipendenza dei ministri degli esteri, della guerra e della Marina, a seconda che si trattasse di affari civili, militari o marittimi, e vi si istituì sotto la presidenza del Governatore una specie di Ministero, detto Consiglio di Governo, del quale furono destinati a far parte l’on. Piccolo Cupani per gli affari della giustizia, il consigliere Carnelli per quelli amministrativi in genere, e lo stesso Franchetti per l’agricoltura. Un altro funzionario di segreteria civile faceva parte dell’ufficio del Governatore.1 La necessità di riordinare la Colonia in base ai nuovi acquisti ed allo scarso bilancio votato dal Parlamento attrasse tosto le cure di questo nuovo Ente governativo a provvedere ai più urgenti bisogni. Si fecero studi, riforme ed impianti in tutti i rami dell’amministrazione coloniale. Si provvide alla sicurezza, alla sanità ed alla istruzione pubblica, erigendo carceri, ospedali e scuole; alla distribuzione della giustizia, istituendo, oltre quello di Massaua, altri due tribunali, uno all’Asmara ed un altro a Keren; alla delimitazione delle attribuzioni, circoscrivendo il territorio in due zone (Asmara e Keren) e due sottozone (Arkico e Massaua); si emanarono decreti e regolamenti, si modificarono organici, si stabilirono tasse e contribuzioni, si diede impulso all’industria ed al commercio e si iniziarono le operazioni demaniali. Le riforme e le modificazioni dovettero introdursi anche negli ordinamenti militari e vi si dedicò con competenza ed ardore, specialmente il colonnello Baratieri. Allo scopo di aumentare il corpo coloniale senza bisogno di maggiori spese, riconosciutosi che l’elemento indigeno nella bassa forza riusciva più adatto e meno dispendioso di quello italiano, coi regi decreti del 28 agosto, 3 settembre e 2 ottobre 1890, fu modificata la costituzione del corpo speciale d’Africa, delle truppe indigene e degli altri reparti e servizi vari, portando il complesso delle truppe coloniali ad oltre 9000 uomini, dei quali poco più di un terzo italiani ed il resto indigeni. Agordat fu occupata stabilmente e fortificata, ed approfittandosi della salutare impressione che la vittoria riportatavi il 27 giugno 1890 aveva prodotto nelle tribù interposte tra la Colonia ed il Sudan (alcune delle quali come gli Hadendoa ed altre minori si affrettarono a fare atto di sommissione all’Italia), allo scopo di rendere più sicuri i confini dell’Eritrea contro i Mahdisti, si strinsero maggiormente le relazioni colle tribù stesse e si promossero in esse degli ordinamenti militari e l’istituzione di bande armate, le quali nel momento del pericolo, mediante lievi compensi, si riunivano sotto i loro capi2 opponendo una prima barriera all’invasione nemica e facilitando all’occorrenza le eventuali operazioni militari dell’Italia contro il Sudan. Con tali istituzioni, venendosi a giovare anche alle stesse tribù, che così si ritenevano più sicure e protette, fu possibile sottoporle a leggeri tributi che andarono a beneficio del bilancio coloniale. Di pari passo colle riforme e colle istituzioni civili e militari procedevano gli esperimenti del commissario per la colonizzazione agricola, deputato Franchetti. Questi iniziò gli studi ed impiantò sull’altipiano tre poderi agricoli sperimentali, ad Asmara, Godofelassi e Gura, conducendo seco dei coloni italiani e fornendoli dei mezzi necessari, e di direttive per ottenere da quei terreni vergini un’abbondante produzione. Naturalmente tutte queste cure e tentativi fatti per dare stabile assetto alla colonia, sia nel campo civile, sia in quello militare, trovarono dei gravi ostacoli da vincere e delle difficoltà grandissime da superare, specialmente in riguardo all’impreparazione di ogni cosa, ed alla scarsità dei mezzi accordati dal Parlamento. Il Consiglio di governo non fece buona prova, male accordandosi la divisione dei poteri in un ambiente tutto da ordinare, ove si richiedeva uniformità di vedute, di intenti, e di direzione; perciò fu in breve abolito; la colonizzazione agricola traversò dei momenti di grande sconforto, e l’ordinamento militare dovette ricorrere a ripieghi economici sia nel personale, sia nel materiale, riducendo nel 1891 a poco più di 6000 uomini tutte le forze regolari che erano dislocate nella vasta Colonia (Regio decreto 11 giugno 1891). Tuttavia il Governo ed il paese vissero per qualche tempo senza grandi preoccupazioni perchè al difetto di tante cose supplivano le assidue cure e le ottime attitudini coloniali dei nostri ufficiali, che nelle amministrazioni civili e militari della Colonia ed in mille svariati servizi e destinazioni ottenevano dei risultati davvero ammirevoli. Ma l’orizzonte della Colonia non tardò ad essere offuscato dalle nubi. Le fecero sorgere le corrispondenze di Salimbeni, residente italiano allo Scioa, le quali descrivevano sempre più accentuato il nostro dissidio con Menelik, sia relativamente ai confini, sia relativamente all’articolo XVII del trattato d’Uccialli; le fecero addensare altre torbide notizie divulgate intorno all’Amministrazione interna della Colonia; e le resero minacciose le violente discussioni e le acerbe critiche che ne seguirono in Parlamento e fuori. Per appianare il dissidio con Menelik nell’ottobre del 1890 fu inviato nuovamente nello Scioa il conte Antonelli, munito di lettere del nostro Re e di istruzioni del Governo, secondo le quali egli poteva cedere relativamente ai confini, ma doveva invece più che mai insistere per ottenere l’accettazione dell’articolo XVII e del conseguente protettorato dell’Italia sull’Abissinia. Antonelli si fermò a Massaua e quivi col governatore Gandolfi concretò una nuova linea di confini da proporre al Negus (qualora persistesse nel rifiutare quella del Mareb-Belesa-Muna) limitandola ad Halai, Digsa, Gura ed Adibaro, con esclusione dell’Okulè-Kusai e del Seraè. Poscia proseguì per lo Scioa e giunse in Adis Abeba (la nuova capitale fatta costrurre dal Negus) verso la metà di dicembre, ove fu accolto onorevolmente, ma senza gli entusiasmi del tempo passato. Le maligne insinuazioni di agenti europei, specialmente greci, russi e francesi, ostili all’Italia ed alla sua politica coloniale, avevano intiepidito l’affetto antico e generato la diffidenza ed il sospetto contro Antonelli non soltanto nel Negus ma anche nell’imperatrice Taitù, che prima gli era così larga di protezione e di favori. Furono i predetti agenti che rappresentarono al Negus come ignominioso il protettorato dell’Italia sull’Abissinia e sull’Aussa, che lo spinsero a scuotere il giogo dell’Italia qualificata invadente e rapace ed aspirante al dominio su tutta l’Etiopia; furono i loro commenti e consigli che indussero tosto Menelik a protestare d’essere stato ingannato dall’Italia, dichiarando che l’articolo XVII del trattato d’Uccialli nel testo amarico esprimeva che il Negus — può servirsi dell’Italia nelle relazioni cogli altri governi — e non — acconsente a servirsi — come era stato tradotto nel testo italiano; fu in seguito alle loro continue insinuazioni che il Negus era divenuto più che mai restio a concedere i confini domandati dall’Italia. Il conte Antonelli trovò adunque Menelik maldisposto per qualsiasi trattativa e più che mai risoluto a rifiutare qualsiasi articolo di trattato che non esprimesse piena ed intera l’indipendenza dell’Etiopia. Nè meno risoluto lo trovò relativamente ai confini, non volendo egli concedere neppur quelli ridotti proposti dal generale Gandolfi, ma soltanto ed a malincuore altri più ristretti, cioè la linea da Saganeiti ad Adibaro, con esclusione di Gura. Dopo aver fatto vani tentativi per riuscire a qualche cosa di meglio, il conte Antonelli stava già per troncare ogni trattativa e ritornarsene in Italia senza nulla concludere, quando parve che il Negus si arrendesse ad un accomodamento possibile. Egli propose ad Antonelli di mantenere inalterato per cinque anni l’articolo XVII del trattato d’Uccialli quale era allora vigente nei due testi, salvo a modificarlo dopo, purchè l’Italia accettasse frattanto i confini della Colonia da lui fissati. Antonelli cui non parve vero di aver ottenuto il mantenimento del protettorato che vedeva ormai perduto, accettò subito la proposta, ed il 6 febbraio 1891 firmava insieme al Negus due convenzioni, in duplice copia, riguardanti l’una i confini e l’altra l’articolo XVII del trattato. Se non che nel verificare e tradurre indi a poco insieme al Salimbeni la propria copia riguardante il predetto articolo, che era scritta solo in amarico, si accorse che invece di aver firmato pel mantenimento in vigore dell’articolo stesso, aveva firmato per la sua completa abrogazione. Verificato l’inganno, Antonelli corse tosto presso il Negus a protestare risentitamente contro il tranello tesogli, e stracciò la propria firma sul documento, chiedendo indietro l’altra copia per annullarla; ma Menelik non ne volle più sapere; egli si schermì attribuendo la causa dell’equivoco a suoi interpreti, e si dimostrò più che mai irremovibile nel non voler fare alcuna concessione, limitandosi a dichiarare che avrebbe spiegata ogni cosa scrivendo a re Umberto. In seguito a ciò Antonelli e Salimbeni sdegnati abbandonarono la Corte scioana e fecero ritorno in Italia, dove furono raggiunti da lettere di Menelik pel Sovrano e pel Governo, le quali annunciavano valide le convenzioni già stipulate ed incolpavano l’inviato italiano dei malintesi e dei dissidi scoppiati. Questo grave incidente che veniva a traversare così inopportunamente i nostri disegni coloniali, si verificava proprio allora che il nostro Governo stava facendo pratiche coll’Inghilterra per la delimitazione della zona d’influenza dell’Italia in Africa; pratiche che poi condussero il ministro Rudini, succeduto al Crispi, caduto il 31 gennaio 91, a stipulare con Lord Dufferin rappresentante dell’Inghilterra due speciali protocolli in data 24 marzo e 15 aprile 1891.3 Per effetto di tali protocolli la sfera d’influenza tra l’Inghilterra e l’Italia venne divisa da una linea che partendo dalle foci del fiume Giuba e risalendone il corso fino al 6° di latitudine nord, segue questo parallelo fino ad incontrare il 35 meridiano est di Greenwich. Poscia volge a nord traversando il Nilo Azzurro e raggiungendo il Racad, dal qual punto piega poi verso est rasentando il Ghedaref fino a toccare l’Atbara. Dopo aver seguito alquanto il corso di questo fiume, la predetta linea va a tagliare verso nord-est il Gasc a circa 32 Km. a monte di Kassala, e quindi si dirige al punto di incontro del 17° di lat.e col 37° di long.e, donde rivolgendosi a nord-est, va a terminare al capo Kasar sul Mar Rosso un poco a sud di Suackim. Nella stipulazione di questi protocolli fu anche fatta facoltà all’Italia di occupare Kassala qualora le esigenze di sicurezza della Colonia lo richiedessero. Erano insomma, oltre alla Somalia, all’Ogaden, ed a gran parte della Nubia, tutti i paesi etiopici e galla che venivano rinchiusi nell’orbita della influenza italiana, ribadendosi così sull’Abissinia le catene del trattato d’Uccialli. Ma così non l’intendeva Menelik che quasi contemporaneamente alla stipulazione dei due protocolli che lo imbavagliavano e minacciavano di assorbirne i domini, con lettere del 10 aprile 1891 alle potenze europee, comunicava senza altro i confini dell’indipendente e tutt’altro che modesto suo impero, designandoli con una linea che partendo da Arafali nel Mar Rosso toccava Digsa, Gura e Adibaro, tagliava poi il Mareb e l’Atbara congiungendosi al Nilo Azzurro, e quindi da Kargaz col Nilo bianco; donde poi volgendo ad oriente rinchiudeva i paesi dei Galla degli Orussi e dell’Ogaden e quindi l’Harrar e la costa Dancala fino a ricongiungersi con Arafali. Era la più grande smentita che si potesse dare ai nostri diritti di confine e di protettorato, ed includeva anche minaccia di ritoglierci la costa Dancala da noi posseduta. Alla notizia preoccupante dell’insuccesso della missione Antonelli, che aveva lasciato aperto un dissidio così profondo tra l’Italia e lo Scioa, vennero a far eco le voci di iniquità di ogni specie che sarebbero state commesse nell’Eritrea da alcuni funzionari coloniali e segretamente dal segretario coloniale avv. Cagnassi e dal capo della polizia indigena tenente Livraghi.4 Essi furono accusati di abuso di potere, di condanne ingiuste, di ricatti e di sequestri, di uccisioni e di sopressioni di individui e di intere bande, senz’alcuna formalità di legge, e di altri atti di efferrata barbarie, in cui avrebbero avuto per principale movente la ferocia ed il lucro personale. Le vaghe accuse non risparmiarono neppure le persone dei Governatori e specialmente dei generali Baldissera ed Orero che si dissero gli inspiratori delle misure di ferocia usate contro gli indigeni. Queste notizie sollevarono un clamore infernale e gettarono sulla nostra colonia degli sprazzi di luce sanguigna. Nel Parlamento e nel paese fu uno scoppio di indignazione contro le gravi rivelazioni che invano il Governo cercava di smentire o di alleviare intervenendo a difesa della verità e degli oltraggiati Comandanti Superiori. Le discussioni si fecero più acerbe e violente e coinvolsero tutto il nostro indirizzo politico e coloniale. Le preoccupazioni collo Scioa, gli scandali della Colonia e l’acutizzarsi della quistione finanziaria, disponevano malamente gli animi; e non bastava il modesto programma bandito dal marchese Di Rudinì e la restrizione del bilancio coloniale intorno agli otto milioni per far tacere le opposizioni. Non valse neppure a calmare l’opinione pubblica la notizia di un brillante combattimento sostenuto dalle nostre truppe vicino ai pozzi di Halat il 16 febbraio 1891, in cui il capitano Pinelli con 400 indigeni sconfisse un migliaia di abissini scesi a razziare, uccidendone duecento, oltre al Capo, e riprendendo loro gran parte del bestiame rapito. Le discussioni continuarono e specialmente dai partiti estremi si bandì la crociata contro una Colonia che secondo loro costava tanto, che era così gravida di pericoli, che non dava alcun frutto ed anzi li dava così amari. Per disarmare cotanta opposizione e per smorzare l’incendio che s’allargava sempre più, il Governo italiano, mentre deferiva i funzionari accusati al tribunale militare di Massaua, venne nella determinazione di sottoporre all’esame del Parlamento le vere condizioni materiali e morali della nostra Colonia, proponendo l’istituzione di una Commissione parlamentare che si recasse nell’Eritrea, ne facesse un esame ed uno studio diligente, ne constatasse gli utili ed i bisogni e la convenienze di conservarla o di abbandonarla, e portasse inoltre il suo alto giudizio sulle accuse varie mosse contro la sua amministrazione. In pari tempo con provvido consiglio cambiò l’orientamento della politica africana, abbandonando ogni idea di ulteriori trattative con Menelik ed incaricando invece il generale Gandolfi di dare ascolto alle continue proposte di pace e di amicizia che venivano fatte da ras Mangascià. L’istituzione della commissione fu approvata e furono eletti a farne parte i senatori Borgnini (Presidente) e Driquet, ed i deputati Martini (vice-presidente) Bianchi, Cambrai-Digny, L. Ferrari e Di San Giuliano. Essa partì il 9 aprile 1891 e stette nell’Eritrea 55 giorni percorrendola in gran parte ed esaminandola e studiandola con somma cura e diligenza in tutti i suoi aspetti, cioè nel territorio, nella popolazione, nel clima, nei prodotti, nei commerci, nelle sue condizioni di sicurezza e difesa, nel suo ordinamento e nella sua amministrazione ed in tutto ciò che potesse interessare il suo sviluppo economico ed il suo avvenire. Diligentissime e coscienziose furono pure indagini che fece la commissione relativamente alle gravi accuse divulgate intorno agli amministratori della Colonia. Il duplice scopo della Commissione, mercè l’alta competenza de’ suoi membri, fu in breve completamente raggiunto, così che nel novembre 1891 poterono presentarsi al Parlamento un’accurata e coscienziosa relazione intorno alla colonia, ed un rapporto sul contegno dei funzionari governativi nella stessa. Gli studi, le considerazioni ed i giudizi esposti nella relazione possono riassumersi così: 1.° Che la nostra Colonia per le sue condizioni di clima e di suolo lasciava la speranza di potere nell’avvenire servire di sfogo ad una parte dell’emigrazione italiana, e dare sufficiente utilità di commerci e di produttività agricola e pastorizia, così da consigliarne il mantenimento e non l’abbandono. 2.° Che i confini più utili più sicuri e meno dispendiosi verso l’Abissinia erano quelli del Mareb-Belesa-Muna, verso il Sudan e verso l’Egitto quelli segnati dai protocolli 24 marzo e 15 aprile 1891, richiudenti uno spazio di circa 85000 kmq. 3.° Che per ottenere i maggiori risultati possibili dalla Colonia era necessario promuovere le relazioni commerciali col Sudan, garantire la sicurezza, costrurre opere produttive e stradali, istituire un governo civile, garantire la libertà e la giustizia, fare esperimenti agricoli, regolare la proprietà fondiaria, e facilitarvi la costituzione di una società agricola composta di contadini italiani proprietari. Il rapporto intorno ai funzionari coloniali ammise che i generali Baldissera e Orero nei momenti di grave pericolo per la Colonia avevano ordinato od autorizzato l’uccisione segreta il primo di otto ed il secondo di un solo individuo, perchè fomentavano il tradimento e la ribellione tra la popolazione. Di tutto ciò i Generali predetti avevano fatta esplicita dichiarazione alla Commissione ed assuntane l’intera responsabilità. Anzi Baldissera si chiamò responsabile anche dell’uccisione di altri due individui, perchè avendone egli ordinato l’arresto ad ogni costo, perdettero la vita colluttando nell’essere arrestati. La Commissione constatò poi false tutte le voci di eccidi collettivi e di massacri di intere bande, essendole risultato dopo accurate indagini che era avvenuta soltanto l’uccisione di certo Ligg Gabbedon con pochi suoi seguaci, ma non dai nostri agenti, bensì dalle tribù assaortine tra cui eransi rifugiati; e che se qualche altro individuo di dette bande era stato ucciso nell’essere stato tradotto ai confini per lo sfratto, ciò era avvenuto perchè rifiutavasi di obbedire, o ribellavasi agli agenti od ai soldati. Essa non escluse poi che in certi momenti di torbidi interni e per parte di agenti subalterni e di una polizia indigena ancora mal disciplinata e semibarbara potessero essere avvenuti alcuni altri casi isolati di uccisioni segrete e che si fossero talvolta usati dei maltrattamenti ai detenuti; ma di tali fatti, se erano avvenuti, nessuna responsabilità poteva risalire ai Comandanti superiori che gli ignoravano completamente. La Commissione lasciò poi che il tribunale di Massaua indagasse circa le risultanze della revisione di un processo contro due ricchi indigeni, cioè il negoziante Mussa el Accad e Hamed Kantibai già capo degli Habab, sospettati vittima di calunnie, sull’uccisione di un altro ricco abissino detto Getehon, e su altre uccisioni e ricatti attribuiti a Cagnassi, a Livraghi ed ai loro dipendenti. Pochi mesi dopo una coscienziosa sentenza di detto tribunale metteva in chiaro anche questi fatti e condannando alcuni malvagi agenti indigeni che erano stati gli artefici principali dei mali lamentati nell’amministrazione della Colonia, assolveva gli altri funzionari coloniali.5 Coi giudizi importanti ed autorevoli pronunciati dalla Commissione intorno all’utilità della nostra Colonia, e cogli altri responsi autorevoli e sereni da essa emessi sul contegno dei funzionari coloniali, appoggiati dal verdetto di un tribunale superiore ad ogni sospetto e presieduto da quell’integro ed eminente ufficiale che era il colonnello Cesare Tarditi, l’attuale generale sottosegretario di Stato alla Guerra, l’opinione pubblica si calmò alquanto e si può dire che si calmò del tutto indi a poco quando venne a conoscere l’esito delle trattative intavolate con Mangascià. Il figlio di re Giovanni che non aveva ancora rinunziato in cuor suo all’eredità del trono imperiale, e fremeva di rabbia per la sua forzata sottomissione a Menelik, aveva accolto con giubilo le amichevoli proposte fattegli del generale Gandolfi, e fu pronto con lui ad accordarsi per la stipulazione di un trattato di pace e d’amicizia che riconoscesse all’Italia il confine del Mareb-Belesa-Muna, e lo liberasse da quell’intruso odiato di Mesciascia Uorchiè governatore imperiale di Adua. Questi accordi furono condotti dal dottor Nerazzini che era munito di lettere del nostro Re e del generale Gandolfi, e furono poi sanzionati da un solenne convegno che ebbe luogo sul Mareb il 6 Dicembre 1891 ed al quale convennero il Generale col suo seguito, e Mangascià coi ras Alula e Agos ed altri sottocapi, lasciando le truppe nei reciproci territori. Quivi da ambe le parti fu prestato solenne giuramento di pace e d’amicizia accompagnato da dichiarazioni scritte firmate dal generale Gandolfi e da ras Mangascià6. In seguito a queste pratiche il rappresentante di Menelik, mancatogli l’appoggio dell’Italia dovette lasciare la sua residenza di Adua e ritornarsene allo Scioa, rimanendo tutto il Tigrè oltre la linea del Mareb-Belesa-Muna sotto il dominio di Mangascià, che aveva ottenuto la sottomissione di Sebat dell’Agamè e degli altri sottocapi tigrini, e che si riteneva indipendente dal Negus. Assicurate così le nostre relazioni ed i confini dell’Eritrea verso il Tigrè, pacificatala internamente e palesatene le vere condizioni al pubblico mediante la relazione ed il rapporto della Commissione d’inchiesta, il Gabinetto Di Rudinì, pressato dalla questione finanziaria, senza troppo preoccuparsi del dissidio col lontano Menelik e senza più oltre incontrare gravi opposizioni in Parlamento e nel paese, si diede ad attuare il suo programma di pace e di raccoglimento, riducendo più che fosse possibile le spese della Colonia e restringendone l’occupazione militare permanente quasi esclusivamente intorno al famoso triangolo Massaua Asmara e Keren, donde per mezzo di capi indigeni a noi sottomessi e devoti e di ufficiali italiani distaccati nelle principali località, detti Residenti, sostenuti da bande e da reparti sempre in moto, l’azione governativa si esplicava su tutto il territorio della Colonia. Sui primi di gennaio del 1892 il generale Gandolfi cessava dalle funzioni di governatore civile e militare dell’Eritrea, e nel febbraio successivo gli succedeva il colonnello Oreste Baratieri iniziatore di una novella fase nella storia della nostra Colonia. * * * ↑ Il regio decreto 2 gennaio 1890 stabiliva che a comporre il cosidetto Consiglio di governo concorressero tre consiglieri, cioè uno per l’interno, uno per le finanze e lavori pubblici, ed uno per l’agricoltura industria e commercio; ma questa distinzione, all’atto pratico, dovette modificarsi per difficoltà di uomini e di cose. ↑ Tra le bande principali istituite, oltre a quelle dell’Amasen, del Seraè e dell’Okulé-Kusai, sono da noverarsi quella dei Beni-Amer, dei Baria, degli Ad-Uád, degli Algheden e dei Sabderat. Fu inoltre promossa l’organizzazione militare nei Bazè posti tra il Mareb ed il Tacazzè e tra gli Agazi ed i Betgià situati lungo il Mareb. ↑ Vedasi il testo in appendice. ↑ Queste voci furono originate dalla revisione di un processo, nella quale appariva che il ricco negoziante egiziano Mussa el Accad e l’ex capo degli Habab Ahmed Kantibai già condannati come rei di tradimento alla pena di morte commutata in quella dei lavori forzati a vita, fossero stati vittima di calunnia per parte di agenti della polizia indigena. Cagnassi fu arrestato improvvisamente a Roma e tradotto a Massaua; Livraghi, spaventato, potè riparare in Svizzera, ma poco dopo fu anch’esso arrestato a Lugano donde ne fu ottenuta dai Governo l’estradizione. ↑ Livraghi da Lugano, forse concependo il basso sospetto che i Comandanti superiori rinnegassero la responsabilità di quanto poteva riguardarli, pubblicò a sua discolpa, un memoriale in cui, basandosi su dicerie raccolte nella Colonia, dichiarava che per opera degli uomini del nostro capo di fiducia Adam Agà sarebbero stati sopressi circa 800 individui appartenenti a bande disciolte, ed altri 50 sarebbero stati uccisi isolatamente. Di tanta ecatombe creata dall’esaltazione mentale di Livraghi, e da lui stesso poi smentita, la Commissione potè accertare che le uccisioni collettive non avvennero affatto, e che quelle isolate, anche comprendendo quelle non provate ma solamente sospette, potevano essere in tutto circa 12, od al più 15, ma certamente non più di 20. (Parole testuali della Commissione). ↑ Fu notato al convegno del Mareb il contegno fiero e dignitoso di ras Alula che si tratteneva in disparte e che poi nel giurare i patti dell’accordo dicesi si sia espresso in questo senso: sono servo fedele di ras Mangascià e perciò giuro di essere amico de’ suoi amici; — tradendo con tale giro di parole i suoi propositi tutt’altro che rassegnati contro coloro che lo avevano spogliato de suoi domini. Note PARTE II. * * * La Colonia sotto il Governo di Baratieri e fino alla battaglia d’Adua * * * Indice Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo XVII Capitolo XVIII CAPITOLO X. (1892-1896) * * * Oreste Baratieri governatore civile dell’Eritrea — Arimondi comandante delle truppe — Riforme e provvedimenti interni — Meccanismo governativo — Bilancio unico — Ordinamento militare e giudiziario — Altri provvedimenti — Indemaniamento — Colonizzazione — Risultati. Il colonnello Oreste Baratieri, che con regio decreto delli 28 febbraio 1892 veniva eletto a successore del generale Gandolfi era destinato dalla sorte a lasciare nella storia della Colonia delle traccie indelebili. Trentino d’origine, antico garibaldino della spedizione eroica dei Mille, deputato al Parlamento da parecchie legislature, lodatissimo scrittore di cose civili e militari, membro della Società Geografica Italiana, ed in relazione d’amicizia cogli uomini più eminenti del nostro paese, la sua elezione fu accolta con universale simpatia, massimamente nella Colonia, ove, tanto nel 1887-88 sotto San Marzano, quanto e più specialmente nel 1890-91 sotto il generale Gandolfi, aveva lasciato gratissimi ricordi di sè. Però ai pregi superficiali dell’uomo non corrispondeva pur troppo l’intrinseco suo valore e l’Italia doveva ben presto amaramente pentirsi della scelta fatta. Il lungo governatorato di Baratieri oltre che per le imprese ed avvenimenti guerreschi, andò segnalato per un fecondo lavorìo di riforme e di provvedimenti interni che si svolsero su tutti i rami dell’amministrazione coloniale. Secondando i suoi disegni ambiziosi e la sua disposizione a legiferare propria dell’uomo parlamentare, egli si diede a tutto modificare, tutto correggere, tutto impiantare su nuove basi che avessero l’impronta sua, che legassero il suo nome alla Colonia, e che ne accentrassero nelle proprie mani l’intera ed assoluta autorità. Cominciando dalla propria carica egli volle esaltarla circondandola di un fasto viceregale. Il Governatore ebbe titolo d’Eccellenza, pomposo seguito e contorno nelle riviste nei ricevimenti e nelle feste; dalle truppe e dai coloni in tutte le occasioni pubbliche e private le più grandi manifestazioni d’onore. Ma prima ancora che alla dignità della sua carica, Baratieri mirò ad integrarne l’autorità, alquanto menomata dal regio decreto 1 ottobre 1891, che aveva istituita l’altra immediata di Comandante delle truppe, affidata al colonnello Arimondi; e con regio decreto delli 10 marzo 1892 otteneva la facoltà di poter assumere il comando delle operazioni militari in caso di bisogno, lasciando in tal caso al predetto ufficiale la carica di Capo di stato maggiore. Anche il Comando locale marittimo di Massaua, che viveva quasi autonomo alla dipendenza del proprio ministero, fu attratto nell’orbita e sotto la suprema autorità del Governatore, cambiando nome con quello di Stazione Navale del Mar Rosso (regio decreto 8 dicembre 1892). Ma ciò che più importava a Baratieri era di avere a sua disposizione un bilancio unico speciale per la Colonia, onde poter esplicare la propria azione governativa senza aver bisogno di ricorrere ad ogni momento pei relativi fondi a tre ministeri (esteri, guerra e marina), e dal 1 luglio 1894 ebbe anche quello (regio decreto 18 febbraio 1894). Con tale nuova creazione il Governatore assumeva la gestione diretta di tutti i proventi e le spese di carattere coloniale, con facoltà di disporne a proprio talento secondo il bisogno e sotto la esclusiva dipendenza del Ministero degli Esteri. Concentrata così in sè ogni autorità politica e militare sulla Colonia, ed emancipatala quasi amministrativamente dalla madre patria, Baratieri si diede a coordinarne ai propri intenti tutto il funzionamento. Per la diramazione del potere governativo, oltre all’ufficio del governatore donde emanava la suprema volontà, furono istituiti un Ufficio Politico Militare sopraintendente a tutti i servizi politici e militari della Colonia; specie di Gabinetto dell’interno, degli esteri, e della guerra, ed al quale fu preposto il capitano Salsa; un Ufficio Centrale Amministrativo incaricato della compilazione dei bilanci, di sopraintendere ai servizi di cassa, e di tutti gli altri provvedimenti amministrativi in genere; un Ufficio degli Affari Civili incaricato di dirigere i servigi di dogana, porto, posta e telegrafi, stato civile, igiene, sanità, culto ed istruzione pubblica; un Ufficio Demaniale incaricato del’indemaniamento e della gestione dei territori spettanti allo stato; ed un Ufficio del Consulente legale funzionante da avvocato erariale per la Colonia. Quali organi secondari per l’esplicazione del potere governativo furono mantenuti i RR. Commissari preposti alle Zone e Sottozone e gli Ufficiali Residenti distaccati presso le tribù soggette o protette, i quali ebbero per missione di tenersi in diretta comunicazione coll’ufficio politico militare, di far sentire l’opera del governo tra le popolazioni, di estendere e dirigere il servizio d’informazione, di sorvegliare l’opera dei Capi nativi, di studiare le regioni e le loro risorse ed anche all’occorrenza di assumere il comando delle bande armate. A questo riordinamento del meccanismo governativo si accompagnarono e seguirono i provvedimenti militari, giudiziari ed amministrativi. Le truppe coloniali con regio decreto 11 dicembre 1892 furono ordinate sul piede seguente: Italiani — 1 battaglione cacciatori, 1 sezione operai d’artiglieria, 1 sezione di sanità, 1 sezione di specialisti del genio. Indigeni — 4 battaglioni, 2 squadroni di cavalleria, 2 batterie da montagna. Truppe miste — 1 compagnia cannonnieri, 1 compagnia treno, 1 compagnia sussistenza. In tutto 6561 uomini dei quali 2115 italiani ed il resto indigeni. Furono modificate ancora, sebbene con poca variazione di forza, col regio decreto 18 febbraio 1894, che le metteva in armonia colle esigenze del bilancio coloniale; venne istituita pel caso di guerra la milizia mobile indigena che diede un contingente istruito e disciplinato di oltre 2000 uomini pronti ad accorrere ad ogni chiamata del governo, ed aumentate e riordinate le bande la cui forza fu portata ad oltre 1200 uomini con speciale cura per quelle del Seraè e dell’Okulè Kusai1, il cui comando venne infine affidato a valorosi ed esperti ufficiali italiani. Fu pure istituita una speciale milizia mobile europea composta di tutti i bianchi residenti nella colonia destinati in caso di bisogno alla difesa della piazza di Massaua. I risultati ottenuti da questi ordinamenti militari, finchè l’opera delle truppe si contenne nei limiti del ragionevole e del possibile furono addirittura splendidi, e più volte la storia ebbe a registrare dei successi e delle vittorie che levarono ben alta la fama delle nostre armi coloniali. I provvedimenti d’ordine giudiziario vennero a stabilire sulle seguenti basi il relativo ordinamento. A Massaua, e con giurisdizione civile e penale sugli europei ed indigeni della rispettiva Zona distretto, il conciliatore, il giudice unico, un tribunale civile e penale, ed un altro militare; nonchè un tribunale speciale penale funzionante da Corte d’Assise per tutta la colonia, compreso il territorio d’Assab. Nelle zone di Asmara e di Keren per le cause religiose e civili funzionarono le assemblee dei notabili o dei Cadì o dei capi tribù, secondo le consuetudini in uso, col concorso degli Ufficiali Residenti come conciliatori; talune cause civili furono affidate a speciali tribunali d’arbitrato, e quelle penali di una certa importanza devolute ai rispettivi tribunali militari di zona. Baratieri cercò inoltre di dare una spinta al commercio della colonia favorendo lo smercio dei tessuti di cotone che sono l’unica industria delle popolazioni indigene, ed abolendo il dazio della madreperla che è la più importante delle poche industrie locali e ne ritrasse, specialmente nella madreperla, dei sensibili vantaggi. Procedè inoltre al riordinamento dei tributi tra le popolazioni indigene dai quali potè ricavare la somma annua non disprezzabile di oltre 250000 lire. Sempre in relazione ai mezzi consentiti del bilancio, che sulla somma complessiva oscillante quasi sempre intorno agli otto milioni, ne devolveva un paio solo a favore di tutti i rami dell’Amministrazione civile, comprese 300000 lire di sovvenzione per la costa del Benadir, furono eseguiti alcuni lavori pubblici e specialmente stradali che riuscirono di grande utilità per la Colonia. Tra questi va specialmente noverato il così detto triangolo stradale Saati-Asmara-Keren che, già iniziato precedentemente, fu condotto a termine sotto il governo Baratieri, e nel quale, più che gli operai indigeni e italiani, ebbero merito le truppe coloniali e specialmente quelle del genio. È pure da ricordarsi il largo impianto telegrafico che avvinse con una fitta rete di fili tutte le principali località della Colonia e che fu di grande aiuto in tutte le operazioni militari. Ma tra i provvedimenti e gli studi d’indole economica compiuti sotto il governo del generale Baratieri, i più importanti e di maggiore interesse per l’Italia e per l’avvenire della sua Colonia, furono gli indemaniamenti territoriali e gli esperimenti di colonizzazione agricola, eseguiti prima per cura del deputato Franchetti, e proseguiti poscia per cura dell’Ufficio del Demanio detto anche Ufficio di Colonizzazione. La proprietà fondiaria in Abissinia fu sempre considerata di spettanza assoluta dei Sovrani che, sotto la sorveglianza dei rispettivi Ras, Degiacc e Scium ne cedevano l’uso e la coltivazione collettiva alle stirpi o tribù riunite nei comuni (gulti) o comunelli (addi). Ciò avvenne quasi sempre senza formalità di sorta ed anche senza stabilità, specialmente in causa delle frequenti guerre e dei continui cambiamenti nei Capi. A queste stirpi o tribù furono annessi gli obblighi di fedeltà al Sovrano, del pagamento di un certo tributo ai Capi e al Negus (Ghebri), del mantenimento delle truppe di guarnigione o di passaggio (Fasas) di accorrere alla chiamata per la guerra (Chitet), di abitare e coltivare il territorio concesso. Il Governo italiano invece, per non irritare le popolazioni indigene e per mantenersele buone ed affezionarsele, lasciò che esse continuassero tutte a fruire mediante lievi tributi ed obblighi quasi identici o meno gravi degli antichi, dei loro territori, limitandosi a indemaniare ed a rendere proprietà dello stato tutti quegli altri che erano abbandonati o di incerta e mal definita proprietà,2 e destinò questi territori pei suoi esperimenti di colonizzazione agricola. Per cura del deputato Leopoldo Franchetti, oltre ai tre poderi sperimentali governativi di Asmara, Godofelassi e Gura, furono tentati nell’altipiano degli altri esperimenti di colonizzazione privata conducendovi dall’Italia alcune famiglie di contadini, arruolati con atto notarile, alle quali furono concessi dal governo sovvenzioni di denaro, vitto, strumenti e semi e la facoltà di diventare proprietari del terreno, il tutto da rimborsarsi coi suoi prodotti. Questi coloni furono stabiliti intorno a Godofelassi, ove fu per loro costituito apposito villaggio; e secondo la relazione che il Franchetti fece poi al Parlamento, ottennero dalla loro opera tale risultato da ritenere possibile il moltiplicarsi dell’immigrazione in ragione geometrica. Ciò venne desunto dal fatto che ciascuna famiglia in un anno di lavoro raccolse non solo prodotti agricoli pe’ suoi bisogni e per la nuova semina; ma anche in tale quantità esuberante da provvedere al vitto di un’altra nuova famiglia di coloni durante il suo primo anno di esperimento. Rimpatriato il Franchetti, l’incarico di dirigere e sorvegliare la colonizzazione agricola e di regolare le concessioni di terreno ai coloni, fu affidato all’Ufficio del Demanio, e ne seguirono altre disposizioni e decreti, tutti intesi a facilitare che gli emigranti coloni nell’Eritrea vi divenissero contadini proprietari, secondo le idee già manifestate dalla commissione d’inchiesta del 1891. Se non che i gravi avvenimenti guerreschi che agitarono in seguito le Colonia vennero a portare un profondo turbamento ed un ristagno nella sua colonizzazione agricola, sicchè finora non se ne poterono poi trarre tutti gli sperati vantaggi. Dai pochi esperimenti fatti però nei poderi governativi, in quelli privati dei coloni, e degli stessi ascari si potè conoscere che molte plaghe del territorio eritreo sono feconde di produzioni agricole ed atte alla colonizzazione. Il frumento, l’orzo, la dura, le fave, i ceci, le patate ed altre piante erbacee, diedero già dei prodotti sufficienti fin dalle prime semine; e se molte piante arboree come la vite, il gelso, il melo ed il pero, il fico, il ciliegio, ed altri frutti, considerato il breve tempo della loro coltivazione, non poterono ancora appagare l’opera del colono, non è esclusa la speranza che, col progresso del tempo e del lavoro, anch’essi diano risultati proficui da compensare le spese e la fatica di coloro che vi si dedicarono3. Complessivamente si può dire che i vari provvedimenti di amministrazione o di politica interna emanati sotto il governo di Baratieri, se anche prestarono il fianco a molte critiche non riuscirono in massima infecondi di bene: così che se i loro frutti non fossero poi stati compromessi dalle folli e temerarie ultime imprese contro l’Abissinia, l’Eritrea avrebbe potuto col tempo risentirne senza dubbio dei notevoli vantaggi. * * * ↑ Quella dell’Amasen fu sciolta perchè funestata da continue ribellioni, in una delle quali fu vittima il povero capitano Bettini. ↑ Furono indemaniati circa 4500 Ettari di terreno produttivo. ↑ Negli ultimi tempi per iniziativa del Senatore Rossi si stabilì un’altra Colonia Agricola a Keren nei terreni già appartenenti alla Missione lazzarista francese. Note CAPITOLO XI. (1892-1894) * * * Lotte contro i Mahdisti — Combattimento di Serobeiti — Battaglia di Agordat — Conquista di Kassala. Le prime lotte che ebbe a sostenere la Colonia sotto il governatorato di Baratieri furono contro i dervisci, seguaci del Mahdismo. Il trionfo della rivolta sudanese aveva avuto per risultato la costituzione di un vasto impero Mahdista, che da Rediaf, al 4° di latitudine nord, si stendeva fin quasi alla seconda cateratta del Nilo; verso est si spingeva fin contro Suakim, le regioni del Barca e dell’impero etiopico; ad ovest andava quasi a toccare quelle del Wadai. Erano circa due milioni di kmq. di territorio e non meno di dieci milioni di abitanti che in poco più di tre anni erano stati sottratti al dominio dell’Egitto e sottoposti a quelli del Mahdi. Ma la morte di questo profeta e condottiero, avvenuta quasi improvvisamente nel giugno del 1885 mentre egli era al colmo de’ suoi trionfi, dette un colpo mortale all’opera sua. Prima di morire il Mahdi elesse e proclamò solennemente a suo successore Abdullahi, uno de’ suoi tre Kalifa, il quale era stato il suo vicario e consigliere nelle grandi imprese compiute e più volte aveva avuto da lui segni palesi della sua speciale preferenza e benevolenza; ma sebbene questi riuscisse subito ad ottenere il riconoscimento e la sottomissione degli altri Kalifa e di tutti gli Emiri, ed a stringere in pugno la rivoluzione ancora allagante nel Sudan, era ben lungi dall’avere l’ascendente del suo predecessore. Tuttavia i primi anni del dominio di Abdullahi continuarono ad essere allietati dal successo. L’apostolato religioso del Mahdi aveva prodotto in quelle popolazioni ignoranti ed impulsive degli effetti irresistibili, e ne erano scaturiti, come al tempo della rivoluzione francese, dei condottieri e degli eroi. Avvennero le prese di Kassala e di Sennaar, la completa conquista del Darfur, le strepitose vittorie di Abu Anga e Zaki Tummal contro l’Abissinia, le spedizioni vittoriose nel Bahr el Gazal e nell’Equatoria, e parve per qualche tempo che l’opera del Kalifa proseguisse e completasse quella del Mahdi. Ma poi l’entusiasmo cessò; l’ingordigia e la crudeltà del Kalifa e de’ suoi Emiri, che valendosi del manto religioso spogliavano e dilapidavano le misere popolazioni soggette, tutto volgendo a proprio vantaggio ed a quello di poche tribù adepte privilegiate, e le tiranneggiavano, esercitando sui deboli e sui vinti degli atti di inaudita barbarie, suscitarono il disgusto e l’avversione anche tra i più devoti seguaci del Mahdismo. La ferocità del Kalifa non ebbe limiti nel custodire e difendere il suo potere contro tutti coloro che vi si ribellavano, o che lo disconoscevano, che semplicemente lo discutevano. Una sola ombra di opposizione ai suoi voleri, od un sol dubbio pronunciato sulla sua pretesa missione divina attirava i fulmini dell’ira sua. Intere tribù furono per ordine suo giustiziate ed uccise a colpi di randello; nelle prigioni molti soccombettero tra gli spasimi della fame; dignitari e generali ed uno stesso Kalifa suo collega soffrirono le pene più strazianti; e perfino i parenti del Mahdi che gli davano ombra furono perseguitati, imprigionati e sterminati. Alla fine apparve il dissolvimento. Al fanatico ed invincibile Mahdista era successo il querulo questuante Dervis mal pagato e mal nutrito e costretto a continue razzie per vivere; ed a lui l’accresciuta miseria e schiavitù e lo svanire, senza alcun frutto, delle lusinghiere promesse del Mahdi avevano affievolito la fede ed il valore guerriero; la popolazione, ridotta dalla fame e dalle stragi a poco più della metà, languiva debole ed inerte senza traffici e senza alimenti nel più desolante squallore; e mentre ai tempi del Mahdi essa co’ suoi slanci e co’ suoi impeti di fanatismo aveva potuto costituire delle armate di oltre 100000 uomini che spazzarono il dominio egiziano, ora si dimostrava insensibile ai continui esortamenti religiosi del Kalifa e lo secondava più per timore che per amore, riuscendo a stento nei momenti del bisogno a formar delle accozzaglie senza disciplina e senza entusiasmo che più non toccarono che continue sconfitte. Di questo stato di debolezza interna del Sudan non tardarono a giovarsi i nemici esterni prementi da tutte le parti i suoi vasti confini; e primieramente e principalmente l’Italia. Essa che nel giugno 1890 aveva già inflitto ai Mahdisti una severa lezione ad Agordat, li tornò ad incontrare due anni dopo poco lontano alla stessa località, e ne otteneva un’altra vittoria. Nella metà di giugno 1892 un migliaio circa di essi usciti da Kassala si spingevano fin contro Agordat incendiando villaggi e razziando armenti e vettovaglie. Il capitano Hidalgo, uscito da questo forte con 120 ascari e riunitosi con 200 uomini delle bande del Barca, andò ad incontrare i Mahdisti nelle vicinanze di Serobeiti, ed attaccatili arditamente riuscì a sconfiggerli completamente uccidendone centocinquanta e riconquistando le prede razziate. I dervisci tornarono in campo contro l’Eritrea anche nel successivo anno 1893 e questa volta con intenzioni e preparativi molto maggiori. Il Kalifa Abdullahi irritato per le due sconfitte di Agordat e di Serobeiti subite contro gli italiani aveva deciso di intraprendere contro di essi una grande spedizione; e ne affidò il comando al suo cugino Ahmed Ali, successo a Zaki caduto in disgrazia, nel comando delle truppe del Ghedaref. Questi raccolse un esercito di oltre 10000 fucili e 4000 lancie e lo radunò in Kassala, donde poi mosse contro la nostra Colonia coll’intento di impadronirsi del forte di Agordat e di spingersi poscia su Keren e su Massaua. Questa invasione avvenne in un momento nel quale l’Eritrea era immersa nella più profonda tranquillità e lo stesso Baratieri trovavasi in licenza a Roma; e fu eseguita con tanta segretezza e celerità che ci volle tutta la sapienza e l’oculatezza del colonnello Arimondi e l’estrema mobilità delle nostre truppe indigene per poter concentrare in Agordat due squadroni di cavalleria, due batterie da montagna e le bande irregolari del Barca, cioè 2402 uomini in tutto, tra cui 42 ufficiali e 33 sottufficiali e soldati italiani, 212 cavalli e 8 cannoni. Il 21 dicembre 1893, alle ore 11, l’intero corpo dei dervisci, opportunamente attirato verso il forte da bande e reparti speditigli incontro a molestarlo da Arimondi, passando il Barca, a valle di Agordat, aveva aggirato la destra di questa posizione, e ripassando nuovamente il fiume a monte era riuscito a stabilirsi nei villaggi di Sabderat e Algheden e lungo le linee dei torrenti Inchierai e Damtai ad est e sudest di Agordat, interponendosi così tra le nostre truppe e la loro base d’operazione Keren. Dubitando Arimondi che dalle predette posizioni il nemico volesse tentare un assalto notturno contro il forte, ciò che avrebbe paralizzato tutta l’azione delle nostre truppe molto minori in numero ed impossibilitate dall’oscurità della notte a valersi dell’efficacia del tiro, decise di prevenirle subito nell’attacco. La fronte delle nostre truppe (verso est sud-est) contro i dervisci fu così disposta: a destra contro il Damtai il colonnello Cortese col battaglione Galliano ed una batteria d’artiglieria; al centro nel forte, una compagnia ed una batteria; a sinistra presso il Barca, una compagnia, e poco dietro, tenute in riserva, due compagnie, due squadroni, e una banda d’irregolari. Il movimento fu iniziato dall’ala destra, ed il capitano Galliano verso mezzogiorno si slanciò ad attaccare il nemico riuscendo a passare il Damtai e ad occupare un’altura tra questo torrente e l’Inchierai suo affluente. Ma contro l’ardito battaglione si avventò allora una gran massa di dervisci che dopo circa una mezz’ora di combattimento, micidialissimo per ambe le parti, lo costringeva a ritirarsi verso il forte lasciando in potere del nemico le artiglierie. Arimondi schierò allora le sue riserve e rinforzata l’ala destra del colonnello Cortese, la lanciò nuovamente all’assalto secondandola col vivissimo fuoco del grosso e del forte. Il battaglione Galliano dopo aver fatto eroici sforzi potè riconquistare le sue posizioni e la sua artiglieria; ed il generale Arimondi facendo poi convergere tutte le forze a sinistra verso il Barca, col fuoco e cogli assalti alla baionetta riusciva a sbaragliare completamente l’esercito nemico. I dervisci incalzati da tutte le parti furono posti in piena rotta e costretti a ripassare disordinatamente il Barca per riguadagnare la linea di ritirata, lasciando sul terreno ed in potere dei nostri più di 1000 morti, fra cui il comandante Hamed Alì, quasi tutti gli Emiri, un gran numero di feriti e prigionieri, 73 bandiere, una mitragliera, 700 fucili e moltissime lancie. Da parte nostra, tra gli italiani caddero morti il capitano Forno, il tenente Pennazzi Lincoln, il tenente Colmia ed il furiere Profili e rimasero feriti gravemente i tenenti Mangiagalli e Brizio. Tra gli indigeni si ebbero 98 morti e 123 feriti. Fu questa una delle più belle azioni guerresche compiute dalle nostre truppe coloniali. Il colonnello Arimondi che la diresse con tanta sapienza militare e tanta bravura, ne ebbe elogi universali, e dal governo di Crispi succeduto proprio in quei giorni a quello dimissionario di Giolitti, gli fu conferita la promozione a maggior generale per merito di guerra. Gli effetti che la battaglia di Agordat produsse a Ondurmann, la nuova capitale fatta costrurre da Abdullahi nelle vicinanze di Kartum, stando alle testimonianze di Slatin Pascià prigioniero ed aiutante forzato del Kalifa stesso, furono addirittura disastrosi. Il Kalifa si affannava a nascondere la verità intera al suo popolo, affermando che i sudanesi si erano battuti da eroi e che avevano ucciso un doppio dei loro nemici, ma ben presto venne a sapersi che i dervisci avevano perduto più di 2000 uomini tra morti e dispersi e che gli italiani avevano ottenuto con pochissime forze una strepitosa vittoria. Dopo la predetta battaglia il Kalifa rinforzò Kassala per premunirla da un temuto assalto degli italiani; ma anche questa città doveva in breve essere sottratta al suo impero. Kassala oggetto di tante preoccupazioni quando infieriva il Madhismo, e che formò si può dire l’obiettivo principale della nostra occupazione di Massaua, dopo la sua caduta nelle mani dei dervisci era divenuta la loro base principale d’operazione per tutte le escursioni e razzie che eseguivano nella nostra Colonia e tra le tribù da noi protette. Situata sulla destra del Gasc in territorio salubre ed ubertoso, ricco di pascoli e di mandre, fecondo di cotone, di cereali ed altri prodotti, e stazione principale sulle vie che da Berber e da Kartum conducono all’Abissinia ed alle coste del Mar Rosso, prima che il Madhismo la segregasse dall’umano consorzio era uno dei punti più frequentati ed una delle città più commerciali e fiorenti del Sudan egiziano. Avorio, pelli, penne di struzzo, gomma, caffè, tabacco, zibetto e dura alimentavano il suo mercato; numerose carovane soggiornavano sotto le sue mura, il pellegrinaggio della Mecca le apportava un continuo movimento e la metteva in comunicazione con tutto il mondo mussulmano. Il generale Baratieri ritornato nell’Eritrea nel gennaio 1894, ancora sotto le impressioni degli applausi risonanti in Italia all’indirizzo del vittorioso Arimondi, vide nei nuovi orizzonti creati dalla vittoria di Agordat l’opportunità di un’impresa militare su Kassala, e si diede a vagheggiarla ed a studiarla, sebbene in seguito al protocollo 15 aprile 1891, l’Italia non potesse aspirare ad una occupazione definitiva di detta città. Non tardò molto che egli ne fece proposta al Governo e la giustificò come una necessità politica e militare imposta dalle continue minaccie e dai preparativi ostili del Kalifa, dal moltiplicarsi delle razzìe nemiche che infestavano le tribù occidentali della Colonia, nonchè dalle voci inquietanti provenienti dall’Abissinia che esigevano si risolvesse immediatamente e definitivamente ogni quistione col Sudan per aver le mani libere poi. Il Governo si lasciò persuadere e diede la sua autorizzazione. In seguito a ciò il 12 luglio 1894 Baratieri faceva radunare con tutta celerità e segretezza un corpo d’operazioni ad Agordat ed egli stesso ne assumeva il comando per muover di sorpresa su Kassala. Era composto di 56 ufficiali e 45 militari di truppa italiana, 16 jus basci (sottotenenti indigeni) e 2510 ascari, con circa 600 quadrupedi, e ne faceva pur parte come comandante in 2.° il generale Arimondi. Il corpo d’operazione il 16 luglio arrivava alla gola di Sabderat, donde riprendendo a tarda sera la marcia, giungeva davanti a Kassala all’alba dell’indomani. Quivi presidiavano 2600 dervisci accampati nella maggior parte a nord nord-est della città, forti di circa 1000 fucili e 1600 lancie compresi 600 cavalieri baggàra; e nessun sentore avevano avuto dell’appressarsi de’ nostri. Solo verso le 6 apparve sulla destra un corpo stormeggiante di cavalleria nemica che si recava a razziare nei dintorni. In breve la nostra avanguardia comandata dal maggiore Hidalgo aprì il fuoco contro di essa e poco dopo anche lo squadrone di cavalleria comandato dal capitano Carchidio, uscito dal quadrato del grosso, si slanciava alla carica sulla cavalleria nemica che fu tosto dispersa. In questa brillante carica il valoroso Capitano lasciava la vita unitamente a 18 ascari. Ma oramai tutte le truppe italiane, girata la punta nord del monte di Kassala erano penetrate nella vasta pianura solcata dal Gasc, e l’avanguardia si era avanzata fino a 400 metri dal campo nemico che, svegliato e chiamato alle armi da una parte della sua cavalleria si schierò tosto in battaglia. Si impegnò allora il combattimento tra il nemico e la nostra avanguardia, a rinforzare la quale Baratieri spedì tosto due compagnie, mentre un’altra comandata dal capitano Spreafico fu spedita contro il così detto Beth Mala o deposito del governo sudanese; ed in breve sotto il fuoco ben aggiustato dei nostri i Mahdisti hanno la peggio, ed anche la loro cavalleria che aveva tentato di riordinarsi è sbaragliata e dispersa. Allora Hidalgo si slancia coll’avanguardia alla baionetta e riesce con poderoso sforzo, secondato anche del fuoco della compagnia del capitano Spreafico, a impadronirsi del campo nemico, cacciando in fuga i dervisci che si ritirano precipitosamente e disordinati lungo il Gasc e verso l’Atbara. Poco di poi anche il grosso delle truppe italiane col generale Baratieri alla testa entrava nella vecchia città egiziana e vi disperdeva le ultime resistenze tra le vie e per le case, proseguendo fino alle rive del Gasc e lanciando poi alcuni reparti all’inseguimento dei vinti. Questo inseguimento però non potè essere molto vigoroso perchè i dervisci si sottrassero con una rapidità vertiginosa cacciati in fuga della loro stessa cavalleria, e perchè le fatiche del combattimento e quattro giornate di continua marcia avevano rese stanche le nostre truppe. Furono trofei di questa vittoria 600 fucili, 700 lancie, 52 bandiere, 2 cannoni, molti cavalli ed armenti, nonchè una grande quantità di dura e munizioni. Furono inoltre liberati molti prigionieri egiziani che fin dalla caduta di Kassala nelle mani del Madhi erano rimasti incatenati barbaramente nella città in preda ad inumane sofferenze e privazioni. Numerosi Capi di tribù dei dintorni recaronsi a fare atti di sottomissione a Baratieri, il quale accordò loro la protezione dell’Italia, promovendo in essi l’istituzioni militari necessarie a guardia dei loro possedimenti e confini contro il comune nemico. Le tribù che si erano compromesse colle armi alla mano, fuggirono presso Osman Digma. L’impresa di Kassala a tutta prima aveva avuto uno scopo puramente militare cioè quello di dare un colpo al Mahdismo e di abbattervi la base di operazione nemica contro l’Eritrea. Raggiunto il predetto scopo, il corpo di operazioni stava per abbandonare la città e ritornarsene nei vecchi confini, quando venne l’ordine dal Governo di mantenerla. Allora Baratieri dispose che fosse costruito un forte capace di difendere la nuova conquista destinandovi di presidio il maggiore Turitto con 4 compagnie indigene e 2 pezzi di artiglieria; e provvide perchè fossero raccolti e conservati i depositi di vettovaglie e munizioni trovati, dei quali era già cominciata l’opera di distruzione. Quindi il 23 luglio ritornava a Massaua. La conquista di Kassala fu un avvenimento politico e militare di non lieve importanza. Esso diede il primo grande strappo alla potenza del Kalifa e segnalò al mondo una quarta brillante vittoria delle armi italiane contro i Mahdisti.1 Tuttavia l’Italia non trasse dalla nuova conquista tutti i vantaggi sperati. L’enorme distanza da Massaua a Kassala la scarsità delle forze disponibili per presidiarla, nonchè la conformazione pianeggiante del suo territorio che, essendo il Gasc quasi sempre ed ovunque guadabile, rimaneva aperto ed esposto a qualsiasi minaccia e non offriva alcuna linea di efficace difesa verso il Sudan, rendevano dubbia ed instabile la sicurezza della nuova regione conquistata, e pochi frutti potevano quindi ricavarsi dalle coltivazioni dai pascoli e dall’annodamento di relazioni commerciali. Le nostre poche truppe lasciate intorno a Kassala raddoppiarono di sforzi e di valore per difendere e mantenere la nuova conquista e più volte con ardite escursioni si spinsero fino ad Osobri, a Meluia ed ad El-Fascer, ma furono tutti sforzi inani che valsero a persuadere il Kalifa che gli italiani non potevano fare di più, ed a tranquillizzarlo nella sua reggia di Ondurmann. Egli si limitò pertanto a rinforzare la linea dell’Atbara concentrando un corpo sotto Osman Digma a Gos Regieb ed un altro corpo di 1000 fucili ad El-Fascer, e per qualche tempo lasciò in pace la nostra Colonia che così potè compiere intorno a Kassala alcune coltivazioni che dettero dei frutti davvero prodigiosi. Ma questa calma non durò a lungo; e non tardarono i giorni che per difender Kassala, i suoi campi coltivati ed i suoi frutti maturi dalle invasioni rapaci dei dervisci furono necessari ben altri mezzi di difesa che il forte fattovi costrurre da Baratieri e le poche truppe destinatevi di presidio. Perciò la conquista di Kassala che sarebbe stata utilissima quando il Sudan fosse ricaduto in mano di una potenza civile, che ne avesse resi tranquilli i confini, sviluppati i prodotti, i commerci e le ricchezze, in quei tempi ed in quelle condizioni divenne per la nostra Colonia un’elemento di debolezza. Baratieri nel suo libro afferma che l’annessione di detta città avvenne contrariamente alle sue intenzioni; e di aver insistito presso il Governo o perchè l’abbandonasse o perchè promovesse l’immediata ripresa della campagna anglo-egiziana nel Sudan. Se non che l’essersi poi acconciato così facilmente e senza gravi proteste alle nuove responsabilità politiche e militari creategli dalla novella conquista fa pensare che anch’egli abbia finito per essere dello stesso parere del Governo. * * * ↑ Narra Slatin Pascià che la presa di Kassala produsse un indicibile spavento in Ondurmann, ove da un momento all’altro si temette di vedere arrivare gli audaci e vittoriosi italiani. Il Kalifa andò su tutte le furie, e minacciò solenne vendetta. Alla presenza di una grande riunione di popolo si lanciò col cavallo nelle acque del Nilo, quindi brandendo alto la sciabola, e rivolgendone la punta verso Kassala, gridò più volte con voce tonante: Allahu Akbar! - giurando a Dio di riconquistare la città perduta. Note CAPITOLO XII. (1894-95) * * * Relazioni tra l’Italia, il Tigrè e lo Scioa — Ribellioni interne del Tigrè — Missione Traversi allo Scioa — Formale denuncia del Trattato d’Uccialli — Missione Piano allo Scioa — Mangascià a Adis Abeba — Suo ritorno e suoi preparativi — Sua intesa con Batah Agros capo dell’Okulè-Kusai — Rivolta di costui — Combattimento di Halai — Morte di Batah Agos — Mangascià accoglie i ribelli superstiti — Ultimatum di Baratieri a Mangascià — Baratieri ad Adua — Mangascià minaccia e invade l’Okulè-Kusai — Giornate di Coatit e Senafè. Le armi italiane riposavano da poco dalle lotte contro i dervisci quando incominciarono i primi torbidi verso l’Abissinia. Lo stato di pace e di quiete creato tra l’Eritrea ed il Tigrè dal trattato del Mareb durava inalterato da quasi tre anni senza che da una parte o dall’altra fossero sorti dissidi od avvenute delle infrazioni di patti. Tuttavia il Governo eritreo non aveva sempre potuto riposare sopra una perfetta tranquillità, sia per causa delle agitazioni interne che infestavano il Tigrè, sia per le relazioni politiche che esistevano tra Mangascià ed il Negus, le quali facevano temere che da un momento all’altro riuscissero a modificare l’animo del nostro alleato. Nell’interno del Tigrè ras Alula non sapeva rassegnarsi a quello stato di cose che lo aveva spogliato del suo adorato dominio dell’Amasen; nè ras Sebath aveva rinunziato alle sue brame d’indipendenza dell’Agamè. Questi due Ras si erano intesi fra loro, cercando di dar del filo da torcere a Mangascià e agli Italiani. Cominciò ras Alula a sollevarsi in armi e nel dicembre 1892 catturava improvvisamente il nostro residente in Adua, capitano De-Martino. Accorso Mangascià, il fremente ribelle fu in breve vinto e perdonato, ma dopo poco tempo si ribellò ancora. Le agitazioni interne tigrine alla fine poterono essere domate da Mangascià, che debellato e reso impotente il vecchio Alula, lo perdonava nuovamente, e coadiuvato da un certo Tesfai Antalo, riuscì pure a sbarrazzarsi di ras Sebath, che fu preso e relegato sull’inaccessibile Amba Alagi. In questo frattempo Mangascià non aveva fatto che moltiplicare le sue proteste di amicizia verso l’Italia, inviando continuamente a Baratieri il solito John Bascià incaricato di manifestare i sentimenti del suo signore, e di chiedere continui aiuti materiali e morali per domare i Ras ribelli e preparare della resistenza alle minaccie di Menelik, e sollecitando più volte un convegno segreto personale col Governatore per intendersi; convegno che non fu mai concesso. Viceversa l’Italia aveva mantenuto verso Mangascià un contegno di benigna neutralità che lo aveva poco lusingato. Essa non gli diede che delle buone parole e dei platonici consigli. Anzi, invece di aiutarlo a sostenersi ed a emanciparsi contro il comune nemico Menelik, preferì ritentare segretamente le vie diplomatiche per pacificarsi con costui, servendosi del dottor Traversi. Ma anche questo tentativo andò fallito. Traversi giunse ad Adis Abeba nel febbraio 93, e quali risultati vi ottenesse appare dal fatto che il 27 di detto mese Menelik, ascoltando le proposte di maligni consiglieri europei che facevano all’Italia una spietata guerra diplomatica, e tra i quali pare che primeggiasse per influenza lo svizzero ingegnere Illg, denunziò formalmente alle potenze il Trattato d’Uccialli. Le notizie di questa missione e delle nuove pratiche che l’Italia aveva aperte con Menelik, mentre avevano portato lo spavento nell’animo di Mangascià, concorsero certamente ad intiepidire l’animo suo ed a renderlo più che mai diffidente. Egli temette di essere giuocato e poi gettato in potere di Menelik; per cui approfittando degli inviti continui che costui gli faceva perchè si recasse allo Scioa a farvi atto di sommissione ed a scolparsi della sua alleanza cogli Italiani, e dando ascolto ai consigli del suo amico Tesfai Antalo, convertitosi di recente alla causa scioana, pensò di aderire a tale invito e di piantare in asso i suoi alleati bianchi. La denunzia del trattato d’Uccialli impressionò ben poco l’Italia. Il ministero Giolitti succeduto a quello Rudinì il 15 maggio 1892, assorto nelle difficoltà politiche, economiche e bancarie che angustiavano la patria, non potè opporvi alcun efficace riparo; e proprio allora che ritentava riannodare le relazioni intiepidite con Mangascià, aderendo al convegno personale da lui per tante volte chiesto al governatore Baratieri, sopravveniva la crisi finanziaria che conduceva al potere novellamente il Gabinetto Crispi (21 dicembre 1893). Del predetto convegno non se ne fece più nulla, perchè anche il nuovo Ministero, di cui faceva parte come sottosegretario agli Esteri l’Antonelli, preferì la ripresa di tentativi diplomatici collo Scioa. Anzi tale Gabinetto essendo sorto coi programmi delle economie, piuttosto che acuire il dissidio con Menelik ed esporsi a nuovi avventurosi compromessi con Mangascià, fece subito i suoi studi per vedere se non era il caso di ridurre la Colonia al famoso triangolo Massaua-Asmara-Keren, limitandone il confine fino a Sichet, come aveva già proposto il Negus, e fissando per essa un bilancio di poco più di tre milioni annui; ma questa idea fu tosto abbandonata per le grandi avversioni che trovò nella maggioranza del Gabinetto. Per ritentare un’ultima prova con Menelik fu quindi inviato allo Scioa il colonnello Piano, l’antico prigioniero di ras Alula a Dogali. Egli giunse in Adis Abeba nel giugno 1894; ma sebbene fosse munito delle istruzioni, più concilianti per parte del Governo, non fu più fortunato del Traversi, e con costui già rimasto allo Scioa inutilmente, dovette ritornarsene in Italia senza aver nulla concluso. Poco prima del Piano era pure partito per lo Scioa Mangascià per far atto di sommissione al Negus e per domandargli quella corona regale del Tigrè che in mancanza della imperiale etiopica gli stava pur tanto a cuore. Se non che questa sua speranza era rimasta un pio desiderio. Da una parte ras Oliè, fratello della regina Taitù e rivale di Mangascià, aveva ottenuto dalla sorella promessa che mai la corona regale sarebbe posata sul capo del figlio di re Giovanni; dall’altra l’ambiente della corte scioana era tutt’altro che ben disposto contro Mangascià, che era accusato di aver tradito la causa nazionale gettandosi in braccio agli Italiani. Quando, secondo le consuetudini abissine, Mangascià si presentò colla pietra al collo davanti a Menelik, questi non solo lo accolse freddamente e lo coprì di rimbrotti per aver stretta amicizia cogli Italiani, ma lo avvertì che prima di pretendere la corona pensasse a conquistarsi il regno che era stato invaso dai nemici. Nè certo migliori furono le accoglienze fatte a Mangascià dalla regina Taitù e dai suoi consiglieri costituenti alla corte scioana il così detto partito tigrino, che soffiava sempre nel fuoco contro l’Italia. Essi lo posero in dileggio, e lo spinsero alla riabilitazione pungendolo con ogni sorta di sarcasmi. Invece a ras Alula, che aveva accompagnato Mangascià allo Scioa, e che era rinomato come nemico irreconciliabile degli invasori del suo paese, furono fatte grandi feste e fu concesso l’onore di rimanere presso la corte del Negus. Così avvenne che Mangascià, già tentennante verso l’Italia prima di recarsi al convegno di Adis Abeba, ne ritornò addirittura nemico; e sebbene l’eco della recente conquista di Kassala gli turbasse l’orecchio e lo determinasse ad inviare per non compromettersi al generale Baratieri le felicitazioni più calorose, si diede subito di nascosto a far dei preparativi di guerra. Intanto ras Alula ed altri Capi tigrini rimasti nello Scioa infervoravano il Negus ad intervenire contro gli Italiani e vi facilitavano quell’unione politica dell’Etiopia che doveva divenire così esiziale per l’Italia. Le conseguenze di questa grave situazione in cui era venuta a trovarsi l’Eritrea non tardarono a manifestarsi. Il generale Baratieri, non potè a meno di essere preoccupato degli strani armeggi e preparativi guerreschi che ras Mangascià eseguiva alla sordina, e gliene chiese spiegazioni: ma il Ras, che non era ancor pronto, seppe accampare tali abili scuse accompagnate da così ferventi dichiarazioni di amicizia e di affetto, da stornare momentaneamente intorno a sè i sospetti di tradimento. Anzi, avendogli poi Baratieri fatto proposte di un’azione in comune contro i dervisci nel Ghedaref, egli dimostrò di accettare con tanta gioia, da essere dal Governatore ritenuto in buona fede. Intanto però Mangascià si serviva di questa proposta per proseguire febbrilmente gli armamenti. Le cose erano a tal punto quando a smascherare ogni cosa ed a far precipitare gli eventi scoppiava una bomba nell’interno stesso della Colonia eritrea, cioè nella provincia dell’Okulè-Kusai. Quivi era stato prescelto a tenere il governo della regione, sotto la dipendenza dell’Italia, il celebre capo Abissino Batah Agos, che per l’antica sua inimicizia con ras Alula e con Mangascià e per gli aiuti efficaci prestati alle nostre truppe fin da quando si stabilirono nell’altipiano e per le continue prove di fedeltà date al Governo della Colonia si era acquistato la più ampia fiducia. Gli stava al fianco come residente politico in Saganeiti il tenente Sanguinetti, ed in tutta la regione era distaccata una sola compagnia di 250 ascari sotto gli ordini del Capitano Castellazzi, che presidiava il forte di Halai. Adescato dalle promesse e dalle lusinghe di Mangascià, che parlando anche a nome del Negus gli faceva sperare l’investitura definitiva della sua provincia, e stanco di mordere il freno degli italiani, dai quali temeva da un giorno all’altro di venire spodestato, e probabilmente, a quanto si disse, anche istigato dai padri Lazzaristi della missione francese, che avversavano in tutte le maniere la politica italiana nell’Eritrea, ed esercitavano su lui una grandissima influenza, avendolo già convertito al cattolicismo, il 14 dicembre 1894 egli fece improvvisamente imprigionare il residente italiano tenente Sanguinetti, e lanciato un bando violento contro gli Italiani che dipinse invasori e spogliatori del suolo, chiamò la popolazione alle armi e si proclamò signore indipendente dell’Okulè-Kusai. Egli fece tosto interrompere le comunicazioni telegrafiche col resto della Colonia, per aver tempo a raccogliere gente, ed a ricevere soccorsi da Mangascià; ma la notizia della rivolta portata da informatori e da un telegrafista italiano sfuggito alla cattura, fu tosto a conoscenza del Governatore, il quale da Keren, ove trovavasi, ordinò subito al maggiore Toselli di muovere contro il ribelle. I piani di Batah Agos, furono sventati dalla prontezza di Toselli, che il mattino del 16 dicembre si trovò già con tre compagnie vicino a Saganeiti ove, in attesa di altri rinforzi che marciavano verso di lui, mandò ad intimare al ribelle la consegna delle armi e del tenente Sanguinetti. Batah Agos prevenuto ne’ suoi disegni si schermì, allegando scuse e proteste di fedeltà, ma non obbedì alle intimazioni ricevute, e poco dopo, vistosi incapace di resistere a tante forze che affluivano intorno a Saganeiti, nella notte abbandonava segretamente questa località, dirigendosi co’ suoi uomini verso Halai, allo scopo di impadronirsi di quel forte, e catturarvi la compagnia ivi distaccata agli ordini del capitano Castellazzi. Il 18 dicembre Toselli entrò in Saganeiti rimasto abbandonato dai ribelli, e con felice intuito della situazione, proseguì tosto verso Halai. Quivi la compagnia Castellazzi forte di soli 250 uomini, dopo aver respinto le inutili intimazioni di resa mandate da Batah Agos, era stata assalita da circa 1600 uomini, e si difendeva con estremo valore sostenendo il fuoco d’accerchiamento dalle 13.30 fino alle 16.45. A quest’ora una viva fucilata prendeva alle spalle gli assalitori, e poco appresso tutta la colonna Toselli, giunta meravigliosamente in tempo sul luogo dell’azione, si lanciava all’assalto dei ribelli, i quali, rotti e sgominati, furono costretti a precipitosa fuga, lasciando gran numero di morti sul campo, compreso il ribelle Batah Agos. Il giorno stesso fu liberato il tenente Sanguinetti, e gli avanzi dei ribelli ripararono nel campo di Mangascià che li accolse premurosamente. Mangascià rimase sconcertato dell’avvenimento di Halai e si affrettò a mandare felicitazioni e proteste di amicizia a Baratieri, ma oramai si era troppo scoperto la sua connivenza col ribelle; e si conobbe anche che egli non cercava che di guadagnare tempo per ultimare i suoi preparativi di guerra. Baratieri gli mandò un ultimatum, intimandogli di consegnare i ribelli di Halai e di inviare le sue truppe verso Tomat contro i dervisci giusto gli accordi già convenuti; quindi essendo rimasto senza risposta, ritirò da Adua il residente tenente Mulazzani, e si preparò alle ostilità. Le forze militari che sulla fine di dicembre 1894 erano a disposizione del generale Baratieri, compresi i reparti di sanità, sussistenza, telegrafisti e gli altri servizi, sommavano in tutto a 159 ufficiali e 1158 uomini di truppa italiana, oltre a 6806 indigeni tra truppe regolari, milizia mobile indigena, e bande, disseminate nelle piazze e nei forti della colonia, da Massaua a Kassala ed al confine del Mareb. Il Governatore concentrò il corpo di operazione in Adi Ugri, radunandovi tre battaglioni di 5 compagnie agli ordini dei maggiori Toselli, Galliano, e Hidalgo, una batteria da montagna di 4 pezzi, un plotone di cavalleria e le bande dell’Okulè-Kusai e del Seraè; in tutto 66 ufficiali, una quarantina d’uomini di truppa italiana, e 3684 indigeni, tra regolari, milizia mobile e bande. Ras Mangascià invece aveva raccolto una parte del suo esercito, circa 10.000 fucili, nell’Entisciò, mentre Ras Agos con altri 2000 circa campeggiava nello Scirè, sotto il pretesto simulato di voler accorrere contro i dervisci. Allo scopo di smascherare completamente i due Ras ed impedire la loro congiunzione, Baratieri decise di fare un colpo su Adua, ed il 26 dicembre 1894, per la via di Adiqualà, ciglione di Gundet, Mareb e passo di Gasciorchi, mosse in direzione della vecchia capitale tigrina. Questa città, che porta un nome a noi fatale, il giorno 28 di detto mese vide per la seconda volta le truppe italiane traversare le antiche sue rovine, e la sua popolazione le accompagnò con forzati segni di festa e giubilo fino alle alture di Fremona a nord ovest della città stessa, ove Baratieri pose campo. Preti e notabili accorsero subito a fare atto di sommissione ed a esibirsi intermediari per trattative di pace, e Baratieri gli accolse con benevoli parole, promettendo loro di rispettare la vita e gli averi dei cittadini, e dichiarando di aver voluto solo determinare colla sua mossa, il Capo del Tigrè a muovere contro i dervisci. Scrisse anche in tal senso all’Eccighiè (capo religioso) Teofilos, il quale benchè si scusasse di non essersi presentato, non mancò di dare delle buone parole consigliate certamente dalla paura. Durante il suo soggiorno ad Adua Baratieri vagheggiò l’idea di uno scontro con i Tigrini; ma ras Agos accampato nei dintorni di Axum preferì di tenersi al largo, e Mangascià si limitò a scrivere a Baratieri promettendogli sotto certe condizioni il disarmo, ed effondendosi nelle solite proteste di pace e di amicizia. Giungevano frattanto notizie dagli informatori che Mangascià accennava a spostarsi dall’Entisciò verso la curva del Mareb per penetrare improvvisamente nella Colonia e prendere possibilmente alle spalle il Baratieri; dei nuclei nemici erano stati segnalati verso Amba Beesa ed Amba Cristos intenti a preparare la strada tagliando spini; gli amici tigrini ammonivano di stare in guardia: allora Baratieri risolse di ritirarsi per la via già fatta ed alla sera del 2 gennaio tornava in Adiqualà, donde poi riconcentravasi col corpo d’operazione in Adi Ugri. I movimenti di Mangascià accennarono infine verso il Belesa, manifestando l’intenzione di invadere l’Okulè-Kusai, rimasto in fermento per la ribellione di Batah Agos. Le sue forze erano aumentate fino a circa 12,000 armati di fucili, 7000 fra armati di lancia e disarmati, e giungevano notizie di propositi bellicosi e di millanterie senza fine contro gli Italiani, che si volevano ricacciare al di là del mare. Baratieri, quando non ebbe più alcun dubbio sulle intenzioni del nemico, spostò il suo corpo d’operazioni da Adi Ugri verso sud-est, occupando le alture di Chenafena sulla destra del Mareb, donde offrivasi allo sguardo un vasto orizzonte e si potevano osservare tutte le mosse dei Tigrini. Questi procedevano lentamente verso il Belesa, ed il giorno 11 gennaio erano schierati ed accampati sulla riva sinistra di questo torrente in vista al nostro comando. Baratieri, informato che all’indomani Mangascià avrebbe varcato il confine, passò sulla sinistra del Mareb, prendendo posizione ad Addis Addis, e quindi, premendogli di impedire che i Tigrini potessero penetrare ed internarsi tra le ardue gole dell’Okulè-Kusai donde sarebbe stato diffìcile ricacciarli, decise di prevenirli alle imboccature di esse, facendo marciare celermente il 12 stesso di buon mattino il nostro corpo d’operazioni su Coatit che fu occupato verso le ore 15. Nello stesso tempo e sulla stessa direzione si avanzava l’esercito tigrino, il quale, arrivato verso sera ad Adi Legib, poneva il campo tra questo villaggio e le acque di Mai Mehemessa a circa 6 Km. da Coatit, senza che si fosse accorto dell’improvvisa occupazione fattane dalle nostre truppe, la cui avanguardia (battaglione Toselli e bande) disposta sulle alture ad est ed a nord-est di Coatit era quasi a loro contatto. La notte dal 12 al 13 passò senza alcun incidente. All’alba dal 13 dallo spianato della chiesa di Coatit, ove hanno riposato la notte, i battaglioni Galliano e Hidalgo si schierano verso nord-est recandosi sul fianco sinistro del battaglione Toselli, quello Galliano in l.a linea e quello Hidalgo in riserva. La batteria da montagna Cicco di Cola si porta in linea col battaglione Toselli, le bande del Serae e dell’Okulè Kusai si schierano sul fianco sinistro verso Adi Auei, Baratieri col suo stato maggiore e colla bandiera del comando occupa un poggio eminente al centro. La fronte di combattimento è verso est e nord est e la sua lunghezza è di circa 1 Km. Il sole che spunta sull’orizzonte è salutato dal primo sparo di artiglieria che da una distanza di circa 1900 m. va a mettere in iscompiglio il campo nemico. In questo si nota subito una forte agitazione, un accorrere alle armi, un formarsi di gruppi combattenti, un riunirsi agli appostamenti, e non tardano a udirsi le risposte di fucileria. Il combattimento s’impegna tosto e diventa vivacissimo e micidiale. Le truppe eritree sostengono il fuoco con ammirabile bravura e disciplina, e ufficiali e soldati italiani e indigeni gareggiano in valore infliggendo al nemico grandi perdite; ma il suo corpo è più che quadruplo del nostro; e mentre con una parte tiene impegnata la destra e il centro, ove la vittoria comincia a sorridere alle nostre truppe, con altra parte, di forza quasi uguale, approfittando della sinuosità del terreno, compie un aggiramento nascosto verso la nostra ala sinistra, puntando verso Adi Auei e quindi verso Coatit alle spalle dei nostri. Questo movimento, non potuto impedire a tempo perchè mal guardato il fianco sinistro dalle nostre bande, costringe il Governatore a spedirvi contro dal centro il battaglione Galliano, il quale riesce ad occupare le alture dominanti i sentieri che da Adi Auei conducono a Coatit; ma nella lotta tremenda che egli sostiene contro la preponderante massa nemica subisce notevolissime perdite ed è costretto a chiamare rinforzi per salvare la posizione già minacciata di Coatit. Fortuna volle che in quel momento la vittoria sulla destra si pronunciasse decisa e permettesse un cambiamento di fronte alle nostre truppe, altrimenti questo movimento pericolosissimo avrebbe potuto avere un esito fatale. Baratieri arresta l’inseguimento della massa tigrina già vinta sul fronte est e nord-est, ed ordina ai battaglioni Toselli ed Hidalgo ed alla batteria di ripiegare e di cambiare gradatamente fronte verso nord-ovest, riconcentrandosi verso Coatit, dove le salmerie ed i feriti e la stessa base d’operazione sono minacciati dal corpo tigrino aggirante. Nell’esecuzione di questo movimento, sotto un terribile fuoco contro cui il battaglione Galliano e le bande stavano per soccombere, anche il Quartiere Generale traversò un istante di supremo pericolo; due ufficiali1 un sergente, alcuni ascari e lo stesso portabandiera a fianco di Baratieri, caddero colpiti, da palle nemiche; tuttavia il Generale con un coraggio che rasentava la temerarietà e che da alcuni si volle attribuire al desiderio di cercar la morte prevedendo perduta la battaglia, riuscì a portarsi su Coatit; donde poi, coadiuvato efficacissimamente dal generale Arimondi, potè disporre validamente le sue truppe alla difesa. Così anche la massa aggirante tigrina veniva sbarrata a nord di Coatit; e altri nuclei nemici che si erano già spinti fin presso la chiesa, erano dispersi. Alla sera del 13 gennaio cessarono le ostilità ed i due corpi avversari restarono tutta la notte nelle posizioni rispettivamente occupate, con evidente vantaggio dei nostri, i quali in pochissimo numero avevano respinto, infliggendo gravissime perdite, due masse nemiche quasi doppie di loro, conservando le proprie posizioni e il villaggio minacciato, con perdite molto minori. Il combattimento cominciò ancora all’alba del 14, iniziato dai Tigrini, i quali dalle alture a nord di Coatit cercavano di trarre all’assalto le nostre truppe; in questo giorno però Baratieri fu più cauto e si mantenne vigorosamente sulla difensiva, respingendo tutti i tentativi dei nemici e riuscendo a far loro perdere ogni speranza di rivincita. Ormai le sorti delle due giornate erano già decise. La grande massa tigrina, malgrado le sue millanterie e la sua boria non era riuscita nel suo intento; il nostro piccolo corpo l’aveva arrestata e battuta, e si apprestava a sloggiarla dalle sue alture; e così sarebbe certamente avvenuto se Mangascià, la sera stessa del 14, verso le ore 22, riconosciuto impossibile di sostenersi, e costretto anche dal difetto di munizioni, non avesse cercato scampo ritirandosi verso Senafè colla sua gente in dissoluzione. Quivi all’indomani lo raggiunse Baratieri inseguendolo rapidamente, e sorpresolo accampato nelle vicinanze di Senafè, da una altura dominante, e ad una distanza di 2600 metri, lo fulminò coll’artiglieria, mettendo a soqquadro lo scompigliato esercito tigrino, e spaventando lo stesso Mangascià, che fuggì precipitosamente coi pochi rimasti fedeli, cercando rifugio tra le montagne dello Scimenzana, e lasciando la sua tenda, perforata da uno srapnel e circondata di cadaveri, con carte ed altri indumenti in mano dei nostri. Con questa vittoria brillante si chiudeva il primo periodo della campagna tigrina del 94 e 95 e si ebbe per risultato la riconquista e la riappacificazione della nostra provincia dell’Okulè-Kusai; e la cacciata di Mangascià dall’invasa Colonia. L’esercito tigrino in questa campagna ebbe oltre a 1500 morti e 3000 feriti, compresi molti capi e sottocapi, ed il resto fu disperso. Dalla parte dei nostri si ebbero solo 3 ufficiali e 120 uomini di truppa morti: 2 ufficiali e 190 uomini di truppa feriti2. Il generale Baratieri ne ebbe fama di valente generale e di sapiente organizzatore di truppe; ed invero in queste due giornate il piccolo corpo coloniale compì prodigi di valore, ed il piano generale della breve campagna non poteva essere meglio ideato nè quasi sempre meglio eseguito. Come avveniva sempre dopo ciascuna battaglia i capi ed i preti dell’Okulè-Kusai e dello Scimenzana, si affrettarono tosto a portare gli omaggi ed a fare gli atti di sottomissione a Baratieri; nè mancò un pretendente, nostro amico, Agos Tafari dell’Agamè, di chiedere appoggio per occupare questa provincia già tenuta da ras Sebath e quindi dal governatore scioano Tesfai Antalo. Egli prestò giuramento di fedeltà a Baratieri e compì tosto la sua conquista, ma non ebbe da Baratieri che aiuti morali ed incoraggiamenti che pur venivano ad impegnare la protezione dell’Italia sul territorio tigrino e concorrevano a spodestare un rappresentante di Menelik. Il 18 gennaio Baratieri si ritirava dall’Okulè-Kusai, lasciando occupati militarmente Senafè, Addis Addis e Adì Caiè, ed ordinando la costruzione di un forte in Saganeiti. Il suo ritorno in Asmara e Massaua fu tutto un trionfo; l’entusiasmo degli indigeni per quel generale che li aveva condotti alla vittoria e che si curava tanto di loro non ebbe limiti; gli furono eretti archi di trionfo, si eseguirono fantasie, luminarie e festeggiamenti di ogni specie, e lo si venerò come un Dio. Nè minore fu il giubilo col quale si accolsero i lieti eventi nella madre patria. Le vittorie brillanti annunciate di sera nei teatri, nei caffè, e nei pubblici ritrovi, sollevarono delle clamorose manifestazioni d’entusiasmo. Baratieri era chiamato il degno discepolo di Garibaldi dal quale aveva imparato a vincere con pochi mezzi; ed il Parlamento ed il paese andarono a gara nel manifestargli la propria ammirazione. Il Governo ed il Re gli indirizzarono telegrammi di felicitazioni, e come premio all’opera sua, lo si promosse tenente generale per merito di guerra. * * * ↑ Tenenti Sanguinetti e Castellani. ↑ Tra gli ufficiali morti, oltre il tenente Sanguinetti e Castellani, fu il tenente Scalfarotto colpito mortalmente al principio del combattimento. Note CAPITOLO XIII. Espulsione dei Lazzaristi francesi dall’Eritrea — Mangascià si prepara alla riscossa — Chiede aiuti a Menelik — Si avvicina ad Adigrat per toglierlo ad Agos Tafari alleato dell’Italia — Baratieri invade ed occupa l’Agamè — Inseguimento infruttuoso di Mangascià — L’alleato Agos Tafari a Makallè — Baratieri entra in Adua per la seconda volta — Preoccupazioni politiche e finanziarie del Governo — Baratieri si ritira da Adua lasciandovi poche truppe — È chiamato in Italia — Grandi feste fattegli a Roma ed altrove — Sua intesa col Governo — Riparte per l’Eritrea — Ripresa della campagna contro Mangascià — Combattimento di Debra Ailat — Occupazione del Tigrè — Conseguenze politiche e militari. Il generale Baratieri, con decreto delli 22 gennaio 1895, ordinava l’espulsione dall’Eritrea dei Lazzaristi francesi, sospetti di connivenza negli accordi tra Batah Agos e Mangascià. Questi Lazzaristi facevano parte di una missione cattolica istituita da oltre 50 anni nell’Abissinia settentrionale, ove avevano eretto chiese e caseggiati ed acquistati vasti poderi che sapevano sfruttare in tutti i modi, ritraendone una rendita annua di oltre mezzo milione di lire. Avevano chiese a Keren, a Scinnaar, ad Atiliena e ad Akrur, donde bandivano la fede religiosa senza troppi scrupoli e senza sottigliezze, badando piuttosto ad affezionarsi le popolazioni che a convertirle, piuttosto a procurarsi autorità e ricchezze che a fare dei santi. La loro fine astuzia accompagnata dai bei modi, dalle maniere tolleranti e gentili, aveva potuto insinuarsi tra i capi e le autorità etiopiche ottenendone non pochi risultati. Ma la loro avversione alla espansione italiana, manifestatasi fin dai primi tempi della nostra occupazione di Massaua, e che divenne ancora più acerba dopo che l’istituzione della nuova Prefettura Apostolica nell’Eritrea toglieva loro la suprema direzione spirituale di tutti i cattolici dell’Etiopia, urtava col sentimento nazionale italiano e creava imbarazzi alla nostra politica coloniale. Perciò il decreto che li colpiva fu ritenuto provvido. Essi strepitarono e protestarono, minacciando anche ricorsi ai tribunali ed al Governo francese, ma tutto fu inutile; ai primi di febbraio 1895 dovettero abbandonare la Colonia, lasciando ad un loro avvocato la cura dei beni e delle controversie giudiziarie che erano sorte circa la legittima proprietà di taluni di essi. Intanto che i predetti religiosi recavano altrove le loro querele ed i loro astii contro l’Italia e contro il cappuccino italiano Padre Michele da Carbonara, il quale il 9 dicembre 1894 aveva assunto solennemente nella chiesa di Keren la prefettura Apostolica dell’Eritrea, Mangascià ridottosi a ramingare con pochi fedeli pel Tembien, si adoperava con tutte le sue forze a riannodare il suo esercito disperso, battendo il chitet1 ed inducendo con preghiere, con minaccie e colle più solenni promesse dell’imminente intervento scioano, tutti i validi alle armi a seguirlo. Lo accompagnava, facendogli coro ed aiutandolo ne’ suoi sforzi Tesfai Antalo, lo spodestato governatore dell’Agamè, ed entrambi spedivano messi sovra messi a Menelik per indurlo a mantenere la promessa fatta di aiuti di uomini e munizioni, e per lagnarsi di essere stati esposti ed abbandonati ad uno scacco contro gli italiani. Allo scopo però di guadagnar tempo e di mascherare i suoi intendimenti ostili, e per evitare che gli piombassero addosso le forze di Baratieri, Mangascià si affrettò a scrivere a lui ed al Re d’Italia, chiedendo pace e perdono ed attribuendo l’accaduto, come al solito, all’intromissione del diavolo. Baratieri d’altra parte non era tranquillo, perchè sapeva bene che se anche era riuscito a sconfiggere e sbandare con gravi perdite l’esercito tigrino a Coatit e Senafè, non lo aveva però distrutto, nè aveva reso impossibile la sua ricostituzione; dovette perciò chiedere rinforzi ed aiuti al Governo italiano, il quale benchè cominciasse a sentirsi a disagio cogli intendimenti battaglieri del Generale, ed a nutrire preoccupazioni politiche e timori di nuove ed ingenti spese, proprio allora che a forza di sacrifici e di dolorose economie si ristabiliva il pareggio del nostro bilancio, ed erano imminenti le elezioni generali politiche bandite col programma delle economie, concedette, non senza dar luogo a discussioni vivaci in seno allo stesso Gabinetto, due battaglioni bianchi, una batteria, nonché i mezzi per formare altri due battaglioni indigeni, e materiali e munizioni per rifornire i magazzini ed i forti. Appena che Baratieri potè disporre di questi rinforzi, avendo saputo che Mangascià si era avvicinato con 4000 fucili ad Ausen per tentare un colpo contro l’Agamè, gli mandò senza altro un ultimatum, ordinandogli l’immediato licenziamento delle truppe come indispensabile condizione di pace; quindi non ottenendo da lui che delle scuse e delle giustificazioni che come al solito non concludevano nulla, decise tosto di muovergli contro. Cominciò a far concentrare per il 14 marzo 1895 un corpo d’operazioni di circa 4000 uomini a Senafè agli ordini del tenente colonnello Pianavia, ed egli stesso mosse da Massaua ad assumerne la direzione per invadere ed occupare definitivamente la provincia dell’Agamè minacciata da Mangascià. Di questo corpo d’operazioni facevano parte i battaglioni Galliano ed Ameglio, la solita batteria di montagna di Cicco di Cola e le bande assoldate, e più tardi vi si aggiunse il battaglione Toselli, il quale in questo frattempo aveva lasciato delle orme di profonda sapienza politica e militare nella completa pacificazione delle Provincie dell’Okulè-Kusai. Il generale Arimondi, ed alcuni vollero attribuire ciò a dissidi col Governatore, fu lasciato a Keren a guardare colle rimanenti forze la frontiera verso i dervisci. Baratieri, dopo aver solennemente inaugurato in Senafè un bel forte, che Toselli vi aveva fatto costruire dalle truppe, col concorso gratuito delle servitù indigene, mosse poco appresso alla volta di Adigrat, ove entrava trionfalmente il 25 marzo, ricevendovi l’omaggio del nostro alleato Agos Tafari, il quale fece al Governatore ogni sorta di gentili accoglienze. L’occupazione della posizione di Adigrat per parte delle nostre truppe, fu un avvenimento politico-militare di grande importanza. Questa località è situata a 2545 m. sul livello del mare, sul fianco della dorsale che forma l’orlo orientale dell’altipiano etiopico; a sud le si parano d’innanzi le altissime e formidabili barriere di Adagamus e del Colle di Seetà che sbarrano le vie provenienti dall’Enderta ed a Ausen; a sud-ovest è difesa dal massiccio nodoso di Alequà, donde si dirama una catena di montagne perpendicolare alla dorsale predetta, che prolungandosi verso Adua, va a formare lo spartiacque tra il bacino del Mareb e quello del Tacazzè; ad est è isolata dalle ripidi pendici scendenti verso il mare. Perciò la posizione di Adigrat viene ad esser chiusa come in un immenso campo trincerato e domina tutte le strade che dal sud conducono verso l’Okulè Kusai; mentre per mezzo della linea di alture che da Alequà vanno verso Adua (monte Augher, Entiscio, Saurià) domina anche le vie che dalla capitale tigrina conducono verso nord-est nella valle dell’Unguia e del Belesa in direzione dell’Okulè - Kusai predetto. Adigrat è il villaggio capoluogo della regione Agamè, la quale situata in parte sull’alto Dega, ed in parte nel Uoina Dega, offre svariato aspetto di bellezza; è salubre, ricca di pascoli, di bestiami e di prodotti agricoli, importante per il movimento commerciale, popolata di gente laboriosa e fiera. Appena compiuta questa occupazione, Baratieri dispone per renderla permanente, destinandovi il maggiore Toselli con un presidio di circa 1300 uomini, e designando l’alleato Agos Tafari a capo della vicina importante provincia tigrina dell’Enderta, coll’incarico di inseguire, sostenuto dal tenente colonnello Pianavia, ras Mangascià, il quale sorpreso e prevenuto della sua speranza di riconquista dell’Agamè, saputa la nostra occupazione di Adigrat, da Ausen si ritira precipitosamente verso sud, sottraendosi all’inseguimento, che riesce infruttuoso. Quindi Baratieri, ricevuti gli omaggi consueti dei notabili dell’Agamè, sempre ossequiosi ai vincitori, il 12 aprile 1895, accompagnato da poca truppa ma coll’aureola della vittoria, entra per la seconda volta in Adua, accolto dalla popolazione e dal clero con ogni sorta di dimostrazioni servili. Rinfrancate le popolazioni con un bando che prometteva pace e perdono a tutti, Baratieri volle consacrare le sue conquiste con un atto di religione che ne aumentasse l’autorità e la stima fra gli indigeni; e mosse con pochi uomini alla volta di Axum, la città santa, ove fu ricevuto dal capitolo in pompa magna coll’Eccighiè Teofilos alla testa, ed ove col suo contegno corretto, col suo rispetto ai luoghi sacri ed ai pregiudizi religiosi dei Tigrini, seppe lasciare delle gradite impressioni. Frattanto il tenente colonnello Pianavia, dopo aver insediato con apposite bande Agos Tafari a Makallè, ed espugnato Amba Salama tenuta da certo Degiac Desta, si congiungeva col Governatore in Adua. Sorrideva certo alla mente del generale Baratieri di annettere definitivamente alla nostra Colonia anche Adua e Axum, proclamando addirittura la sovranità dell’Italia in tutto il Tigrè; ma trovò opposizioni nel Governo; sicchè limitandosi per ora a promettere ai Tigrini la protezione dell’Italia, fu costretto a rientrare colle sue truppe al di qua del Mareb, non senza però lasciare presso Adua, fortificato nelle alture di Fremona, a qualche chilometro a nord ovest della città, il battaglione del maggiore Ameglio, col pretesto di garantire la pace della città e sorvegliare i movimenti di Mangascià, ma colla speranza, che potesse servire di avanguardia in una prossima occupazione definitiva del Tigrè. Se non che gli ardimenti del generale Baratieri e le nuove condizioni da lui create nella Colonia cominciarono a sollevare in Italia delle gravi preccupazioni. Quivi, mediante i savii ma dolorosi provvedimenti escogitati dal ministro Sonnino, era appena stata scongiurata e vinta la crisi che da tanti anni tormentava il bilancio nazionale ed aveva portato lo sconcerto su tutto il funzionamento economico ed amministrativo del regno; ed il timore di nuove imprese e di nuove spese, che cagionassero una ricaduta delle finanze e facessero perdere il pareggio del bilancio ottenuto con tanti sacrifici, manteneva in sospeso gli animi della nazione e vigilanti tutti i deputati che si interessavano di cose finanziarie. Ma d’altra parte Baratieri, cui l’abbandono forzato di Adua e Axum era stato ostico ad eseguire, tornò a tempestare il Governo con domande di nuovi aiuti, esponendogli la necessità di debellare completamente Mangascià rifattosi minaccioso, e risolvere con uno sforzo decisivo la quistione tigrina, che avrebbe indotto anche Menelik a rinunziare a qualsiasi impresa ostile contro la Colonia. Tali domande e proposte trovarono però una seria opposizione nel Gabinetto, e specialmente nei ministri Sonnino e Saracco, che volevano ad ogni costo rimanere fedeli al programma delle economie e ritenevano già grave il concedere pel bilancio coloniale 9 milioni annui. Provò il Crispi, che per conto suo sarebbe forse stato propenso ad accordare a Baratieri i mezzi richiesti, ad invitarlo a provvedere ai suoi bisogni colle risorse locali, ricordandogli che Napoleone faceva la guerra coi denari dei vinti, ma ne ebbe in risposta che il Tigrè era esausto e che non poteva dar niente. Le domande e le insistenze di Baratieri continuarono ancora per qualche tempo, e le sue relazioni col Gabinetto si inasprirono al punto che per due volte egli chiese di essere esonerato dalla sua carica; finalmente il Ministero, impressionato dalle conseguenze e dalle responsabilità cui andava incontro mantenendosi ancora nella negativa, e dal timore di doversi privare dell’opera di un uomo a cui sorrideva la popolarità e che coi riflessi della sua gloria fortificava anche il Gabinetto, dovette cedere, ed invitò il Baratieri a venire a Roma per intendersi. Erano in questo frattempo avvenute le elezioni generali politiche favorevoli al Governo, e ciò facilitava di molto gli accordi. Baratieri venne in Italia nell’agosto del 1895 ed il suo soggiorno nella madre patria fu tutto un trionfo per lui. Presentatosi alla Camera per prestare il suo giuramento di deputato eletto dal collegio di Crema, fu ricevuto cogli stessi onori già tributati a Garibaldi. Il vincitore di Coatit e Senafé fu accolto dall’assemblea in piedi, ed abbracciato dal presidente in mezzo ad un’ovazione indescrivibile, che deve avergli fatto provare le vertigini del trionfo. Feste, ricevimenti, banchetti di ministri, generali e deputati, tutto concorse a manifestare a Baratieri l’ammirazione in cui era tenuto dagli italiani, e la fiducia che avevano riposto in lui. L’intesa fra Baratieri ed il ministero avvenne facilmente, e le nubi addensate sulla Colonia parvero dissipate da questi accordi che la riammettevano al comando del Generale popolare e valoroso2. Invece fu quello un funesto momento di sventura per la nostra patria, perchè da esso si iniziarono i folli ardimenti e le temerarie imprese che poi trassero la Colonia nell’orlo della rovina. Baratieri appena ottenuti i mezzi domandati e senza preoccuparsi che in quei giorni si facevano più insistenti le voci di mosse ostili di Menelik e di altri capi etiopici, rivolgendo i suoi sguardi unicamente a Mangascià che durante l’estate aveva potuto rinsediarsi a Makallè cacciandone il nostro alleato Agos Tafari e s’affannava in preparativi di riscossa, ripartì tosto per l’Africa, disponendosi alla completa conquista del Tigrè. Sbarcò a Massaua il 26 settembre e si mise subito in opera per chiamare sotto le armi la milizia mobile e per formare un corpo d’operazione in Adigrat, concentrandovi in breve sette battaglioni, due batterie e le bande del Seraè. L’avanguardia fu affidata al comando del generale Arimondi, il quale si spinge subito verso il sud, sperando di incontrare e battere le forze di Mangascià, mentre una colonna volante agli ordini del maggiore Toselli con marcie forzate cercava di prenderlo alle spalle. Baratieri assunse in persona il comando del grosso, seguendo il movimento dell’avanguardia. Però Mangascià che non voleva esporsi da solo a nuovi scacchi, fu sollecito a ritirarsi da Makallè senza aspettare l’urto delle truppe italiane, e lo fece abbastanza in tempo per prevenire l’aggiramento di Toselli che non riescì. Proseguendo nella sua ritirata verso il sud, il Ras si lasciò indietro una retroguardia di circa 1300 uomini, che fu raggiunta dalle truppe del generale Arimondi a Debra Ailat, e quivi li 9 ottobre 1895 sconfitta e dispersa. I Tigrini vi perdettero una ventina di morti, molti feriti, e lasciarono in potere dei nostri oltre a 200 prigionieri e più di 1000 capi di bestiame; fra i nostri si ebbero 11 morti ed una trentina di feriti. Quattro giorni dopo Arimondi, continuando ad inseguire Mangascià fuggente verso il sud, arrivò ad Amba Alagi e quivi liberò quel brigante di ras Sebath che più tardi avrebbe ripagato l’Italia colla più nera ingratitudine. E così terminava il terzo periodo della campagna tigrina. Fu una vera delusione. Il Tigrè era rimasto, è vero, in mano dei nostri; ma i tigrini erano tutt’altro che debellati; essi c’erano ancor tutti, e non avevano fatto che secondare le loro abitudini ritirandosi davanti alle maggiori forze italiane per andarsi a riordinare e rinvigorire oltre la frontiera, quivi aspettandovi i soccorsi di Menelik. Frattanto Baratieri entrava in Antalo e Makallè, capitale dell’Enderta, e vi riceveva secondo il consueto gli atti forzati e falsi di sommissione dei notabili e dei preti della provincia; e dal castello che fu residenza del negus Giovanni, ricevendo a rapporto gli ufficiali, proclamava il Tigrè annesso alla colonia Eritrea. Dopo quest’annessione e questa conquista che doveva poi fruttar tanti dolori, Baratieri si recò a far atto di sovranità anche nella vecchia capitale tigrina Adua, quivi ricevendovi nuove sottomissioni ed omaggi; e verso la fine di ottobre ritornò a Massaua, lasciando il comando del Tigrè al generale Arimondi. Il Tigre così era definitivamente annesso non dal Governo, ma dal Governatore, alla colonia Eritrea. Adigrat, Adua e Makallè erano fortificate e presidiate dalle nostre truppe, ed altre pattuglie e colonne volanti percorrevano la regione tigrina per sottometterla e purgarla dai ribelli. Si vedrà poi se tale annessione sarà duratura, e se le predette forze saranno sufficienti a mantenerla. * * * ↑ Specie di tamburo che si batte in Abissinia per chiamare alle armi le popolazioni. ↑ Da quanto fu pubblicato finora risulta che la base dell’intesa comprendesse un bilancio di 13 invece che di 9 milioni, ed una forza disponibile di 10,000 uomini. Note CAPITOLO XIV. Guerra Italo-Scioana — Preparazione militare e politica dell’Italia e dello Scioa — Conseguenze. Fin da quando si pronunciò il dissidio con Menelik in causa dei confini dell’Eritrea e del protettorato sull’Etiopia e che si potè constatare l’ostinazione di lui nel respingere ogni trattativa diplomatica che non gli garantisse la sua assoluta indipendenza, e la restituzione di quei territori che egli voleva rivendicati alla sua corona, apparve sull’orizzonte lo spettro di una guerra Italo-Scioana. Era ben difficile che tale guerra potesse evitarsi, mentre l’Italia continuava a trattenere e godere quei confini che le erano stati contesi, e lo Scioa si sottraeva completamente a tutti gli obblighi incontrati col trattato d’Uccialli. Ciò sarebbe stato forse possibile da parte dell’Italia; la quale, essendo aggravata da cure interne di maggiore momento, si dimostrava niente affatto propensa a voler imporre colla forza al Negus l’osservanza del suddetto trattato; ma dalla parte dello Scioa era tutt’altra cosa, perchè ivi la minacciata indipendenza etiopica e l’integrità già scossa dell’impero imponevano ben altro dovere, ed il carattere stesso della popolazione battagliera, famigliarissima alla guerra, era di spinta alle ostilità. Tuttavia da quando il dissidio tra l’Italia e lo Scioa raggiunse lo stato acuto, cioè dal febbraio 1891 in cui avvenne il fallimento della missione Antonelli, la pace tra essi potè trascinarsi ancora avanti sino all’autunno del 1895; nella quale epoca l’invasione scioana già decisa da tempo, e abilmente mascherata da Menelik allo scopo di impedire gli armamenti dell’Italia, venne a bussare alle porte della sua Colonia. Se non che, ed è doloroso il dirlo, l’Italia malgrado il lungo tempo in cui fu soggetta alla minaccia della predetta invasione, si trovò sorpresa ed impreparata a sostenerne l’urto; così che fino da’ suoi primordi ebbe a subire una dolorosa sconfitta delle sue armi; e dovette poi improvvisare della meglio la mobilizzazione dei rinforzi e l’impianto dei servizi logistici con gravi conseguenze per tutta la campagna. La responsabilità di tale impreparazione venne da taluni attribuita al Governo e da tali altri al Governatore; ma dall’esame delle varie cause che la determinarono appare chiaro che tale responsabilità spetta non solo ad essi, ma anche al Parlamento ed alla Nazione stessa. Infatti la prima di dette cause è stata senza dubbio la grande avversione dell’Italia ad ogni spesa coloniale, mentre tuttavia essa voleva conservar la Colonia. L’Italia dal 1890 in poi, per varie cause d’indole generale comuni a tutta l’Europa, e per altre speciali riguardante il suo funzionamento amministrativo, le sue risorse economiche e le sue spese, fu travagliata da grave crisi finanziaria, che sulla fine del 1893 minacciò di convertirsi in fallimento. Il disagio economico sollevò l’agitazione politica e generò perfino la sommossa in due regioni, la Sicilia e la Lunigiana. Ma mentre in tale frangente si creava una spietata avversione per la politica e per le spese coloniali e si discutevano calorosamente e si lesinavano per l’Eritrea i sette od otto milioni annui appena sufficienti per i suoi bisogni ordinari di pace, il suo abbandono non era voluto che da un’infima parte del Parlamento e del Paese. Con tali principii e con tali disposizioni, non solo sarebbe stata respinta qualunque proposta di spese per fare preparativi militari nell’Eritrea, ma si avrebbe voluto diminuire anche quelle assegnatele per farla languire. Altra causa d’impreparazione fu la speranza di possibili componimenti col Negus. Il lungo periodo di incerta ostilità che durava dal febbraio 1891 aveva finito per affievolire in Italia le preoccupazioni, e l’aveva ormai abituata a considerare l’incidente italo-scioano come un affare di secondo ordine rimediabile colle trattative diplomatiche, che si ritenevano tanto più facili pel ricordo delle antiche relazioni d’amicizia tra Menelik, il nostro Paese e il nostro Re. Perciò vennero tentate le due missioni più o meno ufficiali di Traversi e di Piano, delle quali si è già parlato: ma esse fallirono completamente e lasciarono più aperto il dissidio ed il pericolo. La terza delle predette cause di impreparazione militare fu l’eccessiva fiducia riposta nel generale Baratieri. Egli inebriato de’ suoi successi di amministrazione interna, ed anche de’ trionfi militari ottenuti nelle piccole lotte adeguate alla costituzione dell’Eritrea, affettava sempre una sicurezza così grande di sè e della Colonia da stornare ogni timore in proposito. Questa sicurezza in lui era tale che non gli faceva prevedere, nè temere alcun pericolo; così che quando qualche grave avvenimento venne ad incogliere la nostra Colonia, egli ne rimase quasi sempre sorpreso. Infatti si vide già che, quando i dervisci nel dicembre 1893 invasero la vallata del Barca, Baratieri era in licenza a Roma; quando nel dicembre successivo Batah Agos inalzò la bandiera della ribellione nell’Okulè Kusai, Baratieri era nei Bogos a guardare il Sudan; lo troveremo in seguito ancora a Barackit, quando perderà un terzo delle sue truppe ad Amba Alagi: per sventura d’Italia lo vedremo invece presente ad Adua, ma anche là sarà sorpreso di trovarsi di fronte 100,000 abissini, mentre ve ne supponeva soltanto 30,000. Certamente durante i suoi quattro anni di governatorato, e prima che veramente si avverasse l’invasione scioana, Baratieri non mancò di trattenere più volte il governo centrale sulla questione Scioana, sull’ambiente che si veniva formando presso la corte di Menelick e sulla probabilità di una futura guerra; ma le sue notizie ed osservazioni erano così superficiali, nebulose e spesse volte contradditorie e poco preoccupanti da superare di ben poco quelle che correvano sui giornali e sulla bocca di tutti, e che stereotipate e ripetute per migliaia di volte, lasciavano il tempo che trovavano, e tutti increduli. Per dimostrare l’attendibilità delle sue informazioni basta il dire che pochi giorni prima che ad Amba Alagi apparisse l’avanguardia Scioana forte di oltre 35000 uomini, Baratieri conservava ancora delle illusioni sull’avanzata di Menelick e sullo scoppio della guerra italo-scioana, ritenendola ancora incerta e limitata alla necessità di dover combattere al più una forza complessiva di trentamila nemici, come può rilevarsi dalla lettera seguente pubblicata dall’Asmara il 23 novembre 1895; cioè 14 giorni prima che succedesse il fatto di Amba Alagi. Asmara, 23 novembre 1895. Signor ministro, Secondo le previsioni, che io aveva l’onore di sottoporre a Vostra Eccellenza, nelle relazioni del 20 maggio e del 27 giugno di questo anno, Menelik aveva preparato, prima e durante la stagione delle pioggie, un movimento d’invasione contro l’Eritrea. Ed aveva dato ritrovo alle sue forze specialmente a Uoro Ailu (Jelu), posizione geograficamente molto opportuna e centrale, lasciando scaglionati verso la colonia ras Mikael suppergiù a Borumieda (Dessié), ras Olié a Martò alquanto più innanzi, Uascium Guangul nel Lasta, alquanto ad occidente. In pari tempo aveva inviato la massima parte dei Tigrini, che erano al di lui soldo, nello Scioa, a ras Mangascià, per la difesa del gruppo di Antalo, donde avrebbe dovuto penetrare l’invasione nello antico regno del Tigrè. Ma l’operazione nostra contro Antalo, cacciò ras Mangascià dalla sua forte posizione e da tutto il regno del Tigrè, tolse all’esercito d’invasione la sua avanguardia, scombussolò il piano di attacco e portò le nostre difese tre giornate più a sud di Adigrat e la nostra linea di osservazione fino all’estremo confine meridionale del vecchio Tigrè, offrendoci il modo di dare la mano ai nostri alleati nel Taltal. E frattanto ras Olié si guardava bene dal portare soccorso a Mangascià, anzi, sotto pretesto di correre a liberare la moglie, si allontanava dal lago di Ascianghi; Guangul inviava ogni giorno promesse e non soldati, e ras Mikael, sicuro di aver tempo a ritirarsi, lasciava il suo chitet mietesse nei campi da altri seminati. Ho già scritto e Vostra Eccellenza come sarebbe stato, non temerità ma follia, proseguire fino in fondo un’azione che aveva già pienamente raggiunto il suo obbiettivo, con forze e con trasporti insufficienti, con viveri problematici, contro nemico il quale si sarebbe ritirato, lasciando il deserto, in posizioni molto arretrate e molto forti, mentre il nostro fianco destro sarebbe stato esposto a qualsiasi attacco. Mai lo Scioa è stato pronto alla guerra come il mese passato, e come lo è al presente, e la nostra avanzata intempestiva avrebbe potuto crescergli, anzichè scemargli le forze. È assai difficile, per non dire impossibile, anche col diligente, controllato, quotidiano, triplo o quadruplo servizio d’informazioni, avere cifre, sia pure approssimativamente, conformi al vero circa le forze scioane ed amhara. Esse aumentano e scemano nelle diverse località, non solo secondo i movimenti, soventi volte incoerenti ed improvvisi, ma secondo il bisogno di raccogliere viveri, secondo le licenze che si sogliono largamente concedere ai soldati, secondo quelle che spesso e volentieri questi si pigliano, massime quando, come nel caso presente, la voglia di combattere non sia grande. Generalmente il contadino obbedisce al chitet del signore feudale e del Negus e, tratto fuori il suo fucile, corre al campo. Ma se si va per le lunghe, egli abbandona il campo, specie quando biondeggiano le messi, e si teme per gli armenti e per la famiglia. Non possono tornare in famiglia i soldati condotti da lontani paesi, come dall’Harrar e dallo Scioa meridionale, ma è naturale che avvezzi ai ricchi zemeccià, nei quali si fa grosso bottino e si gavazza col tec e colla carne sanguinolenta, si adattino male alle privazioni della presente guerra, ed al rispetto alla proprietà in paese di protetti del Negus. La discordia ed il malcontento non possono a meno di serpeggiare nelle loro file. Un certo numero di Galla ha già abbandonato ras Mikael. Si dice che altri più abbiano abbandonato Menelik; e non pochi Musulmani sono sensibili alla voce di sceich Thala, che nello Zebul proclama l’indipendenza dei seguaci del Profeta. Secondo una recente notizia portata direttamente da Adis Abeba a Makallè, Menelik avanzerebbe fino a Borumieda, e colà stando, invierebbe contro la colonia ras Mikael, ras Olié, Atichim Mangascià, ras Maconnen e ras Mangascià, con quel poco che rimane ancora dei Tigrini con ras Alula, con Uacscium Guangul e con qualche altro signorotto di buona volontà. Ras Uold e ras Darghiè rimarrebbero a guardia sull’Auasch coi loro contingenti, che potrebbero per avventura toccare i 10 000 fucili. In complesso, reputo probabilmente vicina al vero la cifra complessiva data a Vostra Eccellenza nel giugno scorso (relazione 27 giugno), di 30.000 nemici, scaglionati da Uoro Jelu ad Uolfà (sud del lago di Ascianghi), considerando in aumento qualche altro migliaio di uomini dell’Harrar ed in diminuzione qualche altro migliaio sottratti a Mangascià dalle conseguenze del combattimento di Debra Ailà. In ogni caso la cifra di 30.000 corrisponde alle cifre date da Capucci e da Felter, ed ai 62.000 fucili attribuiti da Piano e Traversi alle forze di Etiopia, senza contare il Tigrè e il Goggiam. Lascio fuori conto i 7 od 8000 uomini del contingente di Teclaimanot, i quali, assai probabilmente, resterebbero nel Goggiam in attesa degli avvenimenti, e magari potrebbero portare serie complicazioni intervenendo d’accordo con noi, ovvero come largo partito in favore di Uascium Burrù, e lascio qualche banda minore che potrebbe, secondo le circostanze, il capriccio o lo svolgersi degli avvenimenti, piegare verso l’una o verso l’altra parte ed unirsi al più audace. Qualche migliaio di lancie potrebbe, per avventura, aumentare la forza sovraindicata e magari qualche centinaio di piccoli cavalli; ma non pare sensibilmente, se si considera che così crescerebbero le difficoltà del nutrimento. Una cifra tonda di 30,000 uomini non è certo molto ragguardevole, dato il nostro ascendente militare e politico, dato il nostro ordinamento, disciplina, unità di direzione e di azione rispetto alle truppe scioane; data la nostra rapidità e coesione nelle marcie e nei combattimenti; date le profonde scissure fra i capi nemici, il malcontento nelle popolazioni, e il timore dei soldati, segnalato da parecchi informatori. Il raccolto, in molte provincie d’oltre frontiera, è stato buono ed il paese ha in copia bestie da macello e da trasporto. Nè pare che manchino i talleri, onde sono così ghiotti i capi abissini. Ma a lungo le riunioni di truppe in paese malamente e poco coltivato, senza servizi amministrativi che risparmino o moderino il consumo, sciupa sollecitamente ogni risorsa, specie quando i soldati abituati alle razzie vivono fra gente in gran parte a loro estranea, e da alcuni considerata addirittura nemica. Da Uoro Jelu alla nostra frontiera si possono contare circa quindici tappe abissine. Gli Inglesi nei 1868 ne hanno impiegato una ventina dal campo di Antalo a Magdala, e ne avrebbero impiegato forse trenta per spingersi fino a Uoro Jelu; ma si sa che essi avanzavano con immenso traino, con truppe in parte composte di bianchi, e con grandissime precauzioni. In una guerra difensiva, i soldati del Negus, potrebbero essere in numero anche maggiore, piegando dietro la linea del Bascilò e del Mille, coll’aggiunta che potrebbero tenere forti località e facilmente, come è loro costume, lasciare, ritirandosi, il paese a noi deserto. Di qui la necessità imprescindibile per noi, quando si conti di avanzare, di portare le vettovaglie, di avere guardie vigilanti ai fianchi, di essere pronti ad attaccare con forze sufficienti e superare prontamente ogni ostacolo ed ogni resistenza. Bensì la nostra avanzata scuoterebbe il morale già scosso, e potrebbe produrre a nostro profitto fughe, ribellioni e rovine delle quali è duopo tenere conto, ma sulle quali non si può interamente fidare in una impresa, che deve avere tutte le probabilità del successo. Ras Mangascià fa spargere sui mercati la voce dell’avanzarsi a grandi orde degli Scioani; e pare che Menelik non sia scarso di promesse. Lo spingerebbero all’azione: il bisogno di tenere alto il suo prestigio seriamente compromesso dall’occupazione da parte nostra di uno de’ suoi tre regni, colla città santa di Axum; la speranza, che forse nutre, di avere alleati i dervisci; la presa di Makallè con gli sbocchi del Pian del Sale e colle dirette comunicazioni coll’Aussa, che rendono il suo Impero (anche se conservato come è) tributario d’Italia, essendo da noi avviluppato; i consigli di qualche capo, e, se si vuole, di qualche mestatore francese o russo. Lo trattengono l’animo incerto, il timore di affrontare gl’Italiani, l’idea di dover attaccare fortificazioni, i consigli della moglie, dei parenti, e, dicono, di ras Maconnen, il problema delle vettovaglie, l’oscurità della situazione e la minaccia continua di ribellione e tradimenti. Generalmente si crede che il Negus si risolverà per la difensiva; quantunque le grandi puliture di strade, che continuano da Burumieda verso Uoaflà per la larghezza di venti metri, vorrebbero far credere un’avanzata offensiva. Frattanto l’opera nostra prosegue la sua via lentamente, come lo vogliono le enormi distanze, le diffidenze e le rivalità dei capi e la tardanza dei nativi a prendere risoluzioni energiche, che non siano colpi di testa. Mangascià non ha più con lui che pochi seguaci, sia perchè aderenti personali, sia perchè troppo compromessi rispetto a noi. Soltanto, con meraviglia di molti, pare che egli trovi appoggio in Uagscium Guangul del Lasta. Noi siamo in relazione continua con Uagscium Burrù del Lasta, sebbene tenuto in prigione; e quindi nel Lasta abbiamo come aderenti più o meno sicuri quanti gareggiano per lui. Ras Oliè pare in apprensione pei suoi possedimenti; pure non si è mosso a soccorrere Mangascià, e neppure ora si muove. Molto probabilmente egli avanzerebbe soltanto per ordine diretto di Menelik. Ras Mikael è un enigma. Ma se prende piede la direzione nei suoi Galla, è capace di tornare agli antichi amori con noi, sebbene, o per timore di essere scoperto, e per finta, o con animo deliberato, abbia respinto fieramente le offerte di Abdulrahman nostro agente all’Aussa. Nei monti a mezzodì di Ascianghi degiac Tesamma e Tafari uold Iman con qualche centinaio di fucili fanno la guerriglia a breve distanza dal campo di ras Oliè, e sono in relazione continuata col maggiore Toselli a Makallè. E una domanda di protezione ed un’offerta di alleanza l’abbiamo da degiac Iman uold, degiac Tafari al sud del Lasta, parente di ras Oliè. Teclaimanot, re del Goggiam, non ha peranco risposto alla lettera scrittagli dal maggiore Ameglio per conto mio. Ora si sparge la voce che egli passerebbe l’Abai per liberare il di lui cognato Uagscium Burrù, il quale, dalla sua prigionia, in questi giorni ha inviato il figlio ed il fratello a chiedere la protezione del Governo italiano. Scheih Thala è tuttavia nello Zebul coi suoi ottocento armati, e pare abbia accaparrato per lui gli Arabi Galla. Ma la di lui opera non è così viva, come per avventura sulle prime si poteva sperare, forse per naturale tardanza forse per difficoltà di comunicazioni. Tuttavia il movimento fra i Galla va estendendosi lungo i monti verso il sud, massime dopo la notizia della vittoria di Debra Ailà, come segnalano informatori dal Garfa in data dell’8 corrente, dall’Aussa del 16, mentre il Sultano di Aussa, finora sempre timoroso pei suoi Stati, pare deciso a lasciare che Abdulrahman si rechi al suo antico paese nell’Auasch, donde è stato espulso da Menelik. Ma è inutile entrare nei particolari, che soglio trasmettere coi miei dispacci telegrafici, nei quali cerco di concretare il grande numero di informazioni che giungono giornalmente a questo Governo. Ora stiamo ordinando le nuove Provincie. Per quanto grande sia il nostro ascendente militare e politico, pure è affare lungo, complicato e difficile in tanta lotta di interessi e di scomposte ambizioni, in tanta dispersione di gente, in tanto pullulare di pretendenti e col brigantaggio che ancora si manifesta qua e là nelle ambe. Ad ogni modo, l’essenziale è ora essere preparati per trarre dagli avvenimenti che si svolgeranno oltre Amba Alagi il massimo profitto a vantaggio della colonia. Baratieri. Infine altra ed importante causa che concorse a determinare l’impreparazione militare contro lo Scioa fu la soverchia fiducia che il Governo ed il Governatore nutrirono per l’opera politica diretta a creare nemici a Menelik; ma questa, e giusta appunto perchè non fu accompagnata dalla preparazione militare, ebbe un desolante successo. La costituzione politica dell’Etiopia è basata secondo il sistema feudale; vi è attualmente un imperatore o Negus Neghest (re dei re) un re (Negus) del Goggiam e diversi Capi di provincia o regione (Ras) che alla loro volta comandano ai capi minori delle città e dei villaggi (Scium), un clero ignorante, ma pretenzioso che fa capo ad un Abuna (Capo spirituale) residente in Gondar e che ha pure dei capi politici detti Eccighiè i quali sono onnipotenti tra le popolazioni. La religione professata in Abissinia è la cristiana di rito copto che ha grande venerazione per Cristo (ritenuto solo di natura divina) e per Maria e che predica la fede e l’amore tra i fedeli; ma i capi e sottocapi suddetti si odiano cordialmente l’un l’altro, e se non fosse per la paura reciproca, si darebbero volentieri reciprocamente lo sgambetto allo scopo di ingrandirsi e soddisfare l’ambizione di regno e di conquista, che è la passione predominante lassù. È più che certo perciò che, come avvenne al tempo della spedizione inglese in Abissinia che fece rivoltare contro Teodoro tutti i Re e capi dell’Etiopia in aiuto di sir Napier, il terreno abissino è fecondo all’intrigo politico ed alle ribellioni. Ma per far ciò occorrono o molti danari, come spesero gli inglesi (che pare abbiano raggiunto l’ingente spesa di 20 milioni di sterline), o molte forze; viceversa l’Italia si gettò nelle trattative politiche armata di sole buone parole, lusingandosi di ottenere dei successi coll’eccitare le ambizioni dei capi e colle semplici promesse di aiuti morali; e la delusione fu completa. L’azione politica italiana svoltasi con questi principi e con questi mezzi ebbe per iscopo di far defezionare Makonnen, ritenuto amico dell’Italia dopo il suo viaggio del 1889, di ottenere gli aiuti od almeno la neutralità del Re del Goggiam e del capo dei Wollo Galla ras Mikael, e di rendere il clero e le popolazioni tigrine favorevoli al dominio italiano. Essa portò inoltre i suoi sforzi tra le popolazioni mussulmane limitrofe, cercando di spingerle contro i nemici etiopi che ne facevano strage con razzie e devastazioni di ogni genere. Le trattative tra l’Italia e Makonnen, condotte colla massima segretezza dal cav. Felter residente all’Harrar, per un momento fecero sperare che questo Ras lusingato dal miraggio della corona etiopica, si sarebbe rivolto contro il Negus suo parente; ma quando egli si accorse che non erano accompagnate dai mezzi sufficienti per far trionfare la sua causa e le sue speranze, le troncò bruscamente e si diede in braccio al suo signore, catturando l’ingegnere Cappucci e sfrattando tutti gli italiani e lo stesso Felter dall’Harrar. Le trattative col Re del Goggiam e con ras Mikael non ottennero che buone parole tosto smentite dai fatti; quelle col capo del Lasta riuscirono soltanto a farlo imprigionare e spodestare; e le pratiche col clero e cogli altri capi tigrini, malgrado l’opera indefessa, amorevole ed efficace dei maggiori Ameglio e Toselli e del generale Arimondi nel Tigrè, non ottennero che finti atti di sottomissione e d’ossequio che erano il prodotto più del timore che della convinzione e nascondevano il desiderio di una pronta riscossa abissina ed i propositi interni di tradimento e di ribellione. Maggiore ascolto, ma non miglior successo ottennero invece le trattative colle tribù mussulmane della costa. Ivi il capitano Persico recatosi nel 1894 in missione speciale era riuscito a tirare completamente dalla parte dell’Italia l’Anfari d’Aussa e poscia ad estendere la sua influenza benefica tra i dancali dell’Auasch. Ma in causa della povertà di queste regioni e della loro scarsità di abitanti, non si poterono avere che aiuti effimeri consistenti in una banda di circa 300 uomini agli ordini di un certo Seich Thala che poi venne a congiungersi colle nostre truppe ad Amba Alagi; mentre dalle tribù e dalle regioni della costa nessun ostacolo serio si venne a frapporre ai movimenti di Menelik. Felter, Cappucci e Nerazzini ritornati a Zeila per appoggiare le trattative con Makonnen, soffiavano anche tra i mussulmani dell’Harrar soggiogati dall’Etiopia, e l’intrepido capitano Bottego le creava nemici nell’ardito suo secondo viaggio pel bacino del Giuba; con una seconda convenzione stipulata coll’Inghilterra in data 5 maggio 1894 si era ampliata la zona d’influenza italiana nella Somalia; e la stessa nazione nostra amica e la Germania proibivano dai loro porti il commercio d’armi coll’Abissinia, ma pochi vantaggi ne derivarono alla causa italiana. Ecco per sommi capi le varie cause che servirono a determinare l’impreparazione militare italiana contro lo Scioa, e dall’esame di esse non si può a meno di andar guardinghi nel riversare le responsabilità su uno o sull’altro, perchè appare evidente che essa invece spetti un po’ a tutti; ossia spetta all’Italia in generale. Infatti l’Italia voleva avere una colonia grande e voleva spender poco, e per mezzo dei suoi deputati appoggiò un governo che l’accontentò ed un governatore che non soltanto la mantenne ma l’ampliò. Però venne un giorno in cui l’edificio fondato su tali basi squilibrate ed impossibili doveva crollare, e l’Italia non solo fu costretta a pagare più di quanto aveva risparmiato lesinando il necessario, ma dovette eziandio rassegnarsi alla perdita di una dolorosa battaglia campale ed alla riduzione dei confini della Colonia e quasi quasi alla sua perdita intera. Però non si può negare che, se anche l’impreparazione militare preventiva può essere stata causa di successive difficoltà ed aver contribuito in concorso di altre cause ai futuri insuccessi delle armi coloniali, essa sarebbe stata facilmente rimediabile se, quando apparvero alla frontiera meridionale del Tigrè le prime forze scioane e fu resa ormai certa la avanzata di Menelik, il Governatore della Colonia che riceveva tutte le informazioni, che doveva conoscere le posizioni e le necessità per una guerra difensiva in quei territori ch’egli aveva occupati, si fosse formato un concetto chiaro della situazione ed avesse palesato al Governo i veri bisogni e chiestigli i mezzi necessari; perchè da questo momento il Governo non solo non rifiutò nulla, ma mentre il Comandante si trovava imbarazzato e confuso nelle richieste, esso lo tempestava di offerte tutte intese a preparare il successo delle nostre armi e senza preoccupazioni di spese. E chi considera poi che malgrado gli errori commessi prima e dopo dell’invasione scioana, e fino al giorno della battaglia d’Adua, questa avrebbe ancor potuta riuscire vittoriosa se non ne fossero state compromesse le sorti con le cattive disposizioni del momento date dal Comandante, non può a meno di ritenere che il fatto dell’impreparazione militare, quantunque grave, anzi gravissimo, non poteva avere in relazione ai mezzi ed alle risorse dell’Italia, un’importanza assolutamente capitale. Viceversa Menelik, disponendosi ad una guerra di cui ben conosceva l’importanza, aveva trascorsi i quattro anni dal 1891 al 1895 in continui preparativi militari e politici, facendo precedere quelli a questi. Approfittando dei porti francesi di Obok e di Gibuti egli si diede a far acquisto d’armi su vasta scala che, per la via d’Harrar, venivano condotte ad Adis Abeba; numerosi negozianti e viaggiatori europei e specialmente russi e francesi introdussero nello Scioa dei veri magazzeni d’armi e munizioni anche dei più recenti modelli, ed alcuni ufficiali di nazionalità diverse non in servizio attivo, tra cui vanno noverati il russo Leontieff ed il famigerato Chefneux, ufficiale di riserva francese recatosi allo Scioa con 15 cannoni a tiro rapido, istruivano gli Abissini nei maneggi delle nuove armi e delle nuove artiglierie; mentre coi consigli e coll’esperienza e colla conoscenza delle necessità logistiche, per tener campo contro una nazione come l’Italia, indussero il Negus a prepararsi un servizio di vettovagliamento che doveva meravigliare il mondo per la sua durata. Effettuati i preparativi militari, Menelik alzò più forte la voce anche tra i suoi dipendenti, e mentre per mezzo di Tesfai Antalo continuo messaggero tra Adis Abeba e Makallè richiamava al dovere ras Mangascià, tirava le fila di quella politica che doveva riunire in un sol fascio tutta l’Etiopia. Tecla Haimanot del Goggiam, ras Maconnen dell’Harrar, ras Michael dei Wollo Galla, ras Mangascià Atichim e ras Oliè dell’Ahmara, il figlio di Voscium Borru del Lasta e tutti gli sbandati capi del Tigrè coi loro profughi seguaci, colle buone e colle cattive, furono stretti in un vincolo, malgrado gli odi, le rivalità e i delitti di sangue che dividevano molti di loro; e riuscirono a formare l’unione politica e militare di tutta l’Etiopia, fenomeno straordinario di cui non si ricorda l’eguale in tutta la storia dell’Abissinia. Già fin da quando ebbe luogo il convegno di Mangascià ad Adis Abeba, l’intervento scioano in suo favore, sebbene non ne fosse ancora fissato l’epoca, era già deciso; ma forse allora Menelik non era ancora preparato del tutto, forse egli volle che il suo Ras fosse umiliato in una sconfitta contro le armi italiane prima di accorrere in suo aiuto. Il fatto sta che sulla fine del 1894 Menelik intraprese con tutte le sue forze scioane una grandiosa razzia (Zemeccià) tra le infelici popolazioni del Wollamo, che furono dilapidate e spogliate dei lori beni e di tutte le loro mandre destinate a fornire i viveri per la guerra d’Italia, e tratte in parte in schiavitù per far le parte di servi nella guerra stessa; quindi nella primavera seguente, avendo saputo la sconfitta di Mangascià a Coatit e Senafè e la successiva sua cacciata dall’Agamè e da Adua, Menelik dopo avergli spedito qualche aiuto di uomini e di munizioni, determinava l’avanzata scioana in suo aiuto. La caduta della città storica di Adua e di quella sacra di Axum nelle mani degli Italiani deve avergli dato una forte spinta ad accorrere in difesa del minacciato impero e della sua religione, e la regina Taitù ed il vecchio ras Alula e Ligg Abraha l’assassino del capitano Bettini, e Tesfai Antalo, procaccio di Mangascià, e tutti gli altri che alla corte del Negus rappresentavano il partito tigrino, debbono avere ululato le più feroci minacce contro l’Italia. Le prime mosse delle forze abissine si effettuarono nella primavera del 1895 sulla direttrice Entotto-Borumieda-Ascianghi, colla concentrazione dei ras Oliè, Mikael e Mangascià Atichim e del capo del Lasta, che avrebbero costituito la estrema avanguardia dell’esercito scioano sotto il comando supremo di ras Alula; se non che l’imminenza delle pioggie e le scissure sorte tra i capi, nonchè la caduta in disgrazia di ras Alula presso il Negus, interruppero il movimento d’invasione che fu rimandato all’ottobre prossimo e dopo la festa del Mascal o della Croce (27 settembre). Passata quest’epoca, tutta l’Etiopia si mise in moto, e dalle rive dell’Atbara e dell’Abai a quelle dell’Auasch, del Meli e dell’Anazo, dalle voragini del Tacazzè alle sorgenti del Giuba e del Uebi, tutto il vasto impero si scuoteva e più di 100.000 armati con altrettanti servi inermi e donne cenciose, seguiti da uno sterminato numero di mandre e bestie da soma, cariche tutte di vettovaglie, tende e munizioni si riversarono come un’immensa valanga contro l’Eritrea, sitibondi di sangue e di rapina. * * * Note CAPITOLO XV. (1895) Arimondi comandante del Tigrè — Sue forze — Suoi provvedimenti — Il capitano Persico ad Amba Alagi — Il maggiore Toselli Ticino ad Ascianghi — Informazioni sul nemitro — Sorprese ed equivoci — Toselli si ritira ad Amba Alagi — Baratieri parte da Massaua — Glorioso combattimento di Amba Alagi — Scontro di Aderà — Ripiegamento di Arimondi su Adagamus — Il battaglione Galliano a Makallè Le forze che il generale Arimondi, lasciato comandante del Tigrè, poteva opporre all’immensa invasione scioana sommavano complessivamente a 4350 fucili regolari a 2000 delle bande ed a 6 pezzi d’artiglieria; e queste forze erano sparse sopra un vastissimo territorio e dislocate tra Adigrat, Adua e Makallè, ed in parte impegnate in escursioni per la repressione del brigantaggio, per la sottomissione dei ribelli, per la sorveglianza dei confini e dei capi indigeni. Altre forze di poco superiori erano a disposizione del Governatore, sparse su tutte le regioni a nord dei vecchi confini del Mareb-Belesa-Muna, da Massaua a Kassala e nei molteplici forti e presidi interni. In base alle istruzioni ricevute dal Governatore, Arimondi si diede a riordinare tutta la nuova regione conquistata, procedendo alla investitura dei capi indigeni sottomessi, alla pacificazione interna, alla fortificazione delle principali località, alla formazione di nuove bande regionali, e proseguendo sulle trattative per attirare all’Italia i capi incerti. A capo dell’Enderta fu designato ras Sebath, che indi a poco aiutato d’armi e di denaro istituì una sua banda di oltre 300 fucili; ad un altro capo spodestato, certo degiac Alì, fu promesso il retaggio de’ suoi padri nell’Enda Moeni; al vecchio ras Agos dello Scirè, tentennante tra la sommissione e la ribellione, fu offerto il Semien. Tutto il Tigrè fu poi diviso nelle zone di Adua, Adigrat e Makallè; ed in quest’ultima località il 20 novembre alla presenza dei notabili indigeni fu inaugurato sull’altura di Enda Jesus un piccolo forte ove doveva poi immortalarsi l’anima eroica di Giuseppe Galliano. Frattanto il Governatore rimaneva a Massaua tutt’altro che preoccupato della sorte della Colonia e del Tigrè, sebbene i nemici si addensassero di già alle sue porte. Egli, malgrado le voci e le notizie che già correvano di concentramenti di truppe scioane e ahmariche, intorno ad Ascianghi giudicava ancora che esse avessero uno scopo piuttosto difensivo che offensivo, che fossero tutt’altro che numerose e che mirassero piuttosto a fermare le trionfanti armi Eritree sulle porte del Lasta, che a riconquistare il dominio perduto di Mangascià. Tali speranze (che in parte nutriva ancora il 31 dicembre, come risulta nella sua relazione sul fatto di Amba Alagi) erano avvalorate anche da informazioni, da lui ritenute attendibili, le quali assicuravano che il re del Goggiam ed altri capi ad ovest del lago Tsana si erano ribellati; che i galla e i mussulmani della costa avrebbero molestato la marcia delle truppe scioane, e che grandi scissure regnavano fra tutti gli altri capi; per cui era difficile che sovrastasse un imminente pericolo all’Eritrea. Tuttavia, persistendo le voci d’arrivi di truppe scioane dal sud, il 13 novembre, d’accordo con Arimondi, fa partire la compagnia Persico in distaccamento avanzato ad Amba Alagi; ed il 24 successivo anche il maggiore Toselli fu inviato da Arimondi a quella volta con 3 compagnie indigene, 2 sezioni d’artiglieria e le bande di ras Sebath, con incarico di sorvegliare i confini meridionali del Tigrè, mantenere a freno i capi dipendenti e dirigere il servizio d’informazioni. Toselli, congiuntosi colla compagnia Persico, si spinse fino a Belegò sui confini meridionali dell’Enda Moeni, e quindi potè accertare che a sud del lago Ascianghi si concentravano numerose forze nemiche. Le notizie che egli raccoglie da’ suoi informatori più fidati, e che trasmette tosto al generale Arimondi e al Governatore, affermano che sulla linea Borumieda-Ascianghi è un continuo affluire di Abissini da tutte le parti; che il 23 novembre ras Alula e Oliè erano a Mai Cobbò e i ras Maconnen e Micael nel Jeggù, e che il Negus era rimasto ad Entotto; che alcuni giorni dopo i ras Alula, Mikael, Darghiè ed il Fitaurari del Negus erano a Mai Sciambucò, e Mangascià presso Ascianghi; che il 27 i Ras predetti erano tra Balomata e Uofflà, e che vi si erano aggiunti anche il capo del Lasta, ras Mangascià Atichim del Beghemeder, e ras Maconnen dell’Harrar, mentre Tesfai Antalo, l’amico di Mangascià, era corso verso il sud a sollecitare il Negus. Relativamente all’entità delle forze a disposizione dei vari capi, Toselli poteva dare tali notizie, che apparvero gravi a tutti, salvo che all’ottimista Governatore. Egli tuttavia comincia a muoversi e sollecitato dalle corrispondenze di Arimondi, suggerisce la concentrazione di un corpo di truppe a disposizione di lui in Makallè consistente in 16 compagnie regolari, 1 batteria e le bande del Tigrè, Agamè, Serae, Okulè-Kusai, Enderta, Enda Moeni: non più di 6000 uomini in tutto, coi quali ritiene di poter fronteggiare vittoriosamente qualsiasi attacco nemico anche se osassero avanzare tutte le forze dei Ras riuniti. (vedasi Allegato 11 alle relazioni ufficiali, su Amba Alagi). E contemporaneamente mobilita le sue truppe coloniali, chiama in servizio la milizia mobile e le altre bande, e ordina poi il concentramento di tutte le truppe disponibili ad Adigrat; radunandovi in tutto 5 battaglioni, 1 batteria e le bande, ossia poco più di altri 4000 fucili e 6 pezzi. Finalmente egli stesso in persona il 3 dicembre partiva per l’Asmara e si dirigeva verso Adigrat, dopo aver consigliato ad Arimondi un’azione energica oltre il Tacazzè, da eseguirsi da una compagnia e dalle bande del tenente Mulazzani, allo scopo di decidere l’incerto ras Agos e gli altri capi del Semien in favore dell’Italia. Si vede che temeva ben poco se riteneva sufficienti 200 uomini ad esplicare un’azione energica in quelle condizioni. Infatti egli credeva di andare a fare la pace; non solo perchè con una lettera del 26 novembre aveva ricevuto da Nerazzini l’annuncio che Maconnen prima di partire pel Tigrè aveva dichiarato di venire ad abboccarsi col Governatore per intendersi circa la pace, ma anche perchè lo scaltro Ras appena giunto a Balomata, alquanto a sud del lago Ascianghi, gli aveva scritto le seguente altra lettera: Che arrivi all’illustre amico mio generale Baratieri Governatore dell’Eritrea e di tutti dipendenti paesi (provincie). Balomata, 26 novembre 1895. Sia a voi pace e salute! Mandata da ras Maconnen governatore di Harrar e di tutti i dipendenti paesi. Se domandate della mia salute fino a quest’ora sto bene. Quando ero in Harrar io e monsieur Felter abbiamo conferito a quanto riguarda il bene (utilità) che sarà per il vostro Governo e per il nostro. Egli mi disse che queste parole sono del vostro Governo. Ora se questo affare (oggetto) può essere conchiuso facendo io e voi un colloquio personalmente sarebbe un beneficio per non versare il sangue cristiano senza un motivo. S. M. mi ha mandato verso il Tigrai, prima di tutto per conferire con Voi e definire. Ora ho la speranza che farete sapere subito quello che vi fa comodo. Monsieur Felter se assente sarebbe bene di chiamarlo. Auguro che il Dio dia salute a voi ed al vostro Governo. Maconnen. Baratieri credette sincere le proposte del Ras scioano e le attribuì alla paura inspirata dalle precedenti vittorie eritree. Così si affrettò a incaricare telegraficamente per mezzo di Arimondi il maggiore Toselli di disporre per le particolarità del colloquio, e mandò tosto un messo a Maconnen colla risposta seguente, che doveva arrivargli soltanto dopo lo scoppio delle ostilità. Mandata dal generale Baratieri, governatore dell’Eritrea al caro e illustre amico ras Maconnen governatore di Harrar. Asmara, 3 dicembre 1895. La pace e la salute sia con Lei. Sono contento che Ella goda ottima salute. Io pure grazie a Dio sto bene. Quando si versa sangue cristiano, anche se mi arride la vittoria, è un gran dolore per me. Perciò sarò molto lieto se un colloquio fra noi due potrà evitare lo spargimento di sangue. Anche S. M. il Nostro re Umberto lo desidera ed ho avuto da Lui pieni poteri. Anche Lei sono certo verrà al colloquio munito di pieni poteri di S. M. negus Menelik. Per tutti i particolari del colloquio ho dato incarico al maggiore Toselli. Anche Lei invii una persona che possa trattare col maggiore Toselli. Il signor Feiter mi ha riferito tutti i colloqui che ha avuto con Lei, e siccome siete veri amici l’ho mandato a prendere a Zeila. Arriverà domani a Massaua con una delle navi della nostra squadra da guerra che ora sta fra Aden e Zeila. Ella non abbia alcun timore per i suoi paesi. Auguro che Dio conceda salute a Lei ed a tutta l’Etiopia. Baratieri. Frattanto intorno al lago Ascianghi era avvenuto il concentramento di oltre 35000 abissini e tutti i principali Ras anelavano di venire alle armi. Tra Toselli e Maconnen furono scambiati per alcuni giorni dei messi per stabilire le condizioni del colloquio col Governatore. Ma in breve il primo ebbe ad accorgersi che il Ras fingeva e cercava pretesti per avanzare indisturbato e perlustrare le posizioni dei nostri, senza mai concludere nulla. Finalmente Toselli avvertì Maconnen che se veramente aveva intenzione di trattare la pace facesse proposte chiare e frattanto si ritirasse ad Ascianghi; e poichè il Ras sdegnato gli rispose intimandogli di sgombrare il passo, Toselli si preparò alle armi opponendogli un fiero rifiuto. Ormai il dado era tratto, e si vide lo strano spettacolo di un battaglione di 2000 uomini che lanciava il guanto di sfida ad un’intera armata di 35000. Certamente il prode maggiore quando lanciava tale sfida al prepotente Ras, ignorava che in seguito a due gravi inconvenienti già successi nelle corrispondenze tra lui ed il comando del Tigrè, si sarebbe trovato nel momento della lotta completamente isolato e abbandonato. Toselli alcuni giorni prima, trovandosi ancora sulla fortissima posizione di Belegò, si era accorto che essa era facilmente aggirabile dal nemico, e con lettera del 28 novembre aveva manifestato al generale Arimondi l’intenzione di ripiegare su Amba Alagi. Il Comandante del Tigrè autorizzò non solo tale ripiegamento, ma gli mandò un telegramma che concludeva colle seguenti parole: Lascio in facoltà V. S. mantenersi ancora Belegò o ripiegare ai piedi di Amba Alagi, o secondo circostanze più indietro ancora. Senonchè questo telegramma per una causa strana, inconcepibile, giunse al maggiore Toselli errato e mutilato nella forma e nella sostanza col periodo suddetto che si esprimeva così: Lascio in facoltà V. S. mantenersi ancora Belegò oppure ripiegare ai piedi Amba Alagi secondo circostanze. Dopo questo inconveniente che obbligava o per lo meno autorizzava Toselli a non abbandonare l’Amba fatale avvenne l’altro seguente non meno grave. Il generale Arimondi, giustamente impressionato dalle gravi notizie che giornalmente Toselli mandava da Amba Alagi, il giorno 5 lo aveva mandato ad avvertire che all’indomani sarebbe corso in suo aiuto; però avendo dopo tale promessa chiestone facoltà al Governatore, ne ebbe invece la proibizione, così che la partenza fu sospesa. Alla mattina del 6 Arimondi mandò per lettera ad avvisare Toselli di tale rifiuto; ma il messo incaricato di tale servizio non giunse poi a destinazione. Questi due inconvenienti del telegramma sbagliato e del messo non arrivato furono certamente quelli che trassero in inganno il maggiore Toselli, ed esposero il suo eroico battaglione alla gloriosa ma dolorosa giornata del 7 dicembre; perchè in seguito ad essi non solo il prode maggiore si credette autorizzato a mantenersi fermo ai piedi dell’Amba, ma vi fu confortato colla promessa di aiuti, che non potè essere revocata. Nella giornata del 6 altre gravi notizie mandate da Toselli annunziarono la situazione criticissima e l’attacco imminente ed inevitabile, e questa volta determinarono Arimondi a muovere in suo soccorso e Baratieri a consentirlo; ma era già troppo tardi. Frattanto l’eroe si disponeva a sostenere l’urto scioano coll’esigua forza che aveva a suoi ordini; la quale, in seguito all’arrivo di alcuni reparti e della banda di sceich Thala raggiungeva complessivamente la forza di 2000, fucili circa; e cioè: Il 4.° battaglione Indigeno colle compagnie Canovetti, Issel, Rizzi e Bruzzi; La compagnia Persico del 3.° indigeni; Una centuria del 6.° indigeni (tenente Pagella); Due sezioni della prima batteria da montagna (capitano Angherà); Bande di ras Sebath, degiac Alì e di sceich Thala; Bande dell’Okulè-Kusai (tenente Volpicelli); Amba Alagi è uno dei soliti massi granitici isolati, a pareti quasi verticali che caratterizzano il suolo dell’Abissinia; ai piedi di essa e tutt’intorno si diramano delle propagini montuose, sul cui fianco orientale passa la strada principale serpeggiante intorno alla dorsale etiopica. Ma oltre a questa via, che fu già percorsa dalle truppe inglesi, e che è il più importante mezzo di comunicazione tra i paesi del sud e quelli del nord, altre due stradicciuole da essa diramatesi un poco a sud di Atzalà girano largamente e quasi ad arco intorno all’Amba, passando l’una ad est pel colle di Felegà e l’altra ad Ovest pel colle di Togorà, donde poi si ricongiungono alla via principale. Toselli conobbe le necessità imposte da questa aggirabilità della sua posizione, ma i suoi mezzi erano troppo inferiori al bisogno. Dopo la fiera negativa da lui data a Maconnen, intimantegli di sgombrare il passo per Makallè, prevedendo inevitabile l’attacco per la mattina del 7 dicembre, egli dispose sino dal 6 le sue truppe alla difesa in questo modo: Sulla sinistra le bande di ras Sebath e degiac Alì (350 fucili) vanno ad occupare le alture che sovrastano al sentiero del colle di Felegà; alla loro destra la compagnia del capitano Issel; davanti a questa e scaglionata in avanti, colla centuria del tenente Mazzei spinta fino ad Atzalà, la compagnia Canovetti che fa il servizio d’avamposti; al centro, sullo spianato anteriore dell’Amba, la compagnia del capitano Persico colla batteria del capitano Angherà; all’estrema destra la banda di Sceich Thala con 350 fucili a difesa del colle di Togorà, e tra questa e il centro, sulle propagini occidentali dell’Amba, le bande dell’Okulè-Kusai del tenente Volpicelli (300 fucili) a difesa di un sentiero a mezza costa che si inerpica al colle predetto; le compagnie Bruzzi e Ricci e la centuria Pagella sono lasciate in riserva ad est sotto l’Amba presso la chiesa, ove è pure stabilito il posto di medicazione. Il mattino del 7 verso le ore 6 1/2 i nostri piccoli posti cominciano a segnalare dei nuclei di Abissini che si dirigono su Atzalà puntando sul fronte delle nostre linee. Ne succedono le prime fucilate colla centuria avanzata e poi col resto della compagnia Canovetti, la quale li respinge e giusto gli ordini ricevuti ripiega sulla destra della compagnia Issel. Ma poco appresso dal colle di Bootà si scorge avanzare ed irrompere celeremente contro la nostra ala sinistra una grossa colonna forte di 7000 uomini agli ordini di ras Oliè, che si dirige verso il colle di Felegà. Questa colonna impegna tosto un vivo combattimento colle bande di ras Sebath, il quale subisce gravi perdite ed è costretto a ripiegare verso destra. Allora entrano bravamente in lizza anche le due compagnie Issel e Canovetti che al nemico irrompente e minaccioso oppongono una fiera ed efficacissima resistenza, subendo ed infliggendo gravissime perdite; in loro aiuto più tardi vengono mandate le compagnie Ricci e la sezione d’artiglieria del tenente Manfredini, i cui vigorosi attacchi ed i tiri bene aggiustati producono lo scompiglio nel corpo nemico, costringendolo a ripiegare. Se non che poco appresso, cioè verso le 10 si vide sbucare dal colle di Bootà nella valle un’enorme massa nemica di oltre 15000 fucili agli ordini di ras Maconnen, che si diresse tosto verso il centro della posizione al lato sud dell’Amba; e contemporaneamente giungeva notizia che anche ad ovest dell’Amba la nostra destra era stata attaccata, e che le genti dei ras Alula e Mangascià avevano fugato sceich Thala verso il colle di Togorà ed impegnato già le bande di Volpicelli. Allora Toselli, che spera sempre i rinforzi di Arimondi, chiama sulla linea anche la riserva, mandando la centuria Pagella in aiuto a Volpicelli, e richiama presso all’Amba le compagnie già vittoriose dell’ala sinistra apprestandosi ad una disperata difesa. Succede una lotta tremenda, disuguale e micidiale. All’attacco diretto della grossa colonna di Maconnen segue la ripresa dell’offensiva per parte di ras Oliè, ed i miracoli di valore compiuti dai nostri, non valgono ad arrestare la preponderante massa nemica, la quale sotto il fuoco ben aggiustato degli ascari e della batteria del capitano Angherà subisce delle perdite enormi, ma procede impavida verso l’Amba, serrando sempre più da vicino l’eroico manipolo dei difensori. Era già passato il mezzogiorno quando Toselli, perduta ormai ogni speranza nell’arrivo di Arimondi e vista ormai impossibile ogni resistenza, dopo quattro ore di accanito combattimento, cominciò a disporre per la ritirata a scaglioni, dirigendo prima salmerie, bagagli, donne e feriti per un sentiero che dal lato nord-ovest dell’Amba conduceva al colle di Togorà. Ma anche da questa parte le sorti della lotta erano state fatali pei nostri, perchè qui le genti dei ras Alula e Mangascià avevano già occupato il colle e costretto le bande di Volpicelli e la centuria Pagella a ripiegare sovra un lungo sperone sul cui fianco, sovrastante ad un precipizio di 400 m. di profondità, serpeggiava il difficile sentiero. In aiuto dei due Tenenti ed in difesa dell’unica via di salvezza che rimaneva ai vinti fu spostata in quella parte la sezione del tenente Manfredini il quale potè prendere posizione e sparare a mitraglia contro fitte masse nemiche alla distanza di 50 metri. Intanto sul fronte sud-est avvengono gli ultimi disperati sforzi della difesa per arrestare gli invasori, già saliti sullo spianato dell’Amba, e proteggere l’imboccatura della via di ritirata. Ma ormai tutto era perduto; sull’angusto sentiero si affollano i pochi superstiti inseguiti ed incalzati dal nemico furente che s’affaccia ed irrompe da tutte le parti emettendo delle grida selvaggie. La lotta si cambia in una sanguinosa ed orrenda carneficina, ed i nostri compiono dei prodigi di valore che fan pagar cara la vittoria agli Scioani. Gli eroici artiglieri resistono fino all’ultimo vomitando la strage dai loro pezzi, e ridotti agli estremi, piuttosto che cederli ai nemici, li precipitano nei burroni, travolgendosi con essi; ad uno ad uno quasi tutti gli ufficiali evadono combattendo alla testa dei loro reparti, e tra essi e gli ascari è un gareggiar di coraggio, di generosità, di sprezzo del pericolo. Toselli, disceso ultimo dall’Amba fatale colla luce della gloria aleggiantegli sull’ampia fronte serena, dopo aver fatto degli sforzi sovrumani per assicurare ai pochi superstiti la via di ritirata, li commette agli ordini del suo aiutante maggiore Bodrero, e volgendo la fronte al nemico, cade col sorriso degli eroi sulle labbra. La sua figura gloriosa s’impose all’ammirazione degli stessi nemici ed inspirò la musa etiope, che oggi ancora nei canti popolari del Tigrè e dell’Ahmara, esalta il valore del nostro eroe. Questa gloriosa ed infelice giornata costò la vita a circa 1500 indigeni ed a 20 italiani; degli ufficiali si poterono salvare solamente i Tenenti Bodrero, Pagella e Bazzani i quali raccolsero e condussero in salvo 300 ascari1. Giunti, sempre inseguiti alle calcagna dal nemico, a Aderà, a circa 12 Km. da Amba Alagi, trovarono il generale Arimondi, il quale, informato del disastro, dispose tosto le proprie truppe in loro aiuto, cercando di trattenere gli Scioani e sostenendo contro di essi un combattimento nel quale egli stesso corse grave pericolo di vita, essendogli stato ucciso il cavallo. Arimondi, che disponeva di poco più di 2000 uomini, riuscì ad arrestare l’inseguimento ed a permettere che i superstiti di Amba Alagi si portassero in testa alla linea di ritirata; quindi, avvicinandosi la notte e ingrossando il nemico, si ritrasse in buon ordine verso il nord, molestato per un buon tratto dalla cavalleria galla. In questo combattimento di Aderà si ebbero da parte nostra 1 morto e 15 feriti. Dopo una marcia penosissima Arimondi giunse all’indomani verso le 8 a Makallè, dove, premendogli di non abbandonare quel forte munito abbondantemente di viveri e di munizioni, e ritenendo opportuno di conservarlo anche come linea di difesa avanzata della nostra Colonia, lasciava il prode maggiore Giuseppe Galliano con 20 ufficiali, 16 sottufficiali, 150 soldati italiani, e circa 1000 ascari; ritirandosi egli col rimanente della truppa e dopo un’altra penosissima marcia, molestata dalle popolazioni, nelle alture di Adagamus e sud di Adigrat. Anche questa seconda marcia di ritirata costò la vita ad un’ascaro ed a parecchie donne del seguito e si ebbero pure 3 ascari feriti. * * * ↑ Lasciarono la vita ai piedi dell’Amba fatale i seguenti ufficiali: il maggiore Toselli; i capitani Canovetti, Issel, Angherà, Ricci e Persico; i tenenti Mazzei, Volpicelli, Messina, Libera, Sansoni, Molinari, Bruzzi, Tiretta, Jacopetti, N. Mulazzani, Manfredini, Barale, Cariello, Battistoni. Rimase ferito e prigioniero degli Scioani il tenente Scala d’artiglieria. Note CAPITOLO XVI Condizioni della Colonia dopo Amba Alagi — Concentrazione delle forze eritree in Adigrat — Baratieri ne assume il comando e Arimondi è mandato a Massaua — Il Parlamento vota 20 milioni per la rivincita e il Governo conferma la fiducia in Baratieri — Spedizioni di rinforzi — Incertezze del Governatore — Assedio di Makallè — Arrivo del Negus — Attacchi degli assedianti e gloriosa resistenza di Galliano — Dolorose condizioni dell’eroico presidio — Ammirazione e preoccupazioni — Liberazione. La Colonia dopo la giornata del 7 dicembre venne a trovarsi nelle seguenti gravi condizioni: tutto il Tigrè, salvo Makallè, occupato dal battaglione Galliano, e l’Agamè, ove intorno ad Adigrat concentravasi la forza coloniale, e compresa la stessa Adua donde era stato richiamato il battaglione Ameglio, abbandonato in potere dei ribelli e del nemico avanzante, cui s’affrettavano a recare omaggio gli stessi capi civili e religiosi che due mesi prima si inchinavano a Baratieri; la banda di sceich Thala squagliatasi verso l’Aussa, portando altrove la notizia della sconfitta italiana; Sebath ed Agos Tafari ancora fedeli, ma sfiduciati, per essersi veduti svanire quei domini che loro erano stati promessi; nei dintorni di Adigrat, riuniti in fretta e furia, poco più di 6000 fucili tra regolari e bande, e poco più di altri 3000 di reparti ancora in formazione al di qua del Mareb, compresa la milizia mobile; poche derrate ed altri materiali raccolti in Adigrat, quadrupedi insufficienti per organizzare un buon servizio di trasporti, carovane di donne e di feriti in ritirata, il Governatore non ancora sul luogo della difesa. Inoltre il presidio avanzato di Makallè, mentre lasciava poche speranze di poter resistere alla fiumana nemica, destava inquietudini sulla sua sorte. Il Governatore che il giorno del combattimento era ancora a Barachit, cioè ad oltre 200 km più indietro, riversò la responsabilità di questa catastrofe unicamente sul generale Arimondi incolpandolo di non essersi attenuto a quelle direttive dategli nell’affidargli il comando del Tigrè, colle quali si stabiliva in Adigrat il perno di difesa della Colonia, coll’obbligo di ritirarvisi all’incalzare di preponderanti forze nemiche. Attribuì pure a lui la responsabilità di quegli equivoci nella trasmissioni degli ordini che ebbero sì tristi effetti sulle sorti della giornata; e si lagnò acerbamente perchè mantenne l’occupazione di Makallè contrariamente alle direttive suddette, ritenendola una inutile e pericolosa dispersione di forze. La tensione dei rapporti tra i due Generali giunse a tale che Arimondi fu allontanato dal luogo dell’azione e destinato a Massaua coll’incarico secondario di preparare e ricevere i rinforzi indigeni e italiani. Ma le acerbe censure ed i bistrattamenti inflitti al generale Arimondi intorno al fatto di Amba Alagi, mentre furono generalmente ritenuti esagerati e sconvenienti, e da molti anche riconosciuti senza fondamento, non poterono neppure scusare la condotta del Governatore. Infatto pure supponendo che Arimondi, lasciato solo nel Tigrè con pochi mezzi e con molta responsabilità, e sempre ostacolato e paralizzato ne’ suoi intendimenti e nelle sue iniziative dal superiore lontano, abbia incorso in alcuno degli errori che influirono sul predetto fatto d’armi, il suo errore sarebbe stato certamente evitato se il Governatore che doveva conoscere le gravi condizioni della Colonia, che riceveva tutte le informazioni, che era in continua corrispondenza col Governo, coll’Arimondi stesso, coi presidii e coi Residenti vicini e lontani, e che dirigeva tutte le file della politica, come voleva dirigere anche tutte le mosse militari, invece di rimanere inerte a Massaua fino al 3 dicembre, cioè fino a 4 giorni prima del fatto d’armi, colle forze coloniali sul piede di pace, colla milizia mobile in congedo e coi pochi battaglioni disponibili sparpagliati su tutta la vasta Colonia, si fosse trovato al suo posto là verso la frontiera, ove premeva il pericolo, ed ove urgeva il bisogno della difesa. Prima di accogliere tutte le accuse che Baratieri, sia nella relazione sull’avvenimento di Amba-Alagi, sia nel suo libro di memorie rivolge contro Arimondi bisogna poi pensare che il modesto eroe di Agordat non ebbe nè agio ne tempo di difendersene, avendo indi a poco lasciata la vita gloriosamente sul Raio. E così pure bisogna respingere le fantasticherie di taluni che attribuirebbero la causa dell’eccidio all’eccessivo desiderio che aveva Toselli di affrontare da solo una battaglia sperandone la gloria; asserendo che egli abbia voluto soffermarsi sotto l’Amba mentre aveva ordine di abbandonarla, ripiegando. Tale asserzione, oltre che dai superstiti di quella infelice e gloriosa giornata, fu specialmente smentita dal fatto che più volte durante il combattimento il tenente aiutante maggiore Bodrero fu mandato da Toselli ansioso e speranzoso ad osservare se arrivavano quei rinforzi la cui promessa non revocata lo aveva confortato alla resistenza. E se non bastasse ciò, la condotta dell’eroico Toselli sarebbe anche giustificata dal plebiscito d’affetto e di venerazione che il suo nome e la sua memoria hanno lasciato tanto nella Colonia quanto nella nostra Italia. Qui la notizia della sconfitta cagionò una dolorosissima sorpresa. Era tanto tempo che si parlava di Scioani alla frontiera e che non succedeva mai nulla, che l’Italia si era abituata a ritenere tale notizia un passatempo giornaliero senza conseguenze. D’altra parte tanto il Governo quanto il Paese nutrivano una tale fiducia in Baratieri, allora l’uomo più popolare d’Italia, che non avrebbero neppur sognato l’imminenza di una catastrofe. Ma appena questa venne annunciata, fu uno scoppio unanime di dolore cui fecero eco le parole di ammirazione per le eroiche vittime. Sorsero poi le censure e le critiche che furono vivissime tanto contro il Governo quanto contro Baratieri. Malgrado però il dolore e le critiche che accendevano gli animi, l’Italia sentì degnamente la sventura e vi prevalsero i propositi virili. Non solo fu conservata la fiducia al Governo, ma questi la conservò a sua volta in Baratieri. Nella tornata del 19 dicembre, essendosi il Crispi rimesso da un’indisposizione che lo aveva tenuto obbligato al letto, potè presentare alla Camera un disegno di legge con cui chiedeva un credito di 20 milioni per riconquistare le posizioni perdute e ripiantarvi la bandiera italiana, dichiarando nella relazione annessa che gli ultimi telegrammi del Governatore affermavano per ciò sufficiente la forza di 6000 uomini. Il credito passò a grande maggioranza e tanto più facilmente perchè fu ritenuto un ben lieve sacrificio per una impresa di tale importanza. Si vede dalla predetta affermazione come il generale Baratieri, malgrado la terribile lezione ricevuta, non si fosse ancora formato un concetto della guerra in cui si era impegnata la Colonia. Già fin dal primo dispaccio con cui il 9 dicembre annunciava al Governo la battaglia del 7, conchiudeva nebulosamente esprimendosi: «parrebbemi utile preparare invio di rinforzi:» Ed avendolo invece il Governo invitato a fare delle proposte concrete dimostrandosi pronto a secondarle, risponde con successivo dispaccio: «non posso deterniinare quante e quali forze occorrono, non conoscendo intenzione invasore cui forze possono arrivare anche a 40,000 fucili con bande. Frattanto cominci invio qualche battaglione, paio batterie da montagne e munizioni fanteria, artiglieria» Questi due telegrammi di Baratieri dimostrano come l’invasione scioana lo abbia sorpreso, scombussolato e trovato impreparato a qualsiasi piano di difesa. Sebbene però le sue sconclusionate proposte più che rischiarare mettessero in imbarazzo il Governo, tuttavia questi fu sollecito a spedire in Africa 14 battaglioni, 5 batterie con molti quadrupedi materiali e munizioni, che poterono imbarcarsi prima della fine di dicembre ed arrivare nella prima decade di gennaio a Massaua, donde per cura del generale Arimondi prima, e del generale Lamberti poi, furono diretti all’altipiano. Ma frattanto l’invasione scioana fatta miminacciosa e baldanzosa dopo il trionfo di Amba-Alagi si riversava contro il forte di Makallè ove il battaglione Galliano si apprestava ad una disperata difesa. Makallè è la capitale dell’Enderta, provincia orientale del Tigrè ed una delle più belle, ricche e popolose dell’Etiopia. Giace a 2470 m. sul livello del mare in una conca pittoresca cosparsa di borgate e villaggi d’aspetto quasi civile, colle case quasi tutte in muratura e circondata di verdi praterie, di pascoli e di campi di una vegetazione prodigiosa. Quivi aveva scelto in ultimo la sua residenza il negus Giovanni padre di Mangascià, e per lui Giacomo Naretti l’intelligente ed ottimo italiano che fu ricompensato più tardi della sua affezione per il Negus collo sfratto, aveva disegnato e costruito un castello che è uno dei migliori edifici dell’Abissinia. A circa 1 Km. a sud di Makallè ove la conca si restringe per riaprirsi di nuovo nello sbocco della via principale di Scelicot sorge un’altura detta di Enda Iesus sul cui pendio sta pure il villaggio dello stesso nome. Su quell’altura, ed intorno ad una vecchia ridotta già esistente il maggiore Toselli aveva costrutto il cosidetto forte di Enda Iesus, composto della ridotta suddetta con 300 m. di circuito e di una cinta esterna 10 m. più bassa, dello sviluppo di circa 700 m. che permettevano così due ordini di fuochi. Sovra un’altura a nord est del forte di Enda Iesus e ad una distanza di circa 800 m. era stato costruito un altro piccolo ridotto per guardare il fianco della posizione. Se non che queste due opere di fortificazione, oltre ad essere ancora incompiute, non avevano neppure tutti i requisiti necessari per essere atte ad una lunga difesa, mancando in esse uno degli alimenti più importanti cioè l’acqua, la quale doveva attingersi a due sorgenti esterne scaturenti fra i burroni ad est e a sud del forte, non battute da’ suoi fuochi perchè protette dall’angolo morto di tiro e di facile e coperto accesso pei nemici tra le ondulazioni e insenature circostanti. Galliano s’apparecchiò a ricevere il nemico animato dai propositi della più fiera resistenza e cominciò subito a sistemare le difese accessorie ancora incompiute collocando mine, piantando reticolati e palafitte all’intorno, costruendo banchine per l’artiglieria e sgombrando all’intorno il campo di tiro colla distruzione di baracche, piante ed altre vegetazioni, scavando cisterne, erigendo forni e cucine, e raccogliendo nel forte la maggior quantità possibile di vettovaglie. Il personale da lui dipendente lo assecondava con mirabile slancio, e col più elevato sentimento militare, cooperando tutti a preparare una difesa che ebbe poi del leggendario. Già fin dall’8 dicembre cominciarono a scorazzare intorno al forte degli stormi di cavalleria galla che guastarono le comunicazioni telegrafiche, e tutti i giorni successivi i nostri avamposti segnalarono degli stormi di nemici sfilanti in lontananza. Erano le prime pattuglie dell’esercito scioano che s’avanzava lentamente verso Scelicot. Frattanto Maconnen, seguendo l’uso abissinio, forse per tener a bada Baratieri fino all’arrivo dei rinforzi del Negus, e forse anche perchè, impressionato dalle gravi perdite subite ad Amba Alagi, nutriva dei seri timori per l’esito della campagna, il 12 dicembre aveva scritto una lettera al Governatore facendo proposte di pace e chiedendo nuovamente un messo di fiducia per trattarla. Il tenore di questa proposta era però sempre lo stesso: sgombro del Tigrè, abolizione del protettorato italiano sull’Etiopia e concessioni sibilline provvisorie di territori anche a sud del Mareb-Belesa-Muna. Se non che il Governo in quel momento e dopo la recente sconfitta delle armi italiane aveva tutt’altra volontà che di venire agli accordi; anzi si disponeva a chiedere i mezzi al Parlamento per continuare la guerra e respingere il nemico al di là dell’Amba fatale, che voleva inclusa ne’ suoi confini. Così le pratiche iniziate da Maconnen si risolsero in uno scambio di messi, lettere e cortesie tra lui e Galliano, tirate in lungo da una parte e dall’altra perchè il temporeggiare riusciva proficuo ad entrambi, ma che alla fine non approdarono a nulla. Intermediario in queste trattative tra il campo italiano e quello scioano fu il tenente Umberto Partini, il quale si recò più volte presso Maconnen, vi fu accolto bene, potè visitare il tenente Scala prigioniero, pranzare con lui, e dormire nella sua tenda. In seguito a concessione di Galliano, vi andò poi anche il dottor Mozzetti per curarvi ras Mangascià Atichim caduto da cavallo. Le inutili trattative e cortesie tra i due campi terminarono come ad Amba Alagi colle intimazioni violente del Ras, che chiedeva imperiosamente un ulteriore invio di Partini al campo; e con una fiera e dignitosa risposta di Galliano che vi si rifiutò. Quindi si ricorse alle armi. Verso le ore 10 del 7 gennaio, un mese preciso dopo la battaglia di Amba Alagi, una fiumana immensa di gente venne a riversarsi nella pianura a sud del forte, e poco dopo si vide sorgere un vastissimo accampamento al cui centro una grande tenda rossa annunziava finalmente avverata la venuta del Negus. Circa mezz’ora dopo cominciarono a slanciarsi verso il villaggio di Enda Jesus a sud del forte, numerosi gruppi di nemici, attaccandovi violentemente la nostra gran guardia; e poco appresso altre masse nemiche, salite sulle alture ad est, mossero ad attaccare la ridotta staccata, ove stavano due buluch di indigeni comandati da un jus basci. Dopo un vivacissimo combattimento, la gran guardia fu costretta a ritirarsi, e i nostri indigeni dovettero abbandonare la ridotta facendola però prima saltare con una mina, unitamente a molti scioani già penetrativi. Più tardi la stessa gran guardia e gli stessi indigeni protetti efficacemente dalle artiglierie del forte riuscirono a riconquistare il villaggio e la ridotta, ma l’uno e l’altra malgrado gli sforzi disperati dei nostri, tornarono ancora in potere degli scioani. Verso le ore 16 circa si pronunciò completo l’aggiramento sul fianco sinistro, dove essendo perduta la ridotta, il nemico numerosissimo mosse ad occupare tutte le alture sud-est, est, e nord-est, cominciando un vivissimo fuoco di fucileria ed avvicinandosi audacemente fino all’angolo morto dell’acqua, mentre la sua artiglieria ben piazzata a circa 1500 m. dal forte produceva in esso dei danni e delle perdite. Di fronte ad un attacco così poderoso ed audace, in cui per la prima volta gli Abissini disponevano egregiamente di artiglierie e di armi moderne perfezionate, i pochi difensori di Enda Jesus opposero una mirabile resistenza; le deboli cinte del forte divennero inespugnabili, per l’invitto eroismo dei nostri ufficiali e soldati, che con brevi aggiustate scariche di fucileria e di artiglieria, sgominavano il campo nemico, seminandolo di cadaveri. Il combattimento violentissimo ed accanito durò fino all’imbrunire, ed alla sera il nemico fu costretto a ritirarsi. Così terminava la giornata del 7 gennaio. Il giorno 8 fu più triste ma non meno glorioso per le nostre armi. Dalle alture sud-est, est, e nord-est rincomincia di buon mattino l’assalto degli Scioani, che hanno costruito trincee e piazzate con riparo le loro numerose artiglierie; viene riattaccato anche il fronte sud del forte con artiglierie a tiro rapido che ne tempestano di proiettili l’interno devastando le opere, infliggendo perdite, e minacciando di far saltare la polveriera, che vien tosto sgombrata. I difensori resistono strenuamente trattenendo per tutta la giornata con tiri micidiali il nemico attaccante; ma la nostra artiglieria è inefficace contro la migliore e più numerosa degli scioani, e le condizioni del terreno permettono che le due sorgenti dell’acqua sieno occupate da grosse frotte nemiche che, coperte dagli angoli morti di tiro, non si possono più respingere. Da questo momento, malgrado gli eroici sforzi dei difensori si può dire che la sorte del forte è decisa; la poca riserva dell’acqua raccolta nella cisterna può garantire per pochi giorni la vita, perciò viene distribuita con una parsimonia rigorosissima; ma tutto questo non scema la fiducia di Galliano e de’ suoi prodi, nè affievolisce la loro resistenza. Altro attacco poderoso viene fatto contro il forte il giorno 9; ed altri 5 attacchi notturni avvengono nella notte dal 9 al 10; ed il nemico è sempre respinto con gravissime perdite. La giornata del 10 passò in relativa calma e Galliano ne approfittò per tentare la riconquista dell’acqua, ma il tentativo diretto dal tenente Raimondo, andò fallito e vi si dovette rinunziare definitivamente. Nella notte dal 10 all’11 Menelik fece avvicinare di nascosto molti gruppi di nemici al forte affinchè tentassero di prenderlo per sorpresa. Galliano li lasciò avvicinare facendo le viste di non accorgersene; poi quando il mattino dell’11 con un’assalto vigorosissimo sostenuto dalla loro artiglieria, essi si lanciarono alla scalata del forte, l’imperterrito maggiore li fece accogliere dai difensori con tali scariche di fucileria che furono costretti dopo ripetuti attacchi a ritirarsi, lasciando il terreno coperto di cadaveri. Ma anche dalla parte degli assediati questa giornata fu terribile pei guasti del forte e per le perdite subite. Dopo questa giornata che per gli Abissini fu un vero disastro, Menelik rinunciò ad altri attacchi aspettando che il presidio si arrendesse per sete. Ed invero le sue condizioni s’erano fatte assai gravi. Benchè fin dal principio fossero stati cacciati dal forte, quasi tutti i quadrupedi per risparmio d’acqua, questa cominciava a mancare, e tutti i tentativi fatti nell’interno per trovarne erano andati falliti; le artiglierie avevano subito gravi danni, le opere di difesa erano deteriorate; tra morti e feriti erano diminuiti di un centinaio i difensori; all’infermeria giacevano altri 130 feriti reduci da Amba Alagi; cominciavano a scarseggiare le vettovaglie e le munizioni, ed il nemico ingrossava sempre più per l’arrivo del Re del Goggiam e di altri capi abissini, che facevano elevare l’esercito scioano a più di 100,000 uomini. In queste tristissime condizioni del presidio di Makallè, Baratieri avrebbe voluto accorrere a liberarlo come era nei voti e nei desideri delle truppe e del Governo, come anelava l’opinione pubblica estremamente commossa dalla sorti di quel battaglione e del suo capo, divenuto l’eroe più popolare della guerra d’Africa; ma non ebbe forza sufficiente per tentare una tale operazione. Tuttavia, per trovarsi a portata di un colpo di mano e pronto a sostenere un tentativo d’uscita di Galliano dal forte, l’11 gennaio, subito dopo l’arrivo in Adigrat dei primi battaglioni spediti dall’Italia, dispose perchè gli indigeni, affidati al comando del colonnello Albertone, e forti di circa 8000 fucili, avanzassero fino ad Adagamus ad una tappa da Adigrat, spingendo le bande fino a Mai Meghelta a 15 km. più a sud. Malgrado però tale spostamento in avanti che fu ritenuto con gioia il primo passo alla liberazione di Makallè, Baratieri fu costretto a rinunziare all’impresa e a confessare la sua impotenza; la quale non poteva rimediarsi neppure coi nuovi rinforzi giunti dall’Italia, in seguito ai quali il 16 gennaio Baratieri aveva intorno a se 6000 bianchi e 10300 indigeni, ed il 19 circa 8000 bianchi e 10878 indigeni con 34 cannoni. A levare tale spina dal cuore dell’Italia occorreva in quest’occasione l’opera preziosa del cav. Felter, già sfrattato da Maconnen dall’Harrar e da lui richiesto nelle sue proposte di pace fatte prima di arrivare ad Amba Alagi. Felter approfittando di tale richiesta si recò al campo scioano e gli fu facile di indurre il Ras ed il Negus che erano impressionatissimi della resistenza del forte e preferivano impadronirsene senza nuovi spargimenti di sangue, a consentire l’uscita libera del presidio coll’onore delle armi e con facoltà di ritirarsi coi materiali, colle donne e coi feriti presso il campo italiano in Adagamus. I patti che accompagnarono tale liberazione non poterono essere per quel presidio più onorevoli, e sono tutte fandonie le voci corse di riscatto a denaro, come pure quelle di impegni presi sulla parola d’onore da Galliano di non combattere più col suo battaglione durante la campagna. L’affermazione autorevolissima di un ufficiale superstite di quel leggendario battaglione, il tenente Raimondo che ebbe parte importante così nella strenua difesa, come negli incombenti dell’evacuazione del forte, constata che l’unica somma spesa dall’Italia in tale occasione fu di circa 9000 talleri per l’acquisto di 250 quadrupedi e pel noleggio di altrettanti occorrenti allo sgombro dei materiali e dei feriti, dopo che i muli del forte erano stati cacciati per la penuria d’acqua. L’onore immacolato di Galliano esclude l’altro impegno. Sembra piuttosto che tra i patti della predetta liberazione vi fosse l’impegno reciproco di riaprire delle trattative di pace, e queste poi vennero, ma su tali basi, che come si vedrà, doveva essere impossibile ogni accordo. In seguito agli accordi convenuti il 21 gennaio 1896 la bandiera italiana così strenuamente difesa veniva ammainata dal forte, ed alle ore 16 del giorno successivo, cominciava l’uscita delle truppe, del materiale e dei feriti. In coda all’eroico battaglione seguì, ultimo uscito, il tenente colonnello (promosso tale durante l’assedio per merito di guerra) Giuseppe Galliano salutato dagli scioani cogli onori militari, ed oggetto dell’universale ammirazione. Alla sera stessa il liberato presidio di Makallè si attendava nel campo di ras Maconnen, al quale era stato affidato l’incarico di regolare ed assicurare il suo viaggio per Adigrat. L’assedio e la difesa di Makallè costarono alla nostra truppa 30 morti e 70 feriti indigeni fra cui nessun ufficiale; al nemico secondo i calcoli più modesti non meno di 2000 uomini tra morti e feriti. * * * Note CAPITOLO XVII. Conseguenze dell’abbandono di Makallè — La posizione di Adagamus — Vicende del battaglione Galliano — Il Negus se ne serve per mascherare e coprire una marcia strategica su Ausen e quindi lo libera trattenendo alcuni ostaggi — Inerzia di Baratieri — Il Negus verso Gandapta — Baratieri è costretto ad abbandonare Adagamus ed a fronteggiare verso Adua — Spostamenti strategici — Il Negus nella conca di Gandapta e Baratieri nell’Entisciò e a Saurià — Difficoltà logistiche italiane — Defezione di ras Sebath e Agos Tafari — Fatti di Seetà e Alequà — Le retrovie minacciate — Vicende dell’Intendenza — La nuova linea di rifornimento per Mai Maret-Debra-Damo — Stevani, Valli e Oddone mandati contro i ribelli — Assotigliamento e difficoltà del corpo d’operazione italiano — Predisposizioni di ritirata del 23 febbraio — Ras Gabeiù al Mareb — Critiche condizioni di Baratieri — Rinunzia alla ritirata e fa una dimostrazione offensiva verso Adua — Gli abissini intorno ad Adua — Stevani e Valli rientrano a Saurià — Il reggimento di Boccard a Mai Maret — Grandi rinforzi in viaggio — Il Generale Baldissera. L’abbandono del forte di Makallè, quantunque avvenuto in quel modo e dopo una tale resistenza, lasciasse più che mai viva ed intatta la gloria di quel nucleo di prodi che lo avevano difeso e dell’eroico loro comandante, costituiva tuttavia un secondo insucesso militare dopo quello di Amba-Alagi e politicamente veniva a distruggere fin le ultime speranze sul mantenimento del Tigrè. In Italia però la notizia fu accolta con giubilo, perchè le sorti di quel battaglione avevano commosso in alto grado l’opinione pubblica, e perchè si sperò che Baratieri reso ormai libero da ogni preoccupazione, potesse attendere con maggior fortuna alle sorti della campagna. Ma pur troppo tali speranze erano vane. Baratieri doveva rimanere inchiodato alla sua posizione difensiva, paralizzato ed inerte; e Menelik si preparava a fargli un brutto giuoco. Le nostre truppe forti di circa 20,000 uomini tra bianchi e indigeni e con circa 40 cannoni, accampavano quasi tutte intorno alla formidabile posizione di Adagamus ed avevano spinti avamposti all’intorno fin oltre a Mai Meghelta. La posizione di Adagamus sbarra e domina come un’immensa muraglia trasversale la strada proveniente da Makallè, ed appoggiandosi a destra all’inaccessibile Amba Guructo ed a sinistra agli impraticabili dirupi che scendono alla costa, riesce inespusgnabile. Ma era difficile che gli Abissini venissero a dar di cozzo contro tale baluardo. Essi che erano bene informati delle mosse e delle posizioni dei nostri, mentre tenevano a bada Baratieri verso sud, colla promessa dell’arrivo del battaglione Galliano, violando i patti giurati a Makallè, differirono la sua liberazione, e se ne servirono per mascherare e coprire un loro movimento strategico, pericolosissimo. Il 24 gennaio il Negus fece avanzare la sua avanguardia con in mezzo il battaglione Galliano in direzione di Adagamus e fin presso a Dongolò; ma intanto che ciò serviva di finta e tratteneva a bada il duce italiano nel davanti, fece deviare il grosso dell’esercito dirigendolo a nord ovest verso Ausen per le valli del Mai Dongolò e del Selek, obbligando poi l’avanguardia ed il predetto battaglione a retrocedere ed a secondare il movimento del grosso, coprendone il fianco destro contro la posizione di Adagamus, che veniva così tagliata fuori ed aggirata. La sfilata dell’esercito scioano su Ausen eseguita con tanta astuzia, e con tanta malafede verso i reduci di Makallè, fu un movimento strategico riuscito. E sebbene esso fosse pericoloso, perchè effettuato traversando regioni dominate dai contrafforti meridionali di Adagamus, di Amba Guructo e di Amba Sion ed a soli 35 Km. dal nostro corpo d’operazione, Baratieri non seppe o non potè approfittarne. Il suo contegno in questa circostanza gli fruttò le critiche di molti; e si suppose perfino da taluni che egli si sia astenuto da qualsiasi mossa offensiva, per patto giurato inerente alla liberazione del battaglione Galliano, o per riguardi alla sua incolumità. Escluse queste supposizioni che sono inattendibili per la conoscenza ormai completa dei patti predetti, e per l’imperiosa e suprema necessità di non compromettere le sorti di un intero esercito per riguardo ad un solo battaglione, resta il fatto che molto probabilmente, se Baratieri, scendendo in tempo per la valle del Selek, avesse attaccato il fianco del nemico durante la sua marcia diffìcile e disordinata e ingombra di donne di salmerie e di bagagli, per la bassa ed incassata strada verso Ausen, avrebbe potuto ottenerne un certo successo. Baratieri si scusa della sua inerzia adducendo le difficoltà del terreno, dei mezzi logistici e l’impreparazione della brigata Da Bormida, di fresco costituita; ma queste scuse non hanno sradicato l’opinione generale che in tale circostanza egli abbia commesso un grave errore. Menelik, giunto ad Ausen, il 30 gennaio liberò il battaglione Galliano che fece accompagnare al campo italiano da numerosa scorta; in tale occasione richiese pure l’apertura delle trattative di pace, e forse per imporle trattenne in ostaggio 9 ufficiali ed un sergente del battaglione liberato. Intanto però che con questa nuova astuzia teneva ancor fermo Baratieri ad aspettare in Adagamus i prigionieri, il Negus eseguì un’altro abilissimo spostamento verso la conca di Gandapta, tra Adua e Adigrat, ove arrivava ai primi di febbraio e donde poteva minacciare l’invasione tanto del Seraè quanto dell’Okulè-Kusai a tergo del corpo d’operazione italiano. Compiuto questo movimento che costituiva una vittoria strategica abissina, Menelik liberò gli ostaggi italiani, che una parte dei Ras, irritati pel ritardo del chiesto messo di pace italiano, volevano fucilati, e che, a quanto dicesi, furono cavallerescamente difesi da ras Alula; e rinnovò le proposte di pace alle quali però l’Italia non si sapeva piegare, preferendo correre le sorti della guerra. Per rimediare al riuscito aggiramento scioano Baratieri, che in Adagamus trovavasi ormai in posizione non solo inutile, ma anche pericolosa, avendo il nemico sul fianco destro e minacciante alle spalle, dovette pensare a spostare il suo corpo d’operazione facendolo ripiegare alquanto e quindi disponendolo, con un grande cambiamento di fronte da sud a ovest, in direzione di Adua. Questo spostamento fu cominciato il giorno 1.° febbraio, appena avuto certezza per mezzo dei prigionieri liberati, del movimento scioano, e durò fino al giorno 3, in cui il corpo di operazione italiano accampò nella posizione di Mai Gabetà a circa 25 Km. ad ovest di Adigrat, colla sinistra appoggiata al gran monte Augher e colla destra ai burroni che precipitano al Belesa. Malgrado lo sconvolgimento generale prodotto da un tale cambiamento di fronte, il movimento, tenuto conto delle gravi difficoltà del terreno, dei trasporti e dei mezzi di vettovagliamento, riuscì abbastanza ordinato ed efficace; e probabilmente riuscì a paralizzare le intenzioni del Negus che dalla conca di Gandapta si affacciava col suo esercito verso le posizioni di Saurià minacciando le vie del Belesa. Le truppe ordinate in tre brigate agli ordini dei generali Albertone (indigeni), Arimondi (1.a Brigata) e Da Bormida (2.a) con due reggimenti ed altri reparti in riserva, occuparono una posizione difensiva eccellente, e le bande schierate sui fianchi ed in avanti si erano spinte fino all’Entisciò. Per mantenere il contatto col nemico che faceva spesse apparizioni e spostamenti in avanti ed in varie direzioni, Baratieri il 7 febbraio fece fare al corpo d’operazione un altro sbalzo in avanti, recandosi ad occupare le posizioni di Tucuz nell’Entisciò e spingendo le bande fino a Zalà, donde si erano già ritirate le ricognizioni nemiche. Un altro spostamento più avanti e per gli stessi motivi fu fatto il giorno 13, in cui le truppe italiane andarono ad occupare le storiche alture di Saurià, abbandonate dalle orde scioane. Il cambiamento di fronte eseguito da Baratieri fu imposto dalla necessità impellente di coprire Adigrat sede avanzata di tutti i rifornimenti, di salvare le retrovie e di fronteggiare il nemico nelle sue nuove posizioni; però molti competenti ritengono che, date le condizioni del corpo d’operazione e le difficoltà sempre crescenti tra cui si dibatteva per la deficienza di trasporti e di tutti i mezzi logistici, i successivi sbalzi in avanti fino a Saurià siano stati un errore, e che, sarebbe invece stato più opportuno, militarmente parlando, di proteggere lo sgombro e l’abbandono di Adigrat, e quindi ripiegare con tutto il corpo d’operazione verso una posizione più arretrata e centrale, cioè verso Gura, donde con maggior numero di truppe e con minori difficoltà di vettovagliamento, appoggiandosi ai forti dell’Okulè-Kusai e del Seraè ed alla dorsale dell’altipiano, si avrebbe potuto fare un’efficace difesa. Ma questo ripiegamento che il Baratieri stesso dopo la catastrofe ammise come il più conveniente, e che Menelik temeva perchè gli avrebbe fatto perdere chi sa quant’altro tempo senza concludere nulla e con molta probabilità di essere sconfitto se attaccava, fu sconsigliato dalle ragioni politiche. L’abbandonare anche l’Agamè nelle mani del nemico, ed il ritirarsi senza combattere entro i vecchi confini della Colonia, dopo aver subito due sconfitte, sembrò troppo ostico ad eseguirsi. Si temè che tale ripiegamento potesse influire sinistramente nell’animo delle truppe e sfiduciarle, si pensò all’effetto che avrebbe prodotto in Italia e tra le popolazioni indigene e si fini per sacrificare all’opportunità politica quella militare. Nel mentre i due eserciti avversari si schermivano con queste mosse strategiche, eccitandosi a vicenda ad un attacco che desideravano entrambi ma che nessuno osava imprendere pel primo, per strano contrasto di intendimenti e di eventi, e senza che forse la minima sincerità regnasse fra le due parti, erano state riaperte le trattative di pace. Si dice che gli Abissini fanno la guerra coll’ulivo della pace in mano; e tale detto non potrebbe essere meglio comprovato che in tutto lo svolgersi della campagna italo-scioana. Dopo la partenza dallo Scioa per fare la pace, furono mandate da Ascianghi le lettere per la pace; di pace si parlò con Toselli; la pace fu proposta a Galliano, e le proposte di pace accompagnarono qualsiasi movimento abissino. I frutti delle prime proposte si videro ad Amba Alagi ed a Makallè; quelli di quest’ultime pratiche si vedranno a Adua. Dopo le proposte fatte pervenire con Felter, coi prigionieri e cogli ostaggi, ne giunse un’altra ancora per mezzo di un messo di Makonnen al campo di Mai Gabetà il 6 febbraio, chiedendo un convegno con Baratieri. Ma il Governo fin dal 28 gennaio aveva telegrafato a Baratieri che l’Italia prima di aver ottenuta una vittoria non poteva trattar seriamente la pace, ed in questa sua opinione era pure il Governatore e bisogna pur dire anche la gran maggioranza della Nazione. Perciò Baratieri non credette opportuno di aderire al convegno personale richiestogli, e si limitò a delegarvi il maggiore Salsa sottocapo di stato maggiore. Le condizioni proposte dal Negus contenevano sempre l’abolizione del protettorato ed il ritorno ai confini già segnati col trattato di Uccialli. Le controproposte invece, che in seguito ad istruzione del Governo, Salsa presentò al Negus furono pel mantenimento del protettorato e per la cessione all’Italia di tutti i territori ove aveva sventolato la sua bandiera. Era impossibile intendersi; e perciò il 13 febbraio le trattative s’interruppero nuovamente. Fallita ormai ogni speranza di accomodamento con Menelik, e svanita anche quella della defezione o ribellione di Maconnen e degli altri capi abissini i quali invece si stringevano ognor più intorno all’Imperatore, paralizzato il movimento dancalo, riuscita completamente inutile l’intromissione e l’opera di un giovane cugino di Menelik e figlio di ras Darghiè, certo principe Gubsa che dalla Svizzera per mezzo dell’ing. Ilg fu fatto accompagnare al campo di Adigrat a disposizione del Governatore, non rimase più all’Italia che di dare un grande impulso alla guerra; la quale verso la metà di febbraio assumeva delle proporzioni gigantesche. Oltre ai grandi rinforzi già arruolati nell’Eritrea e spediti dall’Italia, in seguito ai quali erano già raccolte intorno a Saurià quattro brigate che il 13 febbraio sommavano a 10620 bianchi e 10083 indigeni con 50 pezzi e 535 ufficiali, e nel complesso della colonia circa 30000 uomini, il Governo preparava la spedizione di altre due complete divisioni di truppe bianche, che avrebbero portato la forza coloniale a circa 50000 uomini, 80 cannoni e più di 10000 quadrupedi. Per facilitare la riuscita delle operazioni guerresche nel Tigrè e più specialmente per ottenere un forte contraccolpo nell’animo di Maconnen, preoccupatissimo del suo dominio d’Harrar, il Governo ed il Governatore avevano fin dal dicembre progettato una diversione militare in tale regione servendosi del porto di Zeila; ma sebbene sulle prime l’Inghilterra non si fosse dimostrata contraria a consentire il passaggio per quel porto, in seguito a successive rimostranze della Francia, cui la legavano dei patti di reciproca non ingerenza negli affari dell’Harrar, finì per essere costretta a rifiutare tale permesso; per cui la diversione da Zeila fu abbandonata. Fu in seguito studiata l’opportunità di ritentarla da Obbia e da Assab; anzi a questa località venne già indirizzato sulla fine di gennaio dall’Italia il colonnello Pittaluga con un battaglione, una batteria ed alcuni reparti minori; ma in causa delle estreme difficoltà che presentava, l’impresa fu sospesa e abbandonata. Perciò tutti gli sforzi dell’Italia furono diretti contro il Tigrè, ove le condizioni della guerra si erano fatte assai gravi per l’Italia. Salsa, nel recarsi al campo nemico, aveva osservato che esso era forte di oltre 80000 buoni fucili e di molta artiglieria, che non era tanto scarso di viveri come si supponeva, e che occupava delle posizioni formidabili dove sarebbe stato una follìa l’attaccarlo col nostro piccolo corpo d’operazioni raccolto intorno a Saurià. A render maggiormente gravi le predette condizioni, venne ad aggiungersi l’improvvisa defezione dal nostro campo di ras Sebath e Agos Tafari, i quali con circa 600 fucili nella notte dal 12 al 13 febbraio passarono al nemico, dandosi poscia a molestare le retrovie; nonchè la ormai accertata notizia che, in seguito ad una mostruosa alleanza tra gli Abissini ed i Dervisci sempre stati nemici fra loro e divisi dall’odio di razza e di religione, si pronunciava un pericoloso movimento di questi ultimi verso Kassala. In tale gravissime contingenze erano certo di conforto e di fiducia la buona volontà e lo spirito militare delle nostre truppe, ma anch’esse risentivano pur troppo le conseguenze dolorose dell’impreparazione e delle difficoltà generali tra cui si dibatteva il corpo d’operazione. La costituzione quasi improvvisa delle truppe di difesa aveva generato non pochi inconvenienti tanto nell’ordinamento del personale quanto e più specialmente in quello dei servizi logistici e amministrativi. Nella scelta del personale italiano per l’Africa si era seguito in massima il sistema del volontariato tanto negli ufficiali quanto nella truppa, supplendo alle deficenze in questa con destinazioni e sorteggi fatti nei vari corpi. Ma questo sistema che aveva già fatto buona prova nel 1888 perchè avvantaggiato da una eccellente preparazione in tutti i rami di servizio, e dal ritardo e dalle minori difficoltà delle operazioni militari, nel 1896 non diede gli stessi buoni frutti. Le truppe d’Italia, imbarcate a Napoli e raccolte poi a Massaua, vennero in fretta e furia ordinate in battaglioni e reggimenti, ed inquadrate tra ufficiali e graduati in massima nuovi e sconosciuti, che a primo tratto non potevano esercitare sovra di esse tutto quell’ascendente morale che è la prima forza delle unità organiche militari; e ciò nocque in certo modo alla perfetta coesione e compattezza dei reparti. Esse inoltre pativano difetto di uniformità e di adattamento nel vestiario, con sensibile danno dell’ordine e dell’estetica, grandi fattori di disciplina, e della prestanza ed attitudine fisica nelle speciali condizioni di suolo e e di clima in cui dovevano agire. Nelle faticose marcie per salire all’altipiano, sottoposte ancora impreparate e non allenate a gravi fatiche per strade e sentieri difficilissimi in un clima nuovo, sotto un sole cocente, colla calzatura debole, col vestiario pesante e imbarazzante, non sempre confortate di un vitto regolare e di acqua sufficiente, esse non poterono a meno di sentire il disagio e la stanchezza; e facevano pur loro difetto i mezzi di riparazioni e quegli altri servizi di bucato, di barbiere, di cura e di pulizia personale che sono indispensabili per qualunque truppa europea. Avveniva così che individui laceri ed incolti coll’equipaggiamento e vestiario in disordine dessero triste spettacolo di sè, con certo danno della disciplina e della bontà dei reparti agli stessi indigeni, che non a torto, chiamavano le truppe di rinforzo bianche il Chitet d’Italia. Tutti questi inconvenienti ed altri che si omettono per brevità, ma più di tutto le difficoltà sempre crescenti nel vettovagliamento, che costringevano a diminuire le razioni quando crescevano le fatiche e maggiore diventava il bisogno, agirono senza dubbio in modo dissolvente sulla fibra per sè eccellente delle nostre truppe; come debbono aver impressionato sfavorevolmente l’animo dei nostri soldati, anche le notizie degli insuccessi militari già subiti dal corpo coloniale. Aggiungasi poi che la continua tensione per l’attesa di una battaglia aveva finito per stancare gli animi; che il repentino spostamento da Adagamus a Mai Gabetà, a Tucuz e a Saurià e le conseguenti rinnovazioni di trincee, di muri a secco, di zeribe e di altri lavori di fortificazione provvisoria, avevano generato la sfiducia e sollevato il dubbio della inutilità di ogni sforzo e di ogni precauzione, facendo giudicare il tutto alla stregua di una faticosissima manovra di campagna. Nè si può tacere che, per sfortuna d’Italia si erano pronunciate nel corpo d’operazione due correnti contrarie, generate dal dualismo tra i generali Baratieri ed Arimondi, le quali riuscirono tutt’altro che giovevoli alla disciplina ed all’unità di comando cotanto necessarie nelle operazioni di guerra1. Tuttavia malgrado questi coefficenti negativi che accompagnavano la costituzione ed il funzionamento del corpo d’operazione italiano, la gran massa era tutt’altro che cattiva; l’affiatamento tra superiori ed inferiori aumentava ogni giorno più ed accennava a diventare perfetto; le privazioni ed i disagi erano sopportati senza gravi lamenti, l’indole buona del soldato italiano trionfava delle difficoltà d’ogni specie, e lo rendeva fermo, disciplinato, affettuoso, concorde. La preoccupazione più grave era quella del vettovagliamento, che le deficienze dì salmerie e di quadrupedi e l’esaurimento delle risorse locali rendevano giorno per giorno più critico. Fino dal 15 gennaio era stata costituita l’Intendenza che aveva il grosso de’ servizi avanzati ad Adigrat. Furono adottate due linee di rifornimento: una più diretta per Massaua-Arckico-Adi-Caiè-Adigrat; l’altra più comoda per Massaua-Saati-Asmara-Saganeiti-Adi Caiè, dove si allacciava colla prima. Lungo queste due linee di rifornimento erano stabiliti numerosi comandi di tappe. Un altro grande deposito di materiali e di vettovaglie fu impiantato all’Asmara, per la eventuale adozione della linea di rifornimento di Asmara Adi-Ugri, in caso di operazioni militari da quella parte. Fino al 31 gennaio il servizio d’intendenza potè procedere senza inconvenienti; anzi, grazie alle cure ed agli sforzi del comandante, colonnello Ripamonti, e del vice-governatore Lamberti, residente a Massaua, riuscì ad accumulare in Adigrat oltre a dieci giornate di viveri per tutto il corpo d’operazioni. Ma dopo il forzato cambiamento di fronte delle truppe verso Adua, ed i successivi loro spostamenti fino a Saurià, la necessità di indirizzare le vettovaglie per altre vie e di rimandare indietro da Adagamus le carovane già in marcia, per strade difficilissime, con pochi quadrupedi disponibili, con conducenti e personale addetto poco pratici, aveva cagionato un forte ristagno che potè essere superato soltanto dopo alcuni giorni, mediante sforzi sovrumani e col consumo di una gran parte della riserva raccolta in Adigrat. Le condizioni del vettovagliamento stavano appunto per migliorare, quando avvennero le defezioni di ras Sebath e di Agos Tafari che dovevano tanto danneggiarle. Da Adigrat a Saurià la linea di rifornimento toccava il colle di Seetà guardato da pochi uomini del Chitet, e quello di Alequà, poco lungi dal quale a Mai Mergaz era stato impiantato un servizio di tappa comandato dal capitano Moccagatta che disponeva di circa 370 uomini (232 bianchi 138 indigeni). Nella notte del 13 al 14 febbraio i ribelli tigrini si gettarono per sorpresa sul piccolo posto di Seetà riescendo ad impadronirsene. Saputosi questo dal comandante del forte di Adigrat, tenente colonnello Ferrari, vennero mandati alla riconquista del colle due drappelli l’uno di 70 uomini agli ordini del tenente Cisterni, e l’altro di 36 comandati dal tenente De Conciliis; e quindi anche il capitano Moccagatta da Mai Mergaz mandava contro Alequà, minacciato dai ribelli stessi, i tenenti Cimino e Negretti l’uno con 100 indigeni e l’altro con 70 bianchi; e vi s’aggiungeva il tenente Caputo con alcuni soldati di una carovana in ritorno. Nei giorni 15 e 16 questi reparti furono sconfitti ai due colli rimanendo feriti e prigionieri il De Conciliis, e il Cimino, morto il Negretti, e ferito gravemente il Caputo, che moriva pochi giorni dopo; e rimanendovi pure morti, feriti e prigionieri una trentina di soldati e graduati di truppa. Accorso subito dopo ad Alequà anche il capitano Moccagatta con 140 bianchi, cadeva in agguato e veniva sconfitto dopo breve resistenza lasciandovi 97 morti ed una ventina di prigionieri. Impressionato il Governatore per questi gravi avvenimenti che venivano a minacciare la linea di comunicazione con Adigrat, mentre disponeva per la apertura di una nuova linea di rifornimento da Mai Maret per Debra Damo, mandava il VII battaglione indigeni (Valli) e due compagnie agli ordini del capitano Oddone contro i due colli predetti, e l’uno e l’altro, col concorso anche del capitano Moccagatta e de’ suoi superstiti, riuscirono nel giorno 17 a sconfiggere e ricacciare dai due colli i nemici, che si gettarono all’aperta campagna a molestare le retrovie ed a sollevare la ribellione tra le popolazioni. Questi fatti e queste rappresaglie scoppiate a tergo del corpo d’operazioni determinarono un grave peggioramento nelle sue condizioni. Non solo ne derivò un profondo turbamento nel servizio di rifornimento; ma si rendette pure necessario una dispersione di forze per la difesa delle retrovie, togliendole, in attesa dei rinforzi in viaggio dall’Italia, dalle truppe radunate intorno a Saurià. I ribelli cacciati dai due colli sopradetti si diedero ad impedire che potesse formarsi il nuovo deposito avanzato di Mai Maret, ed assaltando una carovana di oltre 600 quadrupedi che col comando dell’Intendenza quivi trasportava da Adigrat le vettovaglie esuberanti al battaglione cacciatori destinatovi, la costringevano a rifare la strada ed a perdere un preziosissimo tempo prima di arrivare per altra via ad Entisciò. Oltre ai ribelli di ras Sebath e d’Agos Tafari che raggiungevano ormai 1500 fucili ed aumentavano sempre, scorazzando l’Agamè, minacciavano alle porte dell’Okule-Kusai i parenti e partigiani dell’ucciso Batah Agos; e verso il Mareb l’uccisore del capitano Bettini ligg Abraha, sollevando il fermento tra le popolazioni. Per rimediare a queste gravi condizioni delle retrovie, mentre fu disposto che un reggimento agli ordini del colonnello Di Boccard avanzasse da Adi Caiè a Mai Maret, si rinforzarono i comandi di tappa minacciati, si destinò un presidio di 300 uomini col capitano Bernardi al passo di Cascassè, il 17° battaglione a Barachit, ed oltre al 7° battaglione già detto che guardava i dintorni di Adigrat, si distaccò pure, togliendolo dalle truppe di Saurià, un reggimento a Mai Maret col colonello Stevani. Quivi alla fine il 20 poteva ridursi anche l’Intendenza. Ma il forzato disvio di questa e l’intercettazione delle comunicazioni stradali e telegrafiche avevano cagionato danni, ritardi e confusioni. Le improbe fatiche cui erano sottoposti i quadrupedi li avevano sfiniti; non pochi soccombettero al lavoro, molti alla malattia, alcuni alla privazione d’alimenti, ed altri divennero preda dei ribelli. Le molestie e le rappresaglie di costoro avevano scosso e demoralizzato i conducenti indigeni e le privazioni ed i disagi che subivano li facevano lamentare reclamare e rifiutarsi al lavoro; mentre parecchi spaventati dalle notizie dei fatti di Alequà e Seetà e temendo delle sorti finali della campagna si davano alla fuga cogli stessi loro quadrupedi carichi di vettovaglie che non tornavano più. In queste tristi contingenze, Baratieri con poco più di 13,000 combattenti, dal 13 al 17 febbraio, era stato quasi a contatto del nemico, lusingandosi sempre di essere attaccato e ripromettendosene una vittoria malgrado l’assotigliamento dei suoi; ma il Negus, cui le lezioni di Amba Alagi e di Makallè incutevano ancora una salutare paura, non solo non secondò le speranze del generale italiano, ma il 17, forse colla speranza di trarre i nostri fuori dalle loro forti posizioni per venire ad una battaglia in campo aperto, od anche per mettersi in posizione migliore onde proseguire nell’invasione verso il Seraè e molto probabilmente anche per predisporsi ad una ritirata che ormai per la deficenza dei viveri e per l’imminenza della stagione delle pioggie si rendeva necessaria ed inevitabile, si ritirò in Adua. Baratieri, deluso di questa mossa che gli faceva temere tanto i pericoli di un’avanzata degli Scioani verso il Mareb quanto la loro ritirata onde sarebbe dileguata ogni speranza di rivincita degli insuccessi già patiti, pressato dalle enormi difficoltà che lo circondavano da tutte le parti, il 23 febbraio predispose il corpo d’operazioni ad una ritirata verso Adi-Caiè ove si era già spostata l’Intendenza. Strategicamente parlando, e sebbene raccogliendo tutte le vettovaglie di riserva avanzate e quelle esistenti presso le truppe, e riducendo alquanto le razioni degli uomini e dei quadrupedi, senza tener conto dei rifornimenti che in parte poteva dare ancora l’intendenza e le eventuali requisizioni, si potesse ancora fare assegnamento su circa dieci giornate di vitto assicurato, indubbiamente il ripiegamento suddetto era ancora opportuno; tanto più perchè essendo il nemico accampato a circa 30 Km. non avrebbe potuto molestarlo con un efficace inseguimento. Ma l’idea della ritirata, la persuasione di questa imperiosa necessità del momento non poteva farsi strada in Baratieri; troppa avversione destava in lui; contrastava troppo collo spirito militare della truppa colle aspirazioni belligere dei Capi, colle speranze del Governo, coi desideri della Nazione; e l’ordine fu contromandato. Che faceva intanto Menelik? Anch’egli, scoraggiato e deluso, ridotto nella conca di Adua, per mezzo di razzìe nel fecondo Scirè provvedeva alla meglio alla crescente penuria di viveri e si raccomandava a tutti i santi, a’ suoi preti ed all’Abuna perchè prima di doversi ritirar dal Tigrè, gli attirassero fra i piedi quel Baratieri (detto Barri dagli Abissini) che non si voleva muovere; e incerto anch’egli sul da farsi perchè la lunga aspettativa lo aveva sconcertato, ed il pensiero dell’imminente necessaria ritirata, senza una grande vittoria, lo umiliava davanti a Mangascià ed agli altri capi, il 23 febbraio per mezzo del suo valoroso ras Gabejù detto il leone di Amba Alagi, mandò 12000 uomini a puntare verso il Mareb e il Seraè. Quivi i piccoli posti italiani distaccati da Adiqualà ripiegano, il forte di Adi Ugri s’apparecchia alla resistenza ed i coloni di Godofelassi spaventati rifugiansi all’Asmara. Ma la mossa di ras Gabejù era una finta. Il 24 Baratieri rifattosi audace, mentre spedisce ai confini del Seraè il V battaglione indigeni e le bande locali, egli con 14 battaglioni e 6 batterie eseguisce una dimostrazione offensiva versa Adua, e ras Gabejù, come se non avesse avuto a tergo chi lo potesse difendere dall’esser tagliato fuori, dopo aver gettato il panico nel Seraè, si ritirò ancora su Adua. Baratieri lo ritenne un successo; e poichè frattanto il colonnello Stevani il 25 batteva bene a Mai-Maret un grosso corpo di ribelli di ras Sebath, uccidendogliene parecchi, e poichè in seguito all’arrivo del reggimento Di Boccard all’indomani in questa località, tanto i battaglioni di Stevani, quanto quello di Valli ed altri reparti poterono rientrare a Saurià, riportando il corpo d’operazione a circa 20.000 uomini, con 50 cannoni, non si parlò più di ritirata. Frattanto in Italia le vicende della guerra destavano le più grandi preoccupazioni. Le defezioni delle bande e i fatti di Seetà ed Alequà sollevarono malumori e critiche spietate. Il Governo impressionatissimo, mentre sollecitava l’invio delle due divisioni complete in formazione, avendo ormai perduta la fiducia in Baratieri che tanto nella Colonia, quanto nel paese era qualificato incapace, ed accasciato moralmente e fisicamente, colla massima segretezza, per non influire sulle mosse di lui, con regio decreto 22 febbraio 1895, nominava a comandante supremo delle truppe coloniali il generale Baldissera, che partiva tosto per Massaua nel più stretto incognito. * * * ↑ Fa pena il leggere certe frasi come quelle che il capitano Menarini nella sua splendida narrazione: La Brigata Da Bormida alla battaglia d’Adua, riporta come pronunciate dal generale Arimondi intorno alla condotta della guerra: «Questo è l’onanismo dell’arte militare»; e non pena minore fanno certe tirate contenute nel memoriale del capitano Bassi. Note CAPITOLO XVIII. (1896) Forze e condizioni dei due eserciti avversari alla vigilia della battaglia — Necessità per entrambi di una imminente ritirata — Astuzie di Menelik — Baratieri delibera l’attacco — Precedenti e disposizioni. Le forze italiane che sulla fine di febbraio si trovavano di fronte agli Abissini a Saurià, erano le seguenti: Brigata Arimondi (1a) 2900 uomini » Da Bormida (2a) 3500 » » Ellena (3a) 3350 » Indigeni e Bande 8300 » Batterie da montagna 1200 » 32 cannoni » a tiro rapido 320 » 12 » » indigeni 400 » 8 » Quartiere generale e servizi 150 » — » Totale 20120 uomini 52 cannoni. Un’altra batteria era già in viaggio da Mai Maret a Saurià. Guardavano le retrovie avanzate da Senafè a Saurià le forze seguenti: A Mai Maret un reggimento (Di Boccard) 1250 italiani A Barakit il 17.° battaglione bianco 450 » Al passo di Cascassè (col capit. Bernardi) 260 » A Adigrat (col maggior Prestinari) 2216 misti, (cioè: 56 Ufficiali, 1550 uomini bianchi e 670 indigeni.) Nel restante della Colonia e compresi gli uomini addetti ai servizi varii e le bande locali presidiavano: All’Asmara 1150 uomini (900 bianchi 250 indigeni) A Keren 550 » (100 » 450 » ) A Agordat 1290 » (40 » 1250 » ) A Kassala 1545 » (100 » 1445 » ) A Adi Ugri 1585 » (725 » 860 » ) A Adi qualà 1550 » tutti indigeni tranne gli uffic. A Saganeiti 845 » (700 bianchi 145 indigeni) A Adi Caiè 700 » (600 » 100 » ) Totale 9215 In preparazione a Napoli, in viaggio per Massaua ed in parte già sbarcativi altri 24 battaglioni e 4 batterie, cioè due divisioni di circa 16000 uomini complessivamente. Le condizioni in cui trovavansi le truppe di Saurià erano militarmente migliorate per la rientrata dei molti reparti già distaccati in difesa delle retrovie; ma in riguardo agli approvigionamenti erano sensibilmente peggiorate. L’intendenza ripiegata ad Adi Caiè era semiparalizzata dal vuoto fattosi nei magazzini, dalla sempre crescente deficienza di quadrupedi e dallo sconcertato servizio dei conducenti, ed aveva dovuto dichiararsi impotente a garantire il rifornimento giornaliero del corpo d’operazioni; ormai costringendo tanto i soldati bianchi come gli indigeni a razioni ridotte o con generi sostituiti, e raccogliendo tutte le riserve di Mai Maret e Saurià, e quelle in distribuzione alla truppa, non vi erano più di quattro o cinque giornate di vitto assicurato; assai deteriorati erano il vestiario e l’equipaggiamento, assotigliate o guaste le salmerie dei reparti; lo spirito militare alquanto depresso per le privazioni, la fatica e la lunga attesa; ma non abbattuto e sempre suscettibile d’entusiasmo ad ogni speranza di battaglia: in complesso condizioni gravissime, quasi disperate, ma che tuttavia avrebbero ancora permesso una ordinata ritirata, od una resistenza a Saurià, che tenendo conto degli aiuti benchè imperfetti che si potevano ancora avere dall’Intendenza, avrebbe potuto durare forse anche una settimana. L’esercito del Negus invece, secondo le informazioni più conformi al vero e secondo quanto poterono poi constatare molti prigionieri italiani trascinati allo Scioa, si trovava nelle condizioni seguenti: Disposti intorno alla conca d’Adua donde pareva ormai abbandonato ogni tentativo di invasione del Seraè stavano le seguenti forze calcolate al minimo possibile.1 Negus Menelik 25000 fucili 3000 cavalli 32 cann. Imperatrice Taitù 3000 » 600 » 4 » Negus Tecla Haimanot 5000 » » » » » Ras Maconnen 15000 » » » » » » Mangascià e Alula 12000 » » » 6 » » Mangascià Atichim 6000 » » » » » » Mikael 6000 » 5000 » » » » Oliè ed altri 8000 » » » » » Totale 80000 fucili 8600 cavalli 42 cann. E ciò senza contare i ribelli tigrini scorazzanti per retrovie con tanto danno degli italiani. Le condizioni d’armamento e di munizionamento erano le migliori che l’esercito abissino avesse mai avuto: fucili quasi tutti a retrocarica e buoni, di modello Gras, Lebel e Martini; moltissimi Remington; cannoni a tiro rapido di recentissimo tipo condotti in Abissinia dal famoso Chefneux, e che vincevano in portata e perfezione, come si vide a Makallè, quelli italiani. Oltre all’immenso numero di fucilieri, cavalieri, artiglieri, non si teme d’esagerare affermando che seguivano l’esercito non meno di altre ventimila persone armate di sole lancie e di scudi, ed anche disarmati, pronte a sostituire i vuoti nelle file durante la battaglia, e nei campi e nelle marcie dedicate assieme alle donne ed ai fanciulli ai servizi di vettovagliamento, ai trasporti dei bagagli ed a condurre le salmerie. Era insomma uno dei più grandi eserciti che l’Abissinia abbia mai messo insieme, e ciò si giustifica dalla sua più grande e completa unione politica raggiunta. Ma le condizioni del vettovagliamento per un ammasso di tante genti che stavano riunite da sì lungo tempo si erano fatte forse più critiche che per gli italiani. Esaurite le provviste portate per obbligo dai soldati, e quelle requisite dai capi, e le grandi carovane di vettovaglie e di bestiame condotte dal Negus e preparate coi sanguinosi zemeccià tra i Galla ed i Wollamo, gli Abissini per provvedere al loro sostentamento erano costretti a continue razzie che desolavano il Tigrè e ne avevano ormai esaurito ogni risorsa. È ormai assodato dalla testimonianza concorde di tutti coloro che poterono conoscere da vicino le vere condizioni dell’esercito scioano, che esso non avrebbe potuto mantenersi riunito ancora per più di tre o quattro giorni, dopo dei quali sarebbe stato costretto a dissolversi per la fame; e ciò è comprovato oltre che dalla rinunzia all’invasione del Seraè, dallo stesso ripiegamento su Adua e dalle necessità che, dopo la vittoria, malgrado le prede fatte e le razzie moltiplicate quando più non premeva il pericolo di fronte, indussero quasi subito il Negus e molti altri capi alla ritirata. Erano queste suppergiù le condizioni dei due eserciti avversari; cioè, per riguardo alle forze che si fronteggiavano, immensamente superiori gli Scioani che stavano agli Italiani come 5 sta a 1; superiori questi nella qualità dell’armamento in generale, ma bene armati e muniti di numerosa e buona artiglieria anche i nemici; entrambi allo stremo di viveri ed obbligati ad una imminente e inevitabile ritirata. La quale però ripugnava tanto a Menelik quanto a Baratieri, perchè il programma di entrambi non era ancora stato svolto completamente e specialmente quello del secondo aveva avuto già un’esordio tutt’altro che soddisfacente per l’Italia e pel Comandante in Capo. Per ultimarlo con successo Menelik che non poteva più resistere e non aveva forza di assalire, ricorse alle astuzie e stando nascosto nella conca d’Adua si diede a far divulgare false notizie di ritirate, di sbandamenti, di ribellioni e di scissioni nel suo esercito per allettare e trarre in inganno Baratieri, promettendo perfino un premio a chi lo avesse indotto all’attacco; ed il Generale italiano che per tanto tempo aveva saputo temporeggiare con lode, frenando gli impeti della sua ambizione, domando gli scatti per le patite offese, resistendo alla spinta dei capi dipendenti e delle truppe anelanti alla battaglia ed ai desideri del Governo e della patria che aspettavano una vittoria, dopo aver tentennato alquanto, ed anzi predisposto un’altra volta e poi abbandonato pel mattino del 28 febbraio un principio di ritirata, finì per prestarsi al gioco dell’avversario, deliberando fatalmente di muovere all’attacco. Che cosa era avvenuto? Perchè questo repentino cambiamento di vedute, d’intenti e di mosse? Il generale Baratieri giustificò la fatale sua risoluzione colle seguenti ragioni: 1.° Le informazioni avute intorno al nemico affermavano concordi che Menelik e Taitù eransi recati ad Axum con molti seguaci; che molte truppe si erano allontanate da Adua per far razzie, ed altre eransi già messe in viaggio per ritornare allo Scioa; che erano scoppiati dei dissidii fra i capi e che il Re del Goggiam e ras Oliè avevano dichiarato che in caso di battaglia non si sarebbero battuti. 2.° Intorno a Saurià dopo la rientrata di Stevani, Valli e Oddone coi loro reparti, si erano nuovamente concentrate le maggiori forze combattenti che potessero nutrirsi e manovrare in quella regione; e che le difficoltà gravissime del vettovagliamento imponevano la necessità di avanzare o di retrocedere. 3.° Un’avanzata coronata dal successo poteva aprire la nuova linea di rifornimento per Adi Ugri-Asmara, ove erano già preparati copiosi depositi di vettovaglie. 4.° Una ritirata avrebbe avuto conseguenze materiali e morali disastrose; imposto l’abbandono dell’Agamè e l’isolamento del presidio di Adigrat, fatta scoppiare la ribellione anche fra gli indigeni e prodotto una penosissima impressione nell’animo delle truppe. 5.° Una risoluzione immediata si imponeva anche per la necessità di poter poi pensare al soccorso di Kassala, intorno alla quale fino dal 22 erano avvenuti degli attacchi di dervisci, e poscia si era stabilito un grosso corpo nemico che minacciava l’occidente della Colonia. 6.° In un consiglio di generali tenuto la sera del 28 febbraio sotto la tenda del Comandante in capo, tutti i quattro Comandanti di brigata e lo stesso Capo di stato maggiore si erano dimostrati assolutamente contrari alla ritirata e favorevoli invece per l’attacco. Come si vede, queste ragioni sono tutt’altro che cattive; disgraziatamente però quella principale che da sola poteva determinare l’opportunità di tentare un colpo contro il nemico, cioè quella riferentesi alle informazioni concordi sul campo nemico, era completamente basata sul falso. La gita di Menelik e di Taitù ad Axum, la ritirata e lo sbandamento di altre truppe, nonchè le ribellioni di Tecla Haimanot, di Oliè e di altri capi non erano che fiabe messe in giro da Menelik per trarre in inganno il Comandante italiano; e riesce strano che questi abbia potuto avere tali informazioni come tutte concordi e che le abbia credute con tanta facilità. Era possibile un propalamento di notizie così assurde senza che da nessuna parte venisse qualche smentita? Che tutti i nostri informatori si prestassero a fare il giuoco di Menelik? Può darsi; ma non per questo è meno biasimevole quella buona fede del Governatore, che sull’asserzione di informatori che non ne avevano mai indovinato una, che arrivavano sempre con notizie nebulose, incerte ed in ritardo, gli faceva esporre le sorti della Colonia e delle truppe ad un supremo cimento. Sta il fatto della strettezza dei viveri che, se non immediata, imponeva certo una prossima risoluzione; era giusta la speranza di poter aprire una nuova via di rifornimento da Adi-Ugri, ben fornita di materiali, più facile e più breve; è vero che la ritirata avrebbe imbaldanzito il nemico, demoralizzate le nostre truppe ed eccitata la ribellione per lo meno nell’Okulè-Kusai e forse anche nel Seraè e costretto ad un isolamento doloroso il presidio di Adigrat, qualora non si fosse preferito di ritirarlo; vero anche che necessitava provvedere a Kassala, sebbene questa potesse più facilmente soccorrersi coi nuovi rinforzi che sbarcavano a Massaua; ma queste non erano sufficienti ragioni per far scegliere l’avanzata piuttosto che la ritirata. Relativamente poi al parere espresso dai Generali e dal Capo di stato maggiore, si capisce poi come anch’essi subendo il fascino delle lusinghiere informazioni loro esposte dal Comandante in capo che le aveva raccolte, si siano espressi favorevolmente all’attacco; tanto più che tutto l’ambiente di Saurià era saturo di sentimenti belligeri, incominciando dai capi e fino ai soldati; ed anche perchè a certi quesiti che parlano di battaglia un inferiore non dice mai no2. Ecco come il generale Ellena nella sua deposizione fatta al Tribunale di Asmara narra del convegno dei generali. TRIBUNALE MILITARE DI ROMA. Deposizione del maggior generale Ellena cav. Giuseppe * * * Pag. 185 degli Atti processuali dell’Istruttoria a Massaua * * * . . . . . . . . . . D. Se sappia le ragioni per le quali il generale Baratieri si decide improvvisamente nel 29 febbraio ad attaccare gli Scioani, se ebbe occasione di esprimere al generale Baratieri la sua opinione relativamente a questo attacco e se sappia che la esprimessero altri generali od ufficiali superiori. R. «A tutto rigore non posso dire di conoscere tutte le ragioni che possono aver indotto il generale Baratieri nella sera del 29 febbraio ad ordinare la marcia sull’accampamento scioano e conseguente attacco. Conosco solamente le ragioni che furono svolte la sera del 28 febbraio in una riunione che il prefato Generale tenne coi quattro generali comandanti di brigata, presente il capo di stato maggiore colonnello Valenzano. Premetto che durante la mia permanenza al campo, il generale Baratieri aveva già due altre volte ricevuto i suddetti generali per intrattenerli sulle grandi difficoltà che si incontravano nel servizio di vettovagliamento e per accennare alla possibilità che venisse ordinata una ritirata su qualche posizione più prossima alle fonti del vettovagliamento ed aveva dichiarato che la riunione non era un consiglio di guerra ma bensì una discussione con scambi di idee, dopo la quale egli, che solo aveva la responsabilità di tutto, avrebbe preso le sue decisioni. «La sera del 28 febbraio, poco dopo le ore diciasette, fu tenuta la riunione cui ho sopra accennato. Il generale Baratieri espose che il servizio viveri era assicurato fino al giorno 2 marzo, o tutt’al più fino al giorno successivo, dopo il quale non potevasi più sperare in modo assoluto di poter provvedere all’alimentazione della truppa: che perciò si imponeva la necessità di un provvedimento, il quale poteva essere una ritirata verso la conca di Senafè, od anche ad Adi Cajè, se pure nell’effettuare la ritirata non si presentava la convenienza di retrocedere addirittura sino all’Asmara. «Prese allora per primo la parola il generale Dabormida, il quale esclamò: «Ritirarsi mai!» e convalidò la sua opinione con le seguenti tre ragioni essenziali: Primo che in Italia non si sarebbe compreso una ritirata perchè il Paese avrebbe preferito perdere in una battaglia due o tremila uomini piuttosto che andar incontro ad una ritirata che le sarebbe parsa disonorevole; secondo che la ritirata avrebbe straordinariamente depresso il morale dei nostri soldati, con conseguenze gravissime per non dire fatali; terzo che il nemico, sempre bene al corrente dei fatti nostri, assai più numeroso di noi, e più celere nella marcia che le nostre truppe bianche, non avrebbe mancato di attaccarci in marcia in quel giorno ed in quel luogo che gli fosse parso utile, e che perciò noi ci saremmo trovati costretti a combattere nelle condizioni più sfavorevoli, attesa la natura del terreno che ci avrebbe costretto ad un enorme allungamento della nostra colonna. Finì quindi per concludere che era preferibile muovere all’attacco. «Il generale Albertone, che prese dopo la parola, espresse lo stesso parere del generale Da Bormida ripetendo ragioni analoghe ed aggiungendo che dalle informazioni di indigeni risultava che una parte dell’esercito scioano era a razziare fuori della conca di Adua, che un’altra parte erasi già mossa verso lo Scioa per ritornare ai proprii paesi. Disse inoltre, sebbene in termini dubbiosi, che due ras si sarebbero astenuti di prender parte al combattimento. Discorrendo poi della posizione occupata dagli Scioani, accennò risultargli che l’accampamento era diviso in due parti alquanto distanti fra di loro, in una delle quali, (la meno lontana da noi) non vi erano che poche forze, quattordici o quindicimila uomini. «Il generale Arimondi, che fu il terzo a parlare, espresse parere reciso per l’attacco soggiungendo che già si erano lasciate trascorrere due o tre occasioni per eseguirlo. «Io, che fui quarto a prendere la parola, dichiarai che mi era valso del mio diritto di anzianità di parlar l’ultimo, perchè, giunto da soli dodici giorni al Corpo d’operazione non poteva avere nozioni esatte e complete su tutto quanto si riferiva all’esercito nemico, come forza intrinseca, attitudine, tattica, posizione occupata e che perciò il mio giudizio non poteva essere basato su altro, se non che sulle informazioni e considerazioni svolte dai miei colleghi: in conseguenza davo anche un parere favorevole all’attacco. Nel seguito dei discorsi che si intracciavano mi venne fatto di precisare il mio concetto con queste parole: «radunare il massimo delle forze disponibile e poi andare a cercare il nemico». «Il generale Baratieri chiuse la riunione con queste parole: «Il Consiglio è animoso, il nemico è valoroso e disprezza la morte, come è il morale dei nostri soldati? «— Eccellente, risposero tutti i Comandanti di brigata. Allora fummo congedati con queste parole: «Attendo ulteriori informazioni da informatori che devono arrivare dal campo nemico; avutele prenderò una decisione». «La sera del ventinove, alle ore diciassette, il generale Baratieri chiamò presso di sè i quattro Comandanti di brigata, comunicò loro la sua decisione di muovere, spiegò mediante uno schizzo topografico l’ordine della marcia ed il piano d’attacco. Si riservò di mandare in breve alle brigate l’ordine scritto, che mi pervenne alle 18 e mezza; e congedò i predetti Comandanti raccomandando loro di persuadere bene la truppa che si trattava di vincere o morire». Lettura data, conferma e si sottoscrive all’ufficio. Firmato: Ellena Giuseppe. Come si vede dalla predetta deposizione il parere degli interpellati fu effettivamente unanime per l’attacco; ma con tutto ciò non scemasi la responsabilità spettante al Comandante in capo; il quale era il solo ed unico giudice della situazione, era quello a cui l’Italia aveva affidato la suprema ed assoluta direzione delle operazioni di guerra, ed il supremo ed assoluto comando sulla truppa senza bisogno di consigli di consulti. Alcuni, spinti dallo spirito della partigianeria politica fecero risalire al Ministero e segnatamente a Crispi la responsabilità di questa fatale decisione d’attacco; ma se non ci fosse altro per scagionarlo da si grave accusa basterebbe il fatto che appunto per non impressionare e spingere Baratieri ad un’inconsulto colpo di mano prima di vedersi sfuggire il comando, nominava ed inviava a Massaua con tanta segretezza il nuovo Governatore destinato a sostituirlo. È poi ben vero che il Ministero e segnatamente Crispi avevano, come l’avevano anche il Parlamento ed il Paese, il desiderio vivissimo di una vittoria che risolvesse per sempre la questione abissina; e che si dimostravano ansiosi di ottenerla respingendo, prima di averla ottenuta, qualsiasi pratica di accomodamento con Menelik; ma ciò era incluso nel programma di rivincita già votato dal Parlamento; ciò era lo scopo degli ingenti sforzi e sacrifici che faceva la patria nel mandar in Africa tante truppe, ciò era richiesto dallo stesso onore dell’Italia e del suo esercito. I telegrammi con cui l’onorevole Crispi rimprovera Baratieri dell’avanzata scioana su Ausen, della sorpresa di Seetà e di Alequà e con cui annunzia l’invio dei mortai per sloggiare i nemici dalle loro posizioni ed anche alcuni altri, manifestano bene spesso il vivissimo desiderio e si direbbe quasi l’impazienza febbrile del Ministro nel successo, ma non contengono una sola parola che possa anche menomamente forzare la volontà del Comandante in capo, che è lasciato giudice opportuno de’ suoi movimenti e delle sue mosse ed al quale non è prefisso che lo scopo finale da conseguire. Con ciò non si viene ad escludere relativamente all’esito della campagna, la responsabilità politica spettante al Governo, la quale come si disse già, gli derivò piuttosto dallo stato di impreparazione politica e militare in cui trovossi l’Italia allo scoppio della guerra e sopra tutto dall’aver avuta e mantenuta fino all’ultimo la fiducia nel generale Baratieri. Alcuni invece ritennero allora e ritengono ancora oggi, che Baratieri siasi deciso all’attacco per essere venuto a conoscenza della nomina del nuovo Governatore, quantunque da Roma e da Massaua si fosse impedito con sommo rigore la trasmissione telegrafica di tale notizia. Baratieri durante il suo processo svoltosi poi a Massaua e nel suo libro posteriore di Memorie respinge con isdegno la terribile accusa, che infatti non si potè comprovare da alcuno; anzi egli afferma che se avesse saputo la sua sostituzione, si sarebbe assolutamente astenuto da ogni iniziativa personale per rimettere con gioia il comando e le gravi responsabilità che lo accompagnavano nelle mani dell’amico e suo superiore in anzianità, al quale era già stato sottoposto altre volte e sotto il quale, esercitando il comando più modesto di comandante di divisione, avrebbe cooperato anche in seguito alla difesa della Colonia, sia ripiegando se ne era il caso, sia seguendolo all’attacco se egli lo ordinava, per vincere o cadere coi compagni d’arme. Ciò non ostante per taluni il dubbio è rimasto ancora ed è alimentato dalle considerazioni seguenti. Sebbene il Ministero avesse mantenuto il più rigoroso segreto intorno alla nomina di un nuovo Comandante in Africa, la notizia correva già nella bocca di tutti, circolava già nella Colonia e tra le stesse truppe raccolte a Saurià, e da parecchi giorni l’Agenzia Reuter che aveva abbonati a Massaua l’aveva telegrafata, nominando come successore il generale Pelloux; negli ultimi giorni poi a Massaua stessa erano giunte lettere e telegrammi dirette al generale Baldissera. Ritengono i dubbiosi che una notizia così importante non potesse rimanere occulta e che con qualsiasi mezzo di corrispondenza confidenziale, o convenzionale sia pervenuta all’orecchio del generale Baratieri. Comunque sia avvenuto, resta il fatto che alla sera del 29 febbraio 1896, Baratieri emanava alle sue truppe l’ordine seguente, corredandolo di un apposito schizzo. «Ordine del giorno 29 febbraio N. 87. «Stasera il corpo d’operazione muove dalla posizione di Sauria in direzione di Adua formato nelle colonne sotto indicate: «Colonna di destra (Generale Dabormida): 2a brigata fanteria — battaglione di milizia mobile — comando 2a brigata di batteria colle batterie 5a, 6a e 7a. «Colonna del centro. — (Generale Arimondi): 1a brigata fanteria — 1a compagnia del 5° battaglione indigeni — batterie 8a ed 11a. «Colonna di sinistra. — (Generale Albertone): quattro battaglioni indigeni — comando della 1a brigata di batterie e batterie 1a, 2a, 3a e 4a. «Riserva, (Generale Ellena): 3a brigata fanteria — 3a battaglione indigeni — 2 batterie a tiro rapido e compagnia genio. «Le colonne Dabormida, Arimondi ed Albertone alle ore 21 muoveranno dai rispettivi accampamenti; la riserva muoverà un’ora dopo la coda della colonna centrale. «La colonna di destra segue la strada colle Zalà, Colle Guidam, colle Rebbi Arienni; la colonna centrale e la riserva la strada Addi-Dicchi, Gandapta, colle Rebbi Arienni; la colonna di sinistra la strada Sauria, Addi-Gheras, colle Chidane Meret; il quartier generale marcia in testa alla riserva. «Primo obbiettivo; la posizione formata dai colli Mai-Meret e Rebbi Arienni tra monte Semaiata e monte Esciasciò, la cui occupazione verrà fatta dalla colonna Albertone a sinistra, dalla colonna Arimondi al centro e dalla colonna Dabormida a destra. La colonna Arimondi però, ove sieno sufficienti le colonne Albertone e Dabormida, prenderà posizione di aspetto dietro le due brigate predette. Avvertenze. «Ogni militare di truppe italiano porterà seco la propria dotazione di cartucce (112), due giornate viveri di riserva, la mantellina, borraccia e tascapane. Per ogni battaglione italiano marceranno al seguito delle truppe riuniti in coda alle singole colonne, due quadrupedi da soma con materiali sanitari e otto con le munizioni di riserva. Tutti i rimanenti quadrupedi da salmerie, con un soldato ogni cinque quadrupedi oltre ai conducenti, un graduato per battaglione o batteria, un ufficiale subalterno per reggimento fanteria, un capitano per tutte le salmerie (fornito dalla 2a brigata fanteria) si raccoglieranno a Entisciò con la razione viveri prelevata oggi per domani, le trenta cartucce per ogni soldato prelevate oggi dal parco, le tende, le coperte e gli altri materiali non trasportati dai corpi. Tanto le suddette salmerie, quanto la sezione sussistenza, i vari servizi di tappa ed il parco di artiglieria resteranno fermi ad Entisciò, pronti a muovere quando ne riceveranno l’ordine da questo comando, sotto la protezione di un presidio del 7° reggimento fanteria che giungerà stasera da Mai Gabetà. La brigate di artiglieria ed i battaglioni indigeni si regoleranno per le loro salmerie in modo analogo a quanto è detto per i battaglioni italiani. «Nessuno oltrepassi le punte ed i fiancheggiatori delle colonne. «Tutte le persone fermate dai drappelli di sicurezza siano inviate al più presto al comando. «Il direttore dei servizi del genio provvedere per lo stendimento della linea telegrafica al seguito del quartier generale e perchè, appena possibile, questo sia messo in comunicazione colle colonne laterali o antistanti mediante telegrafia ottica. I comandanti delle varie colonne mandino frequenti avvisi al quartier generale ed alle colonne vicine. «Il tenente generale «Firmato O. Baratieri». E così venne decisa la grande battaglia d’Adua che segnò il principio di una nuova fase nella storia coloniale non solo d’Italia ma anche d’Europa. Fine della Parte II ↑ Queste cifre concordano con quelle che il russo Elez attinse al diario di Leontiew e che costui per esaltare il valore abissino avrà calcolato piuttosto al di sotto che al di sopra del vero. ↑ Dicesi che il maggiore Salsa, sottocapo di stato maggiore, essendo stato interpellato, sia stato il solo ad esprimere parere contrario. Note PARTE III * * * Dalla battaglia d’Adua fino al 1.° marzo 1899 * * * Indice Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo XXI CAPITOLO XIX * * * BATTAGLIA D’ADUA * * * (1 Marzo 1896). Dalle alture di Saurià, di Addi Dichi e di Zalà la sera del 29 febbraio 1896 Baratieri faceva avanzare il corpo d’operazioni in direzione di Adua, disponendolo su tre colonne parallele di brigata, ed un’altra di riserva, costituite nel modo seguente: Colonna di sinistra Brigata indigeni (Magg. Gen.le Albertone) Quattro battaglioni indigeni (1.° Turitto, 6.° Cossu, 7.° Valli, 8° Gamerra) Fucili 3700 Bande dell’Okulè Kusai (Sapelli) » 376 Una batteria (1. Henri) e la 2.a sezione della 2.a batteria (Vibi) di artiglieria da montagna indigena Cannoni 6 Due batterie da montagna italiane (3.a Bianchini e 4.a Masotto) » 8 Colonna centrale 1.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Arimondi) Un reggimento bersaglieri (1.º Stevani) con 2 soli battaglioni (1.º De Stefani e 2.º Compiano 1 Fucili 773 Un reggimento fanteria (2.º Brusati) con 3 battaglioni (2.ª Viancini, 4.ª De Amicis, 9.ª Bandini) » 1500 Una compagnia indigeni (1.ª Pavesi del 5º battaglione) » 220 Due batterie da montagna, italiane (8.ª Loffredo, 11.ª Franzini2) Cannoni 12 Colonna di destra 2.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Da Bormida) Due reggimenti di fanteria su tre battaglioni ciascuno, cioè 3.º reggimento (Bagni) coi battaglioni, 5.º (Giordano) 6.º (Prato) 10.º (De Fonseca) Fucili 1310 6.º reggimento (Araghi) coi battaglioni 3.º (Branchi) 13.º (Rayneri) 14.º (Solaro) » 1330 Un battaglione di M. Mobile indigeni (De Vito) » 950 Una compagnia del Chitet di Asmara » 210 Tre batterie da montagna italiane (Zola) cioè 5.ª (Mollino) 6.ª (Regazzi) 7.ª (Gisla). Cannoni 18 Colonna di riserva 3.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Elena) Due reggimenti di fanteria su tre battaglioni ciascuno, cioè 4.º reggimento (Romero) coi battaglioni 7.º (Montecchi) 8.º (Violante) 11.º (Manfredi) Fucili 1380 5.º reggimento (Nava) con un battaglione Alpini, (Menini) ed il 15.º (Ferraro) ed il 16.º (Vandiol) di fanteria » 1550 Un battaglione indigeni (3.° Galliano) Fucili 1150 Mezza compagnia del genio » 70 Due batterie a tiro rapido (De Rosa) cioè 1.a (Aragno) 2.a (Mangia) Cannoni 12 Erano dunque in tutto 14519 fucili e 56 pezzi d’artiglieria (con una forza complessiva di circa 17500 uomini, dei quali 10450 italiani ed il resto indigeni3 che andavano a sfidare l’intero esercito Scioano forte di più che 80000 fucili, 10000 cavalli e 42 pezzi d’artiglieria, senza contare lo sterminato numero di seguaci dissarmati ed armati di sole lancie, pronti a riempire i vuoti ed a prestar tutti i servizi indispensabili pei combattenti. Il terreno che si stende tra Saurià e Adua è costituito da una serie intricata di alture e di avallamenti che si annodano allo spartiacque tra il bacino del Mareb e quello del Taccazzè. Le acque del primo versante sono raccolte in questa regione dal Mai Cherbara od Unguio, e quelle del secondo dal Farras Mai, e dal Mai Ciò e da alcuni rami orientali del Gurungura, tutti tributari dell’Ueri. Il suolo, sconvolto da antichi fenomeni tellurici, offre gli stessi caratteri fisici speciali e e lo stesso aspetto alpestre e selvaggio di quello in generale della regione etiopica: verdi valli coperte di una ricca vegetazione tropicale, e sul cui fondo spesso serpeggia e si perde qualche ruscello pantanoso; pendii scoscesi dirupati e brulli, cosparsi d’anfratti, di burroni e crepacci; strette e tortuose gole tagliate nella viva pietra, passi angusti, erti e difficilissimi, e sommità granitiche che s’elevano al cielo nelle più strane forme e dimensioni: la superficie sembra un mare tempestoso mosso dall’ira di Dio. Pochi villaggi ma frequenti capanne s’incontrano sulle medie alture; spessi campi coltivati e verdi pascoli nei declivii e nei piani, folte macchie e boscaglie nei fondi, sparse intorno molte euforbie e mimose e ulivi selvaggi e ginepri e qualche gigantesco sicomoro. Le strade che percorrono la regione sono poche e difficilissime, e quasi tutte serpeggiano sul fondo della vallata e dei torrenti, i quali durante la pioggia le allagano e le devastano ingombrandole di sassi e di ammassi rocciosi che ne tolgono perfino le traccie. A circa 12 chilometri a est di Adua ed a 24 da Saurià, un ordine di tre ammassi montani disposti quasi ad arco verso la capitale tigrina, viene a sbarrare la maggior parte delle strade che ne derivano costringendole a passare sui fianchi dell’ammasso centrale. Questo è il Raio e gli altri due sono il Semaiata a sud che spinge verso il Raio un suo contrafforte detto Monte Caulos, formando contro di esso un colle detto da Baratieri di Chidane Meret; e a nord sono i monti d’Esciasciò che serrano contre il Raio il così detto colle del Rebbi Arienni. Questa, secondo gli intendimenti del Comandante in capo, avrebbe dovuto essere la linea di posizioni da occuparsi, come primo obbiettivo, dalle 4 brigate; ed è convinzione ormai generale che essa costituisse quanto di meglio poteva offrire quello scacchiere tattico, e che dalla stessa il nostro corpo d’operazioni avrebbe potuto resistere con certo successo all’urto dell’intero esercito scioano; tuttavia non era ottima. Prima di tutto perchè il terreno ad essa antistante era troppo frastagliato e coperto e non offriva largo campo di tiro, e permetteva tra le ondulazioni ed i burroni ed i frequenti angoli morti l’avanzata nascosta anche per numerosi gruppi nemici; in secondo luogo perchè se l’aggiramento tanto usato dagli Abissini era difficile e quasi impraticabile da sud, girando intorno all’immenso Semaiata, sarebbe invece riuscito più facile da nord a traverso i monti d’Esciasciò, per quella via che fu più tardi tenuta dalla brigata Da Bormida in ritirata. Ma se anche la posizione prescelta dal Baratieri, senza essere ottima, poteva ritenersi buona, la fatalità volle che in seguito ad una sequela di equivoci e d’errori non se ne potessero ritrarre quei vantaggi che essa offriva. Le tre colonne di marcia iniziarono il loro movimento dalle rispettive posizioni contemporaneamente alle ore 21, percorrendo, quella di destra la via principale che dal colle di Zalà per quello di Guldam conduce al Rebbi Arienni; la centrale quella meno importante che da Addi Dichi per la conca di Gandapta conduce dietro il Raio; la colonna di sinistra la più difficile e tortuosa che da Saurià tra Addi Cheiras e Zattà conduce al colle a Sud del Raio stesso. La riserva col Comando in capo seguirono la colonna centrale, partendo dall’accampamento un’ora dopo. Ma dopo la mezzanotte, occorse a turbare l’ordine di marcia un improvviso disvio della brigata indigeni, la quale nel percorrere una strada tortuosa e difficilissima venne a trovarsi in testa alle due brigate centrali obbligandole a soffermarsi per più di un’ora e mezzo. Albertone, fu sollecito a rimettersi nella buona via, ma nell’accelerare il passo per disincagliare le altre due brigate, perdette il loro contatto e non lo potè più riacquistare. Avvenne così che alle tre e mezzo circa la brigata indigeni venne a trovarsi a sud del Raio, nella posizione detta da Baratieri colle Chidane Meret, completamente isolata dalle altre due che appena allora riprendevano la marcia. Su quel colle maledetto, che non si sa ancora come si nomini, si maturò la causa principale del disastro. Quivi Albertone sostò per circa un’ora, aspettando invano sulla destra l’arrivo della brigata Arimondi, che era ancora molto indietro; poscia impressionato dal proprio isolamento, poco illuminato dallo schizzo inesatto e dall’ordine mal concepito, attenendosi alle informazioni di guide che affermavano essere il colle Chidane Meret ancora più avanti di circa 7 Km. in direzione di Adua, finì per avanzare colla sua brigata verso quella volta. La responsabilità di questa avanzata fatale, che ebbe poi delle conseguenze così funeste, da alcuni e da Baratieri stesso venne attribuita esclusivamente al generale Albertone. Però non mancano altri i quali ritengono che egli debba andarne esente, attribuendola invece alle imperfette disposizioni emanate dal comandante in capo. Invero l’ordine del giorno e lo schizzo del comando sembrarono fatti a posta per generare l’equivoco. L’ordine parla di occupare la posizione formata dai due colli Chidane Meret e Rebbi Arienni posti tra il Semaiata e l’Esciasciò e non fa parola che essi siano attigui al Raio; nello schizzo invece i due colli sono disegnati sui fianchi sud e nord del Raio e contro i due monti predetti. Secondo invece lo schizzo ufficiale più recente, compilato con maggiore esattezza durante il seppellimento dei morti, e secondo anche quello pregevolissimo che in tale occasione disegnò ed illustrò con stupende levate fotografiche il valente scrittore ed artista E. Ximenes, non solo il famoso colle Chidane Meret non risulta a sud del Raio, ma neppure questo monte si trova proprio a contatto del Semaiata, il quale eleva la sua gran massa centrale a non meno di tre chilometri più a sudovest del Raio contro cui invece spinge soltanto un suo contrafforte orientale detto Monte Caulos, di cui non si fa parola nè sullo schizzo nè sull’ordine predetto. Risulta parimenti dai predetti documenti che le pendici del Semaiata si protendono sovra un’immensa base, spingendosi anche in direzione nord-ovest verso un monte antistante al Raio di circa 7 Km. detto Enda Chidane Meret, sul cui fianco settentrionale sta il grande varco che sarebbe il solo ed il vero colle Chidane Meret, donde si sbocca nella conca d’Adua. Chi considera queste circostanze e questi dettagli, chi si fa un’immagine del laberinto montano e degli strani contorcimenti delle vallate e delle vie e delle difficoltà di ben dirigersi e di discernere fra esse le località, dovrà senza dubbio andar cauto prima di incolpare Albertone, se seguendo uno schizzo ed un’ordine imperfetto, fu tratto ad avanzare verso una posizione che per la sua forma e la sua località poteva ancora ritenersi quella voluta dal Comandante in capo, e per la sua denominazione lo doveva. Apparirebbe invece più evidente, se non dovuto ad ordini o disposizioni speciali ora non conosciute, il suo errore di aver perduto quel collegamento che è tassativamente prescritto dal regolamento sul servizio in guerra. Qualunque sia stata la causa, l’effetto senza dubbio fu quello che mentre alle 5 1/2 circa la brigata Da Bormida giungeva senza inconvenienti al Rebbi Arienni, e verso le 6 anche quella di Arimondi con a tergo la riserva ed il Quartiere Generale, arrivava presso il Raio, il generale Albertone proseguiva cogli indigeni verso il lontano colle Chidane Meret. Precedeva la marcia il battaglione Turitto distaccato in avanguardia, il quale, alla sua volta essendosi spinto un pò troppo avanti, penetrava pel colle Chidane Meret fino quasi nella conca d’Adua, dove urtava cogli avamposti nemici. * Baratieri giungeva al Rebbi Arienni verso le ore 6; e v’incontrava il suo capo di stato maggiore colonnello Valenzano ed il Generale Da Bormida che erano preoccupati per non aver trovato il contatto della brigata Albertone. Però, sebbene dall’inconveniente già successo nella marcia e dalla grande mobilità delle truppe indigene, quella brigata dovesse ritenersi piuttosto avanti che indietro delle altre, ciò parve impensierire poco il Comandante in capo, che si limitò a mandare messi ed esploratori in giro per rintracciarla, senza ordini positivi di farla retrocedere alla posizione designata. Se non che tutto ad un tratto mentre è intento a riconoscere il terreno intorno al colle, gli giunge all’orecchio un lontano crepitio di fucilate in direzione sud-ovest, che tradisce una distanza di oltre 5 chilometri almeno e che fa dubitare di uno scontro della brigata Albertone col nemico. Questo primo indizio di lotta che fa palpitare tanti cuori e che richiama i pensieri e gli sguardi di tutti verso la sua direzione, mentre fa più vive le ansie intorno alla brigata indigeni non riesce a provocare disposizioni risolute dal Comandante in capo. Egli non prevedendo i pericoli e le conseguenze che potevano derivare dall’enorme distacco ormai evidente di quella brigata, non seppe o non volle determinarsi a richiamarla in fretta sotto al Raio, od a farvela ripiegare gradatamente, combattendo ma senza esporsi troppo, e mantenendo il contatto del nemico, ciò che si era ancora in tempo tanto di ordinare, quanto di eseguire, e che avrebbe probabilmente attirato il nemico ormai impegnato, sotto le forti posizioni del Raio e dei due colli adiacenti, donde colle altre tre brigate fortemente appostate e schierate e munite di poderose artiglierie, sarebbe stato certamente soffermato e respinto. Ma a questa decisione risoluta che avrebbe potuto trarre vantaggio anche dal disvio della brigata indigeni, Baratieri preferì per qualche tempo di aspettare che la situazione si rischiarasse. Egli prima attribuì le fucilate a qualche pattuglia o centuria spintasi troppo avanti e non vi diede grande importanza; poscia quando s’accorse che il rumore delle fucilate si faceva più vivo ed insistente, piuttosto che pensare a delle misure di prudenza e di sagacità, facendo ritirare la brigata indigeni, preferì mandargliene un’altra in soccorso, e, ciò che è peggio, la diresse male. Erano circa le 6 3/4 quando Baratieri chiamò Da Bormida e gli diede ordine di avanzare sulla destra per dar una mano ad Albertone. Certamente l’avanzata anche isolata della brigata Da Bormida, quantunque assai arrischiata e pericolosa, avrebbe potuto arrecare un potente soccorso a quella indigeni e molto probabilmente concorrere, come si vedrà poi, a determinare il successo delle nostre armi; ma era destino che anche da quest’ordine di Baratieri dovesse derivare un equivoco fatale. Il generale Da Bormida iniziò la sua marcia verso le ore 7 dal colle di Rebbi Arienni facendosi precedere dal battaglione di M.M. del maggiore De Vito, ma dopo qualche chilometro, invece di obbliquare a sinistra in direzione della brigata indigeni, fu attratto dalle condizioni del terreno e dallo svolto della via o forse anche dalle imperfette indicazioni ricevute, ad obbliquare verso destra, e venne a sboccare nella lontana valle di Mariam Sciavitù ove rimase isolato completamente dalle altre brigate, e sul cui fondo sboccante nella conca d’Adua ai piedi di un’amba solitaria vide biancheggiare ed agitarsi un vasto accampamento nemico. Anche le cause che determinarono questo equivoco non sono ancora conosciute. Baratieri, nel suo libro di memorie, afferma che l’ordine da lui dato a Da Bormida era di avanzare sulla destra per dare una mano alla brigata indigeni, e più specialmente di avanzare per quello sperone di Belàh sul quale il Da Bormida stesso era già stato ad esplorare. A parte però che quest’ordine indefinito, per chi ignorava la vera posizione della brigata suddetta, non aveva sufficiente chiarezza, e considerando anche che nel davanti dello sperone di Belàh invece di strade e di terreni praticabili si ergeva la dorsale perpendicolare tra la valle del Latzate e quella di Mariani Sciavitù, dorsale che difficilmente poteva essere percorsa dai battaglioni bianchi e dall’artiglieria, può darsi che Da Bormida, abbia cercato di congiungersi ad Albertone tentando un aggiramento per la seconda delle predette valli; e che questa mossa sia poi stata fermata ed impedita dai nemici apparsi in fondo alla valle. Riesce strano però, che gli ordini e le disposizioni emanate da Baratieri prima e durante lo svolgersi della battaglia, abbiano avuto il difetto capitale di generare tanti equivoci, ed abbiano avuto l’effetto di fargli sfuggire di mano due terzi di quell’esercito che il Re e la Patria avevano affidato al suo comando ed alla sua suprema ed assoluta responsabilità. Non rimanevano ormai più a disposizione di Baratieri che la brigata di riserva Ellena e quella più piccola di Arimondi, la quale inoltre dovette assotigliarsi ancora distaccando a destra, sulle alture dei monti d’Esciasciò, il 4.° battaglione (De Amicis) e la compagnia indigeni (Pavesi), che attratti poi nella sfera d’azione della brigata Da Bormida non poterono più ricongiungersi alla propria. Da un alto poggio dei monti d’Esciasciò il generale Baratieri, osservando col cannocchiale laggiù verso Adua, può alfine convincersi non solo che l’attacco nemico si è fatto più vivo e sta impegnando completamente la brigata indigeni, ma che anche in fondo all’ampia valle di Mariam Sciavitù si nota un forte brulichio di Abissini che minacciano la destra italiana. Allora soltanto, ed era già troppo tardi, essendo circa le 8 1/4, Baratieri si decide di schierare in battaglia anche le due brigate centrali. Ad ovest di monte Raio, si eleva una secondaria diramazione montana detta dei monti di Belàh, che ha origine contro il fianco meridionale del Raio e presso le falde del monte Caulos, contrafforte del Semaiata, e dopo aver pronunciato un ampio dosso quasi di fronte al Raio mantenendosi da esso distante circa 400 m., si deprime e ripiega verso nord-ovest risollevandosi poi nel largo sperone Belàh già nominato, che va a terminare contro la via del Rebbi Arienni a circa 800 metri dal detto colle. Nella depressione tra le due prominenze, passa un sentiero che dipartendo dal Rebbi Arienni conduce traversando verso Abba Garima ed Adua; altro sentiero scorre nell’insellatura tra la linea dei Belàh ed il Raio congiungendo i due colli laterali a questo monte, mettendo cioè in comunicazione la via principale del Rebbi Arienni che conduce ad Adua per la valle di Mariam Sciavitù, con quella secondaria passante a sud del Raio, per la quale la brigata indigeni si era avanzata contro il nemico. L’insellatura tra il Raio e la diramazione dei Belàh si apre vasta ed elevata verso sud e sud-ovest, dominando la via proveniente da Adua e i fianchi nord-ovest del monte Caulos; si restringe poi tra il dosso antistante al Raio e il Raio stesso, e si riapre poscia ancora più larga, ma più bassa, tra il Rebbi Arienni ed il secondo sollevamento o sperone dei Belàh. Il pendio occidentale di questi monti discende ripido e in certi punti quasi a picco nella valle ristretta e frastagliata del Mai Avollà, piccolo rigagnolo scorrente verso nord e che sbocca per una stretta gola sulla via del Rebbi Arienni. E davanti al Mai Avollà, a destra s’erge il rosseggiante monte Derar che ne chiude quasi lo sbocco contro lo sperone di Belàh; e quindi si svolge verso sinistra il largo e basso ciglio di Addi Vecci che si protende fin contro il Semaiata, rinchiudendo verso ovest un’altra vallata parallela al Mai Avollà, ma scorrente in direzione opposta, detta del Latzate; la quale è limitata verso Adua dai contrafforti di Abba Carima, cioè dai monti Latzate ed Enda Chidane Meret, e da quelli di Amba Scelloda detti monti Gususò e Nasraui, e chiusa a nord dai fianchi di quest’ultimo e dal monte Derar che la separano da quella di Mariam Sciavitù, scorrente perpendicolarmente sulla destra verso Adua. Il suolo che si stende tra queste linee di alture e queste valli è brullo e roccioso sulle vette e sui fianchi, rigogliosissimo e aquitrinoso nelle vallate dove crescono boscaglie macchie e cespugli, ed erbe foltissime aggrovigliate che impediscono la vista ed il cammino; i fianchi delle alture costituiscono frequenti angoli morti di tiro e la sinuosità del terreno e l’intrico degli avallamenti e dei declivii permette le avanzate al coperto, specialmente per truppe agili e di color terrigno come le abissine. È questo, a brevi tratti, il territorio ove si svolsero le fasi dell’epica lotta. La posizione prescelta da Baratieri per schierare la brigata Arimondi, fu la testata sud dell’insellatura tra il Raio e i monti di Belàh nonchè i fianchi dei monti stessi prospicienti verso la via di Adua. La brigata Ellena venne invece disposta parte dietro il Raio e parte presso il colle Rebbi Arienni, in riserva. Intanto che queste due brigate cominciavano ad eseguire il movimento ordinato dal comando in capo, laggiù oltre Addi Vecci e presso il colle Chidane Merot (tra questo monte e l’Amba Gususò) succedeva una lotta tremenda. Il generale Albertone, quando si accorse che il 1.° battaglione (Turitto) si era avventurato nella conca di Adua e che si era impegnato colle truppe scioane, non stimò prudente di avanzare in suo aiuto, ma si dispose invece a sostenerlo, appostando la sua brigata sovra una linea di medie alture che guardano ad arco l’imboccatura del colle predetto a circa 2000 m. e che offrivano buone posizioni per l’artiglieria. Questa (3 batterie con 14 pezzi in tutto) fu piazzata al centro; a destra dell’artiglieria prima l’8.° battaglione e poi il 6.°; a sinistra il 7.°. Alcune centurie indigeni e le bande furono spinte sui fianchi e sulle alture laterali al valico. Le truppe d’Albertone erano appena schierate, quando verso le ore 8 1/2 si videro per l’insellatura tra i due monti ritirarsi gli avanzi disfatti del battaglione Turitto, il quale dopo aver sostenuto per oltre un’ora un accanitissima lotta cogli avamposti nemici era stato assalito da una grande massa, e costretto a ripiegare, inseguito alle calcagna da grossi stormi nemici che ne facevano strage. In breve le truppe indigene del centro dovettero aprire il fuoco contro la massa degli inseguenti, la maggior parte dei quali fu costretta a soffermarsi e a ripiegare; ma dei nuclei di nemici riuscirono a sfilare coperti tra le sinuosità, i serpeggiamenti, e le fitte boscaglie del suolo, lanciandosi dietro ai superstiti del battaglione Turitto, ricacciandoli a tergo della brigata ed inseguendoli sulla via del Raio. Quasi contemporaneamente, cominciarono ad apparire delle truppe nemiche sulle vette e sui fianchi laterali al colle, chiamando in lizza anche i reparti d’ala della brigata, la quale in breve tempo si trovò impegnata completamente contro il nemico. La lotta si fa terribile e micidiale. I 14 pezzi d’artiglieria ed i tre battaglioni indigeni con tiri ben aggiustati respingono per ben quattro volte la grande massa minacciante dal colle, e ne fanno strage; ed anche gli altri reparti di ala si sostengono con successo. Nel fitto della mischia cadono fulminati ras Gabeiù e molti altri capi scioani, determinando il panico e lo sgomento nelle file nemiche; e Albertone, raggiante, le rincalza e si dispone già ad inseguirle sperando di essere sostenuto dall’atteso arrivo delle altre brigate; ma la sua speranza rimase delusa. Gli Abissini apostrofati dai capi e incoraggiati dalla conoscenza ormai piena delle poche forze che hanno di fronte, si rinvigoriscono e ritornano all’assalto; e mentre con oltre 10,000 uomini ritentano di sfondare la posizione del colle, da Abba Carima e dal Latzate con una altra massa quasi doppia e sostenuta dall’artiglieria della regina Taitù, irrompono improvvisamente contro l’ala sinistra della brigata indigeni, respingendola fin contro le falde del Semaiata. Poco appresso un’altra valanga nemica di oltre 35,000 uomini, da una depressione tra i monti Gususò e Nazraui, precipita in basso dalla destra, e rovesciando l’altra ala della brigata, va a puntare verso il Raio e verso il Rebbi Arienni. All’urto improvviso di tante forze, la brigata indigeni oppone un’accanita resistenza tirando a salve ed a mitraglia e contrattaccando con spessi assalti alla baionetta; ma in questa lotta disperata subisce grandi perdite che cominciano a produrre qualche disgregamento e sbandamento tra le file. Il 7° e l’8° battaglione resistono ancora fin verso le ore 11, ma poscia, avendo perduti quasi tutti gli ufficiali, sono sopraffatti e travolti dall’immensa fiumana che li avvolge; lo stesso fa il 6.° battaglione qualche minuto dopo; l’artiglieria invece non vuol saperne di ritirata. Essa continua il suo fuoco micidiale finché i 14 pezzi hanno esaurito tutte le munizioni; e poscia lotta a corpo a corpo e non s’arresta e non li cede se non quando è rimasta quasi completamente priva d’ufficiali, di serventi e di quadrupedi. Alle 11 1/2 la brigata Albertone era completamente disfatta ed i suoi avanzi laceri e scompigliati, privi del Comandante rimasto prigioniero in prima linea, e della maggior parte dei graduati, morti sul campo, seguirono le orme dei superstiti del battaglione Turitto verso il Raio e verso Saurià. * * Mentre la brigata Albertone sosteneva da sola l’urto delle masse scioane provenienti dalla conca d’Adua, intorno al Raio ed al Rebbi Arienni si stavano schierando le due brigate Arimondi ed Ellena. Si è già detto che verso le ore 8 1/4 Baratieri aveva ordinato ad Arimondi di portarsi colla sua brigata per l’insellatura tra i monti di Belàh ed il Raio, ad occupare la testata di essa appoggiandosi alle alture laterali. Questa piccola brigata disponeva soltanto di due battaglioni bersaglieri (reggimento Stevani) di due battaglioni fanteria (reggimento Brusati) e di una batteria di 6 pezzi (Loffredo), avendo già distaccato sui monti d’Esciascio il 4.° battaglione (De Amicis) e la compagnia indigeni del capitano Pavesi che non poterono più congiungersele, e non essendo allora ancora arrivata la batteria Franzini da Mai Maret assegnata alla stessa. Contava in tutto soltanto 1773 fucili e 6 pezzi d’artiglieria; e con questa esigua forza si apprestava a sostenere la ritirata della brigata Albertone e l’urto centrale delle enormi masse scioane. In pari tempo la brigata Ellena forte di 4150 fucili e 12 cannoni a tiro rapido, prendeva posizione di riserva tra il Raio e il Rebbi Arienni col 4.° reggimento (Romero) presso questo colle, ed il 5.° (Nava) dietro le falde nord-est del Raio. La fronte assegnata alle due brigate era di quasi tre chilometri; cioè la stessa fronte, che secondo il primitivo disegno di battaglia, avrebbe dovuto essere occupata dall’intero corpo di operazione. La testa della brigata Arimondi giungeva all’estremo sud dell’insellatura predetta verso le ore 9 circa, ed era guidata dallo stesso Baratieri che faceva disporre il 2.° battaglione fanteria a destra sul pendio dei Belàh, ed il 9.° a sinistra sopra una scarpa prominente del Raio; quasi al centro tra essi prendevano posto la batteria ed il quartiere generale. Era appena compiuto lo schieramento di questi pochi reparti, che si videro comparire sul davanti gli avanzi scompigliati del battaglione Turitto, inseguiti e cacciati in fuga da manipoli d’Abissini che sbucavano da tutte le parti, strisciando tra i massi ed i cespugli che coprivano il terreno, frammischiandosi ai vinti e uccidendoli senza pietà. I due battaglioni e la batteria iniziarono subito il fuoco; ma il timore di colpire anche i nostri ascari rendeva il tiro debole ed inefficace. Invano risuonarono nella vallata i segnali di tromba per soffermare e raccogliere i fuggiaschi, ed invano Baratieri spedì ufficiali e reparti ai piedi del Raio per richiamarli intorno a sè; quegli avanzi laceri e demoralizzati correvano all’impazzata imboccando il colle tra il Caulos ed il Raio, e si disperdevano in direzione di Saurià trascinandosi dietro dei nuclei di nemici, che riuscivano ad annidarsi nel piano di Gandapta, dietro il Raio. Intanto sulla linea dei Belàh davanti al Raio veniva schierandosi anche il reggimento bersaglieri di Stevani, e l’inseguimento potè essere arrestato, ma per breve tempo. Indi a poco ai fuggiaschi del battaglione Turitto cominciarono a far seguito i feriti e gli sbandati degli altri reparti indigeni; ed alle loro calcagna apparve furiosa la grande massa nemica di sinistra discesa da Abba Carima e dal Latzate, che in parte si precipitò contro il Raio ed in parte riescì ad annidarsi nella valle del Mai Avollà, minacciando il fronte e il fianco della nostra posizione. Il combattimento si accende tosto vivissimo su tutta la linea, ma specialmente sulla sinistra. Quivi s’addensano le maggiori frotte nemiche, e in breve le condizioni del reggimento Brusati e della batteria si fanno critiche, così che Baratieri è costretto a chiamare in loro soccorso dalla riserva il battaglione Galliano e le due batterie a tiro rapido del maggiore De Rosa. Ma, a far peggiorare le sorti italiane, ecco apparire improvvisamente da ovest e nordovest la grande valanga scioana discesa sulla destra dei nostri indigeni, la quale dopo aver urtato e distrutto un battaglione di Da Bormida (battaglione De Vito) sfilando sui fianchi del monte Derar, precipita quasi inosservata in fondo alla valle, donde muove all’assalto e all’aggiramento delle nostre posizioni e va ad impegnare anche il 4.° reggimento (Romero) allo stesso colle del Rebbi Arienni. Invano a questa fiumana nemica s’oppone il colonnello Stevani, inviando il tenente colonnello Compiano con 2 compagnie ad occupare lo sperone di Belàh sulla sua destra e davanti al colle, ed invano anche il generale Ellena manda in aiuto dei bersaglieri il 15.° battaglione (Ferraro) del reggimento Nava. Sull’altura maledetta e nei suoi fianchi è appostato già il nemico, e vi possono giungere soltanto una quarantina di bersaglieri col Compiano stesso e col capitano Fabbroni che, colpiti da tutte le direzioni e quasi a bruciapelo, vi lasciano miseramente la vita. I resti delle due compagnie ed il 15° battaglione furono costretti a ripiegare. L’occupazione di questo sperone per parte dei nemici ebbe un effetto disastroso per le nostre truppe, che si videro minacciate di aggiramento da tutte le parti, e costrette a rivolgere la fronte su tre lati, cioè sul davanti e sui due fianchi; ed anche a tergo di monte Raio si manifestavano già gli attacchi degli Scioani ivi penetrati nell’inseguire gli indigeni fuggenti, impegnando alcuni reparti del reggimento Nava. Tuttavia si continuava a combattere strenuamente, specialmente sulla sinistra per parte del 2.° e del 9.° battaglione, del reggimento Brusati, e della batteria Loffredo. Quivi frattanto giungevano i rinforzi chiesti, cioè il grosso battaglione di Galliano, con circa 1150 fucili, e le due batterie a tiro rapido del maggiore De Rosa; ma mentre i battaglioni bianchi e le batterie si sostenevano eroicamente, e sul davanti i bersaglieri di Stevani facevano sforzi disperati di resistenza, il celebre battaglione indigeno di Makallè resisteva poco più di 20 minuti e poi si sbandava, lasciando i proprii ufficiali a morire sul Raio (ore 10 l/4 a 10 1/2). Ignaro di quanto avveniva sul fianco e a tergo delle brigate, perchè l’aggiramento pronunciatosi rendeva difficili le comunicazioni fra i reparti, Baratieri chiedeva altri rinforzi alla riserva, ma potè solo ottenere 5 compagnie, cioè il 16° battaglione (Vandiol) ed una compagnia d’Alpini. Il colonnello Nava si pose bravamente alla testa di esse e le condusse ordinatamente combattendo verso la posizione di sinistra. Ma questa frattanto si era fatta insostenibile. La disfatta già completa della brigata Albertone, verso le 11 1/2 aveva rovesciato contro le nostre posizioni un’altra massa nemica che premeva, assaliva ed avvolgeva da tutte le parti; nè gli eroici sforzi fatti dal 9° battaglione che rimaneva quasi distrutto e perdeva tutti gli ufficiali meno uno, e dal 2° battaglione e dalle tre batterie che lottavano ormai corpo a corpo col nemico, salito già sulle alture e penetrato tra i pezzi, erano insufficienti a trattenere l’urto dell’immensa orda scioana; ed anche sul fronte i bersaglieri di Stevani, sopraffatti dai nemici sbucanti dal vallone del Mai Avollà e colpiti di fianco da quelli appostati sullo sperone di Belàh, ripiegavano già. Baratieri, viste ormai disperate le sorti della battaglia, verso le 12 ordinava la ritirata. Un urlo tremendo e feroce si leva allora da tergo; il nemico imbaldanzito e trionfante si lancia tosto all’assalto delle posizioni e dei pezzi (tra i quali cade gloriosamente il generale Arimondi) e se ne impadronisce; e perfino l’11a batteria (Franzini) giunta in quel momento da Mai Maret, dopo aver fatto un sol colpo e perduto subito il suo comandante, viene nelle loro mani; si getta poi all’inseguimento dei superstiti e di Baratieri, che tenta di riannodare qualche resistenza pugnando bravamente, ma è costretto a ripiegare dietro il Rebbi Arienni, inseguito e fulminato da presso, e trascinando seco le 5 compagnie del colonnello Nava accorse in suo aiuto4. Quivi rimaneva ad ultima difesa l’eroico reggimento Romero, che malgrado le grandi perdite subite in più di 2 ore di accanito combattimento, facendo sforzi disperati di valore, permise che la ritirata avvenisse per qualche chilometro ancora in buon ordine. Ma verso le 12 1/2 anche quest’ultimo conato della gran lotta doveva cessare: il bel reggimento già sopraffatto e mezzo distrutto, e privato dell’eroico suo comandante, venne anch’esso travolto. Allora l’aggiramento fatto completo, essendo preclusa ogni altra via di ritirata, costringeva i laceri avanzi delle due brigate ad aprirsi un varco verso nord-est, e ad internarsi lungo il triste vallone di Jehà dove aspettate al varco ne succedeva un efferato macello, e donde dopo infiniti stenti e perigli e tra continue lotte, agguati e rappresaglie di nemici e d’insorti e mille episodi strazianti di valore, di cameratismo, d’affetto e di pietà, ben pochi potevano riparare entro i vecchi confini della Colonia, dirigendosi a Adi Caiè, ad Asmara, o ad Adi Ugrì. *** Intanto che la brigata indigeni e quelle centrali combattevano eroicamente e poscia soccombevano schiacciate dall’enorme preponderanza scioana, isolata sull’estrema destra la brigata Da Bormida sosteneva una lotta brillante contro poderose forze nemiche. Si è già detto che questa brigata verso le ore 7 si era avanzata oltre il Rebbi Arienni collo scopo di appoggiare quella di Albertone, e che dopo circa due ore di marcia, attratta dal terreno e dallo svolto della via era penetrata in un’ampia valle, in fondo alla quale presso un’amba solitaria, apparvero vasti accampamenti nemici. La strada percorsa dalla brigata Da Bormida è la così detta grande via di Adua, la quale discende ripida e rocciosa dal colle di Rebbi Arienni dirigendosi prima tortuosamente verso ovest rinserrata tra i monti di Belàh e quelli d’Esciasciò, e poscia giunta contro i fianchi orientali di monte Derar, ripiega verso nord risalendo e fiancheggiando le alture di destra, donde per un altro colle ridiscende e sbocca, ancora verso ovest, nella bella vallata di Mariam Sciavitù. Questa vallata dista di circa 6 Km. ad ovest del Rebbi Arienni, è larga dai 700 agli 800 metri e lunga circa tre Km; sulla sinistra, sud, è limitata da fianchi ripidi e scoscesi dei monti Derar, Nasraui e Gususò terminanti a speroni a balze e nude creste, che li rendono quasi impraticabili; e a destra dalle diramazioni occidentali dei monti d’Esciasciò. Il fondo della vallata è più basso verso sinistra ove è percorso da un piccolo rigagnolo, a tratti paludoso, e coperto da folte macchie; a destra invece, nella sua parte più larga si innalza a leggero pendìo di gradini sovrapposti. Il suolo è fecondissimo e coperto, specialmente in basso, di folte erbe alte più di un uomo; nella zona più elevata è sparso di piante e di cespugli; e ne abbondano anche sulle alture di destra. La brigata verso le 9 1/2 si era appena ammassata in posizione d’aspetto sul principio della vallata, quando un vivo crepitìo di fucilate dalle alture di sinistra venne a scuoterla. Era il battaglione di milizia mobile del maggiore De Vito, già distaccato in avanguardia insieme alla compagnia del Chitet di Asmara, che aveva urtato contro gli Scioani. Questo battaglione aveva preceduta la brigata nella discesa dal Rebbi Arienni, ed arrampicandosi pei fianchi di Monte Derar aveva proseguito lungo la dorsale delle alture che rinchiudono verso nord la vallata di Mariam Sciavitù, appoggiando ad essa la compagnia del Chitet. Quindi, mentre questa spintasi quasi nella conca d’Adua, veniva assalita e ricacciata quasi distrutta nella vallata, si era diretto, attratto dal cannone, verso la brigata indigeni; ma nell’eseguire il movimento urtò nella grande massa scioana che proprio allora irrompeva sul fianco destro di detta brigata; e dopo una lotta accanita in cui caddero eroicamente il Maggiore stesso e la massima parte degli ufficiali, fu costretto a ritirarsi precipitosamente disordinato ed inseguito, cercando rifugio verso la valle di Mariam Sciavitù. Il generale Da Bormida intuì subito la situazione e dispose che il 3° reggimento (Ragni) muovesse in soccorso del battaglione d’avanguardia, intanto che il 6° reggimento (Airaghi) e le batterie rimanevano in riserva al principio della vallata. Il Colonnello Ragni prese con sè 6 compagnie del suo reggimento (6.° battaglione e 1a e 4a compagnia del 10°) e salì con esse arditamente sulle alture di sinistra, facendosi secondare nel movimento dalle altre 6 compagnie lasciate nel piano (5° battaglione e 2.a e 3.a compagnia del 10.°). Egli era appena giunto alla sommità, ove erano sparsi alcuni tucul o capanne abbandonate, che potè vedere nell’altro versante i tristi avanzi del battaglione De Vito ritirarsi, inseguiti dai nemici furenti che ne facevano strage. Senza por tempo in mezzo Ragni ordina l’assalto, e ponendosi alla testa delle sue sei compagnie, per ben due volte le guida imperterrito alla baionetta, riuscendo ad arrestare il nemico, e costringendolo poi col fuoco a riparare dietro ad uno sperone diagonale, protendentesi verso lo sbocco della vallata nella conca d’Adua. Così i pochi superstiti del battaglione De Vito poterono rifugiarsi sulle alture di destra della vallata, congiungendosi cogli avanzi della compagnia del Chitet quivi raccolti. Ma frattanto anche verso il fondo della vallata, tra le folte erbe ed i massi, cominciò a notarsi l’avanzare insidioso e nascosto di gruppi nemici tra cui scorazzavano anche numerosi cavalieri. Da Bormida fece tosto avanzare l’artiglieria ed un battaglione (14°) del reggimento Airaghi all’altezza della posizione del colonnello Ragni, e quivi li schierò bravamente in battaglia, mentre il 3° e 13° battaglione rimanevano in riserva. Erano circa le 11 e questo schieramento era appena terminato che il nemico appiattato nel fondo e sui fianchi della vallata, scoprendosi e urlando ferocemente, si avventava in massa contro le nostre truppe, preceduto da qualche centinaio di cavalieri che minacciavano più specialmente le artiglierie. Ma nè l’assalto numeroso e compatto, nè le grida furenti e selvagge, valsero a smuovere di un passo le nostre truppe bianche che alzatesi in piedi e secondate anche dalle truppe di Ragni sui fianchi delle alture, accolsero gli Scioani con ripetute scariche a salve ed a mitraglia, costringendoli a ripiegare decimati. Un fremito di gioia percosse l’intera brigata; quel primo successo infiammava gli animi alla vittoria ed eccitava fra le nostre truppe il più grande entusiasmo. Il combattimento proseguì ancora, ma si fece più lento e poco micidiale, quantunque il nemico avesse appostato ed impiegasse da un’altura di sinistra alcuni pezzi d’artiglieria. Ma frattanto un altro serio avvenimento si pronunciava da tergo. Quivi il maggiore De Amicis, col suo 4.° battaglione e colla compagnia indigena del capitano Pavesi, era stato distaccato dalla brigata Arimondi a guardia del fianco destro sui monti d’Esciasciò, ed aveva occupato un poggio dominante sulla via del Rebbi Arienni; ma vistosi isolato dalla sua brigata, aveva pensato di secondare il movimento scendendo nella vallata e ponendosele in riserva. Se non che, appena compiuta la discesa, si accorse che numerosi gruppi nemici giravano attorno a quella posizione per occuparla e minacciare da tergo la brigata. Ritornò allora il maggiore De Amicis sui suoi passi, ma quando stava per giungere al poggio, fu accolto da fucilate per parte di Scioani che lo avevano già occupato, e dovette riparare obliquando e combattendo dietro un recinto a secco di un’altra altura, dove malgrado coraggiosi sforzi, venne ben presto a trovarsi in critica condizione. Questa prima minaccia a tergo della brigata impressionò il generale Da Bormida, il quale per disimpegnare il battaglione De Amicis ed assicurarsi la via della ritirata, gli spedì in aiuto tre compagnie del 13° battaglione (Rayneri). Gli sforzi riuniti ed i vivaci assalti del 4.° e del 13.° battaglione riuscirono allora a sloggiare dalle alture dominanti i grossi stormi nemici che vi si erano annidati, ed a ricacciarli verso il Rebbi Arienni. E fu buona ventura, perchè se il nemico riusciva a rafforzarsi in quella posizione a tergo, mentre di fronte e sui fianchi si pronunciavano già dei poderosi attacchi avvolgenti, la brigata da Bormida sarebbe rimasta rinchiusa in un cerchio di fuoco senza alcuna speranza di salvezza. Il combattimento che dopo i primi assalti parve languire fin verso il mezzo giorno, fu dopo quest’ora ripreso più forte ed accanito. Una parte della nostra artiglieria si è spinta sulle alture di sinistra dove ha trovato un’ottima posizione pei suoi tiri e donde produce nel nemico che si fa più fitto delle grandi perdite. Anche il 3° battaglione già di riserva è chiamato in linea verso il centro; sulle alture di destra seconda il movimento e comincia ad impegnarsi contro masse aggiranti anche la compagnia indigena Pavesi, alla quale si sono uniti un centinaio di superstiti della compagnia del Chitet e del battaglione De Vito. Incominciano i brillanti assalti. Airaghi del piano e Ragni dalle alture, ponendosi alla testa delle rispettive truppe e preceduti dal generale stesso, sempre in prima linea, le trascinano con mirabile slancio alla baionetta, e l’artiglieria li segue di posizione in posizione fulminando con colpi bene aggiustati le masse nemiche, le quali però non vogliono cedere. Da Bormida ordina un secondo assalto generale verso le ore 13 e questa volta riesce a spaventarle ed a metterle in iscompiglio ed a costringerle a ritirarsi precipitosamente al fondo della valle decimate dal fuoco ed in alcuni punti dalla lotta corpo a corpo. «Vittoria Vittoria» si grida tra i nostri col più grande entusiasmo; ed i reparti si riordinano, si fanno più compatti, riempiendo i vuoti fatti dalle perdite, e riversano impavidi delle tremende scariche sul nemico fuggente che lascia il suolo coperto di cadaveri. Fu questo il momento più bello e più solenne per la brigata, ma fu breve. Gli animi erano ancora esaltati dall’entusiasmo del successo quando si manifestò improvviso un poderoso attacco nemico da tergo. Erano le grandi masse vittoriose del Raio e del Rebbi Arienni che dopo l’eccidio delle brigate italiane del centro venivano a riversarsi contro quella di Da Bormida, impegnando fieramente i battaglioni De Amicis e Rayneri ed aggirando il fianco del colonnello Ragni. Davanti a questo evento pericoloso e improvviso Da Bormida, che nulla ancor sapeva del comando in capo e delle catastrofe delle altre brigate, dovette pensare a cambiare la fronte di combattimento della sua. A tale scopo fece ripiegare due batterie ed il 3° battaglione mandandoli ad occupare un altura a cono elevantesi sul fianco destro, (nord) della vallata, coll’incarico di fronteggiare l’imboccatura di questa e di difendere un’altra valletta ad imbuto che s’apriva lateralmente ai piedi dell’altura stessa, e per la quale si poteva trovare una seconda via di ritirata a traverso i monti Esciasciò. Anche il colonnello Ragni dovette ritirare l’ala sua sinistra e fronteggiare le masse nemiche provenienti da sud. Così la linea di combattimento della brigata venne a disporsi su tre fronti: cioè verso ovest contro la conca d’Adua, verso sud contro i monti di sinistra della vallata, e verso est contro l’imboccatura della stessa. Contemporaneamente dalle alture a nord della vallata, costituenti il tergo della nuova fronte di combattimento, gli indigeni del capitano Pavesi erano costretti a ritirarsi davanti a masse aggiranti di ras Alula. In breve la mischia si fa tremenda da tutte le parti. Dai fianchi dell’altura a cono le due batterie sostenute in basso dal 3° battaglione ed in alto dal 4° e 13° riescono a battere le orde nemiche ed a far sgombrare per un buon tratto l’imboccatura della vallata; ma sul fronte sud, verso le alture di sinistra, e su quella ovest, verso Adua, il nemico si addensa sempre più ed imprende anche uno spostamento aggirante verso le alture di destra per minacciare l’unica via che sia rimasta di ritirata. Da Bormida, Ragni ed Airaghi tentano ogni mezzo per difendersi e romper il cerchio di fuoco che li avvolge e li bersaglia da tutte le parti, e la vallata rimbomba di scariche assordanti, di grida bellicose, e di comandi e segnali, offrendo lo strano spettacolo di un esile brigata ridotta a poco più di 3000 uomini, che resiste e tiene a bada tenacemente, efficacemente, per lungo tempo un nemico dieci volte maggiore. Ma le condizioni si fanno sempre più critiche, e Da Bormida, sentendosi ormai isolato dalle altre brigate ed avendo perduto ogni speranza di aiuto dal comando in capo è costretto a provvedere alla ritirata. Prima però di iniziarla egli tenta uno sforzo disperato. Mentre le truppe di Ragni ripiegano, combattendo, in basso, e mentre dall’altura a cono e dal poggio d’Esciasciò l’artiglieria, il 3° il 4° e il 13° battaglione tengono a bada il nemico loro di fronte con un fuoco formidabile, nel piano Da Bormida percorrendo tra le truppe fronteggianti verso lo sbocco della valle, le anima, le scuote, e con parole vibrate, le incuora all’assalto; quindi postosi alla loro testa, coll’elmetto in mano e colla sciabola sguainata, seguito da Airaghi, le trae impetuosamente all’assalto facendo ancora una volta ripiegare verso Adua la massa nemica. Aprofittando allora del largo fatto. Da Bormida ordina la ritirata, e la gloriosa brigata che ha già perduto quasi metà de’ suoi combattenti e la maggiore parte degli ufficiali, inizia ordinatamente questo movimento per la valletta laterale ad imbuto che sale ai monti d’Esciasciò. Sul ripido sentiero che tra massi e gradoni si inerpica dalla valletta all’aspra giogaia, preceduti dal 3° reggimento, ed inseguiti da numerose frotte nemiche aggiranti, a poco per volta si incolonnano a scaglioni tutti i reparti, difendendosi di appostamento in appostamento e contrattaccando spesso colla baionetta; ed intanto dall’alto provvidenzialmente il 4° ed il 13° battaglione resistono ancora. Durante la salita l’artiglieria riesce ancora per due volte a prendere posizione ed a fulminare il nemico, che ormai ha compiuto il suo aggiramento da tutte le parti; ed Airaghi in coda compie prodigi di valore per coprire la ritirata; ma tutti gli sforzi sono vani. Come belve assetate di sangue e di vendetta, le orde abissine si lanciano in massa sulle tristi pendici d’Esciasciò, e dopo aver oppresso il 13° e quasi distrutto il 4° battaglione, si avventano ai fianchi ed alla coda della vinta brigata, fulminandola da tutte le parti, investendola ad arma bianca e producendovi lo sfacelo. Airaghi, Da Bormida, De Amicis e la maggior parte degli ufficiali muoiono da eroi sul campo; le artiglierie, orbate di graduati di serventi e di quadrupedi, divengono preda del vincitore, ed il triste spettacolo dei vani sforzi e degli efferati eccidii prostra gli animi ed affievolisce le resistenze. Sopraggiunta la sera ed un provvido acquazzone, cessarono gli estremi conati della gloriosa brigata Da Bormida e incominciava il triste esodo dei pochi superstiti, che in parte sotto Ragni si dirigevano fra mille stenti verso Zaià, ed in parte calcarono le altre vie già percorse da quelli delle brigate sorelle. Tutto era perduto. *** L’inseguimento degli Abissini contro i superstiti del corpo d’operazione italiano non durò più di 10 o 15 chilometri; poscia questi in sul far della notte furono abbandonati a se stessi ed alle feroci rappresaglie delle popolazioni insorte e dei ribelli, per avvertire i quali furono accesi dei grandi fuochi su tutte le alture circostanti. Mentre poi il grosso dell’esercito scioano sostava a tripudiare ed a gozzovigliare colle proprie megere sul campo di battaglia infierendo barbaramente sui caduti che eviravano e bruciavano ancora caldi e vivi, portandone in trionfo le vesti, le armi e le carni lacere e sanguinanti, altri stormi di fanti e cavalieri, unitamente ai ribelli dell’Agamè davano l’assalto alle salmerie raccolte dietro il colle di Zalà. Quivi il maggiore Angelotti nel pomeriggio del 1.° e nella notte seguente coi pochi armati disponibili tentò bravamente di difendersi; ma tradito e abbandonato dai conducenti indigeni, che scaricando i muli fuggivano sovra di essi, ed in breve sopraffatto e minacciato da tutte le parti, fu costretto a ripiegare disordinato verso Mai Maret, perdendo uomini e quasi tutto il carico. Nè alcuno aiuto potè quivi avere dal reggimento del colonnello Di Boccard, il quale dopo aver appresa la disfatta del corpo d’operazione essendo rimasto senza ordini e senza notizie del comando in capo, ed ignorando la via di ritirata dei superstiti, per evitare il pericolo di rimaner circondato e bloccato, verso le 12 del giorno 2 si era ritirato verso Adi Caiè. Prima di compiere questo movimento il colonnello Di Boccard propose al maggiore Prestinari l’uscita dal presidio e l’abbandono del forte di Adigrat, per ritirarsi insieme; ma la proposta non fu accettata perchè, unanimamente, il consiglio di difesa del forte e tutti gli ufficiali vi si dichiararono contrari, non volendo abbandonare i numerosi feriti ivi esistenti, che sarebbe stato impossibile di trasportare. Nei giorni 3 e 4 del mese di marzo, la maggior parte dei superstiti, compreso il Comandante in Capo ed il generale Ellena, ferito, nonchè la colonna Di Boccard, ed il battaglione Ameglio proveniente da Adiqualà, ed il 17.° battaglione già distaccato a Barachit si concentravano ad Adi Caiè, donde veniva telegrafato all’Italia la notizia della tremenda catastrofe. **** La battaglia d’Adua fu uno dei più grandi fatti d’arme coloniali che sieno mai avvenuti. La storia offre ben pochi esempi di una lotta che, in relazione al numero dei combattenti, abbia dato dei risultati così micidiali. Sopra 10,450 italiani e 7000 indigeni circa, di cui componevasi il corpo d’operazione italiano, restavano morti circa 4600 dei primi e 2000 dei secondi. Si ebbero inoltre 461 feriti bianchi e 958 indigeni, e oltre a 1500 prigionieri presi colle armi alla mano sul campo di battaglia. Furono tra i nostri morti i generali Da Bormida e Arimondi e i colonnelli Romero, Airaghi e 264 altri ufficiali.5 Tra i feriti, ad eterna infamia di Menelik e dei ras suoi seguaci, si ebbero 30 italiani ed alcuni indigeni evirati, e 406 altri di questi, fatti prigionieri, per sentenza del Negus stesso, furono mutilati della mano destra e del piede sinistro, e quindi lasciati in libertà senza alcun soccorso tra i più atroci spasimi6. Insieme alle perdite d’uomini si ebbero anche quelle di molte armi e munizioni, di 56 pezzi d’artiglieria e di quasi tutte le salmerie. Ma anche dalla parte del nemico, secondo le risultanze più attendibili, le informazioni raccolte dai nostri prigionieri e dai rappresentanti esteri allo Scioa, e secondo le pubblicazioni più degne di fede nazionali ed estere, le perdite furono grandissime e non minori di 10,000 feriti e 7000 morti tra i quali ultimi il celebre ras Gabejù, il vincitore di Amba Alagi, molti fitaurari e degiac tutti grandi capi militari, oltre ad un’infinità di altri capi e sottocapi minori. Questi sanguinosi risultati avveratisi da ambo le parti, provano anzitutto che se l’esercito abissino, e nessuno lo può negare, era composto di gente forte, audace e coraggiosa, il corpo d’operazione italiano combattè con un accanimento e con un valore molto maggiore. Nessuno esempio offre la storia di un piccolo esercito di 17,000 uomini che, come il nostro, abbia resistito e sostenuto per parecchie ore un’urto così grande come quello dell’immensa orda scioana combattente ad Adua, e che anche restandone soprafatto e schiacciato, abbia tuttavia potuto produrre delle perdite così enormi. Da ciò risulta chiaro, a base d’aritmetica, che se coi nostri 17,000 uomini furono messi fuori di combattimento circa 17,000 nemici malgrado i coefficienti negativi dell’aggiramento e della disfatta, con altrettanti italiani quanti quasi erano i rinforzi allora in viaggio dall’Italia per l’altipiano etiopico, e coi coefficienti positivi di una vittoria in tal caso indubitabile, si avrebbe potuto distruggere quasi tutto l’esercito scioano. Del resto che le perdite abissine sieno state rilevantissime e quasi disastrose, oltrechè dalle dichiarazioni, dagli scritti e dalle comunicazioni sopradette anche per parte dalle fonti più avverse all’Italia è stato comprovato dal fatto che il Negus, malgrado i risultati decisivi di una vittoria, non si trovò poi in grado di aproffittarne, e fù impotente a proseguire nell’inseguimento dei vinti e nella sua marcia d’invasione nella nostra colonia, ciò che fatto subito, in quelle disastrose condizioni, e mentre che poche altre truppe sarebbero state pronte a difenderla, avrebbe cagionato l’estrema sua rovina. Fu dunque biasimevole ed ingiusto il successivo procedere del generale Baratieri (ed egli stesso poi se ne pentì) quando nel telegramma con cui annunziava all’Italia il disastro, incolpava le nostre truppe di poco valore e di poca resistenza. Ed invero non meritava una tale offesa quel piccolo esercito che, seguendo i suoi comandi, e tratto senza giusti criteri tattici ad una lotta cotanto disuguale, aveva lasciato, pugnando disperatamente, quasi 7000 morti sul campo di battaglia, mentre altri 1500 de’ suoi languivano tra gli spasimi e le torture di una prigionia più angosciosa che la morte, e tanti ancora affluivano ai luoghi di cura a medicare dolorosissime ferite. Può darsi benissimo, ed è naturale, che dopo la disfatta quando le sorti erano già precipitate, quando tutti gli sforzi per la difesa riuscivano ormai vani, che lo spettacolo doloroso degli eccidi e le grida ed i gemiti dei morenti ed il pazzo e feroce infuriare dei nemici abbiano prodotto tra i superstiti dei segni di sfiducia e di scoramento giudicati erroneamente per segni di viltà. La forte tensione degli animi che per tante ore sfidarono il pericolo può aver prostrata la fibra di alcuni, ma non è su questi, ed in quel momento che si deve formulare il giudizio: è là sul Raio tra i 700 caduti coll’arme in pugno, là sul luogo dell’artiglieria d’Albertone donde le anime degli artiglieri italiani inneggiano un peana di gloria; là nella leggiadra valle di Maria Verde (Mariam Sciavitù) ove le ombre gloriose di Da Bormida e Airaghi conversano coi caduti della loro brigata; è là presso il colle del Rebbi Arienni ove intorno a Romero giacciono al suolo tante inanimate spoglie d’eroi, che ebbero la sublime audacia di sbarrare la via ad un’intera armata; è là, si ripete, dove bisogna guardare e dove parla il valore delle nostre truppe; e parla anche tra i superstiti in ritirata che, dopo aver compiuto strenuamente per tante ore il loro dovere, tra mille disagi e mille pericoli, malgrado l’abbandono, sia pure involontario, del comando in capo, si cercano, si congiungono, s’adunano, si difendono, si apprestano reciprocamente le più tenere cure e compiono atti di eroismo e di pietà che nobilitano e fanno santa anche una disfatta. Parlano del valore d’Italia quei quattro cadaveri trovati in un’alta anfrattuosità del monte Raio, i quali prima della loro fine gloriosa davanti al nemico invadente, raccolte delle migliaia di cartucce dai compagni morenti, piuttosto che ritirarsi, si riducevano colassù, sostenendo per tutta la giornata e forse per più giorni una lotta tremenda e senza speranza, finchè esausti dalla fame, e dalle ferite morivano accennando gli ultimi conati della difesa. I soldati del genio che tre mesi dopo andarono a compiere il pietoso ufficio del seppellimento dei morti, trovarono i quattro cadaveri ancora intatti tra un monte di bossoli sparati, ed uno di essi in atto di suprema lotta era ancora avviticchiato al cadavere di un abissino che si era avventurato fin là, e col quale aveva incontrato la morte nell’ultima lotta a corpo a corpo. No, la perdita della battaglia d’Adua non si può attribuire al poco valore delle truppe; ma piuttosto a quella temeraria decisione che trasse un piccolo corpo di circa diciassette mila uomini ad attaccare centomila agguerriti nemici; e poi più specialmente, ed anzi forse assolutamente, a quegli altri malaugurati errori che fecero scindere il piccolo corpo predetto in tre parti slegate fra loro, e ad una alla volta le esposero contro l’intera massa nemica, in tre distinti momenti ed in tre separate località. Questi errori non furono certo commessi dalle truppe; ma anche se fossero derivati in parte, ciò che non è ancora provato, da capi in sottordine, risalgono invece a chi le guidò, il quale doveva evitarli o almeno ripararli. Infatti è opinione generale che la battaglia avrebbe avuto un esito differente e forse lieto per la nostra patria, non soltanto se le quattro brigate fossero state ben dirette e ben condotte sul luogo dell’azione; ma anche se Baratieri avesse saputo approfittare del disvio della brigata Albertone disponendo in tempo, chè tempo c’era, di farla ritirare sotto il Raio, dove avrebbe certamente attratto il nemico già corso alle armi e dove questo sarebbe stato molto probabilmente battuto dalle quattro brigate riunite e ben appoggiate alle forti posizioni; e forse sarebbe stata ancora rimediabile se egli, omettendo la predotta disposizione, avesse almeno curato che la brigata Da Bormida avanzasse poi non obbliquamente a destra nella lontana valle di Mariam Sciavitù, ma dalla parte opposta, cioè obbliquamente a sinistra verso Addi Vecci, ove verso le 9 Albertone stava per trionfare, ed ove, secondo le affermazioni di superstiti e di scrittori autorevoli, e secondo le notizie raccolte di poi da prigionieri, l’apparizione in quel momento di una forte brigata bianca avrebbe potuto concorrere a strappare al nemico la vittoria. Così invece come andarono le cose, cioè con una brigata di 4000 uomini presso Adua che combatte da sola nel mattino contro l’intero esercito etiopico; con altre due brigate di circa 6000 uomini in tutto intorno al Raio, che ne vengono poi sorprese ed urtate non ancora completamente schierate verso il meriggio; e con un’altra brigata di poco più di 4000 uomini isolata a 7 chilometri nell’estrema destra che è costretta a lottare verso sera contro tutto il predetto esercito nemico vincitore e trionfante, non solo era impossibile il vincere, ma anche il fare di più, tanto da truppe italiane che da francesi, tedesche, inglesi o di qualsiasi nazione la più belligera del mondo. * * * ↑ Il 2.º battaglione bersaglieri (Compiano) contava solo 350 fucili, avendo lasciato 115 uomini presso le salmerie. ↑ Questa batteria era distaccata a Mai Maret e potè giungere sul teatro delle operazioni nel mezzo giorno riuscendo a fare un sol colpo. ↑ Presso le salmerie raccolte tra il colle di Zalà ed Entisciò furono lasciati 235 uomini di fanteria e bersaglieri e 1400 conducenti (metà italiani) tutti armati di fucili, non che altri 200 conducenti italiani armati di pistola, e 900 indigeni quasi tutti disarmati in tutto 2735 uomini ed una cinquantina di ufficiali compresi gli ammalati. ↑ La successiva rapida ritirata di Baratieri su Adi Caiè fece da taluni biasimare la sua condotta anche come soldato. Però le testimonianze concordi di superstiti affermano che egli sul campo di battaglia si comportò da valoroso. ↑ Lasciarono la vita sul campo di battaglia i seguenti ufficiali: Maggiori generali — Arimondi, Dabormida. Colonnelli — Romero, Airaghi. Tenenti colonnelli — Menini, Compiano, Galliano. Maggiori — Giordano, Branchi, De-Amicis, Prato, Montecchi, Baudoin, Manfredi, Solaro, Bolla, Ferraro, Vandiol, Viancini, De-Vito, Turitto, Valli, De-Rosa. Capitani — Bassi, Cella, Bianchin, Fabbroni, Marradi, Casardi, Pacca, Fiori, Cotta, Minucci, Rossi, Cristofoli, Segrè, Piazzini, Frigenti, Cerrina, Serventi, Cancellieri, Marchisio, Sini, Messaglia, Sbarbaro, Ciccodicola, Laurenti, Rossi, Passarotti, Castrucci, Aghem, Castellazzi, Ritucci, Palumbo-Vargas, De-Crescenzio, Guerritore, Cunietti, Elia, Pallotta, Cossu, Ghinozzi, Bonetti, Barbanti-Silva, Maggi, Benucci, Long, Bignami, Ragazzi, Zanetti, Verdelli, Cattaneo, Mazzi, Oddone, Olivari, Rossini, Pinelli, Sandrini, Cesarini, Mantini, De-Marco, Bianchini, Mangia, Henry, Aragno, Mottino, Franzini, Fabbri, Masotto, Ferrero, Acerbi, Orefice, Demicheli. Tenenti — Alessandri, Golfetto, Grassi, Mola, Cora, Gaggiani, Gallarini, Guerini, Gonnella, Riva, Del-Cioppo, De-Concilis, Cimberle, Benini, Odero, Nastro, Sansone, Radici, De-Luca, De-Giovanni, Veggi, Becchini, Izzi, Cappetta, Albino, Doneddu, Giliberti, Filippi, Putti, Cossio, Lamberti, Brizio, Gillio, Queirolo, Caravaglia, Taxil, Galimberti, Mula, Peratoner, Dagnino, Migliavacca, Dotto, Pugliesi, Mangot, Benincasa, Lucca, Sansoni, Parodi, Cybeo, Molinari, Albanese, Gastini, Magliocchini, Guareschi, Bessone, Centa, Vischia Compagna, Dina, Mazzoni, Vitali, Valle, Storaci, De-Bonis, Moeali, Vecchi, Carraro, Benedetti, Moschini, Pratesi, Macola, Ugenti, Caputo, Cerimele, Gammarelli, Spacca, Sbrignadello, Rosso, Romagnolo, Pieri, Banti, Bonora, Casalini, Cosa, Schiavon, De-Campora, Landi, Rizzi, Testa, Fusa, Viti, Sostegni, Grazioso Poeti-Marentini, Cucchi-Manni, Rivi, Pacilio, Schellembrid, Cavazzini, Vassallo, Corsini, Sbruzzi, Niccolini, Ferrari, Caffagini, Mora, Emanueli, Uccelli, Pennazzi, Bassi, Maccari, Perle, Pastore, Sironi, Rasponi, Graziadei, Buono, Bastianelli, Boretti, Ainis, Pontani, Saya, Vibi, Garezzo, Grue, Cavallazzi, Ardisson, Chevalley, Barmaz, Cupelli D’Andrea, Maglio, Pucci, Pistacchi, Chigi. Sottotenenti — Quadrio, Vernazzi-Fondulo, Monina, Stockler, Zucchi, Cappa, Marchisio, Baglivo, Biancheri, Beltrami, Ferrari, Zampieri, Vulpiani, Ponzo, Camuzzi, Dania, Trojano, Guerrini, Gagliardini, Lamberti, Pellacani, Della-Torre, Bianchi, Rosati, De-Sanctis, Castano, Ghirelli, Gola, Malagoli, Della-Chiesa d’Isasca, Bertone, Piccinini, Mazzoleni, Cuccati, Castelli, Frigerio, Lombi, Altamura, Micicchè, Viglione, Cuccs, Dorato. Si ebbero pure tra i morti il giornalista Del Valle rappresentante del Popolo Romano, ed il giovane Luigi Bocconi di Milano che accompagnava in touriste la spedizione italiana, e che pugnò con grande valore insieme alla brigata Da Bormida per tutta la giornata. ↑ Questa barbara pena fù proposta dall’Abuna Matheos, in applicazione dei codice abissino detto Feta Nheghest (libro dei re). Note CAPITOLO XX. (marzo-giugno 1896) * * * Effetti della battaglia d’Adua in Italia — Crisi ministeriale — Agitazioni e violenze — Il gabinetto Di Rudinì — Suo programma — Votazione di 140 milioni per continuare la guerra — Baldissera difende la Colonia — Il Negus si ritira — Trattative di pace — Stevani a Kassala — Combattimenti di Monte Mocram e di Tucruf — Baldissera muove alla liberazione di Adigrat — Sua ordinata ed imponente marcia in avanti — I Ras tigrini non ardiscono opporglisi — Sgombro ed abbandono di Adigrat — Liberazione dei prigionieri del Tigrè — Fine della campagna. La notizia della battaglia d’Adua giunse in Italia così improvvisa ed inaspettata, che sulle prime si stentò perfino a credervi. La popolazione ormai avvezza alla lunga inerzia passiva di Baratieri, che aveva stancati i desideri e gli entusiasmi, e d’altra parte ignara delle vere condizioni del nostro corpo d’operazione, che dopo la spedizione di tanti rinforzi riteneva invincibile, credette quasi che i primi telegrammi fossero una manovra di borsa. Ma quando poi la terribile verità fu confermata, il paese sentì una tale scossa violenta che gli tolse perfino la misura del dolore. La tenace opposizione che da qualche tempo era sorta contro la nostra politica coloniale, da taluni combattuta perchè giudicata ingiusta, da altri perchè pericolosa, e dannosa agli interessi della patria, sotto l’impressione del disastro proruppe e trasmodò in modo formidabile. Successero dimostrazioni e tumulti in tutta la penisola, che dettero luogo a scene violente ed a rappresaglie. Mestatori e metingai scesi in piazza a trarre loro pro dalla sventura della patria spingevano la popolazione agli eccessi. Si inveì contro la Colonia, contro coloro che la impiantarono, contro quelli che la ampliarono e contro tutti gli africanisti in genere, e si invocò forte il suo abbandono, ricorrendo per meglio riuscirvi anche ad una sottoscrizione nazionale aperta tra le donne italiane, la quale ad onor del vero non diede grandi risultati nè di firme nè di serietà; il parossismo giunse a tale che si tentò perfino di impedire, in alcuni luoghi, colla violenza, la partenza dei treni che trasportavano nuovi rinforzi nella Colonia. Contro il Governo poi, e specialmente contro i ministri Crispi e Mocenni, ritenuti organizzatori del disastro, e contro Baratieri che ne era stato l’esecutore, non vi fu contumelia od accusa che non fosse lanciata. Fu insomma uno spettacolo desolante, che per fortuna durò pochissimo, ma che tuttavia, in quel momento gettò una luce sinistra sulla nostra patria. È ben vero che la parte maggiore e più sana della popolazione seppe sopportare dignitosamente la sventura nazionale, ed abbondarono i nobili esempi di forza d’animo e di patriotismo, non soltanto fra gli uomini ma anche tra le donne, molte delle quali e mogli e madri di soldati morti od in pericolo nella Colonia, si rifiutarono alla predetta sottoscrizione, respingendola con frasi inspirate ai più nobili ed alti sensi. Ma queste virtù dignitose e silenziose erano sopraffatte dal chiasso violento della via. Nè va scordato il santo impulso della pietà che fece vibrare tanti cuori. Si istituirono dei numerosi comitati di beneficenza, presieduti dalle persone più nobili d’ambo i sessi, ed in unione alla benemerita Croce Rossa, si raccolsero in breve tempo vistosi soccorsi per le famiglie dei morti e pei feriti, nonchè per i poveri prigionieri che in numero di circa 1500, laceri e scalzi ed in gran parte feriti, venivano spinti come bestie, con un pugno di orzo o ceci abbrustoliti per sostentamento, a preparare l’ingresso trionfale di Menelik ad Adis Abeba. Al gabinetto Crispi, che dovette dimettersi in seguito alle manifestazioni ostili del paese, il 15 marzo, successe quello formato dal generale Ricotti, che ne diede la presidenza al marchese di Rudinì. Questi, nella seduta del 17 espose subito alla Camera il suo programma relativo all’Africa, annunciando che il Governo avrebbe continuato nelle trattative di pace già iniziate dal Ministero dimissionario, ma che per ottenere dei patti onorevoli e decorosi per l’Italia, aveva frattanto determinato di continuare le ostilità, chiedendo all’uopo un credito di 140 milioni, in parte per soddisfare agli impegni assunti negli ultimi gravi momenti, ed il resto per provvedere alle esigenze della situazione. Il Presidente del Consiglio dichiarò inoltre che per conto suo era pronto a rinunziare definitivamente al Tigrè ed al protettorato etiopico, e tornò a ribadire il suo concetto antico di una politica coloniale di raccoglimento, lasciando anche intravvedere la possibilità di un prossimo abbandono di Kassala. Queste dichiarazioni furono una pillola amara per quella Camera che poco prima aveva votato la guerra per la difesa ed il mantenimento del Tigrè; tuttavia il programma del Governo ed il suo credito furono approvati. Il generale Ricotti, assunte con mano energica le redini della guerra, diede subito un grande impulso alle operazioni militari, e mentre sollevava gli animi sconfortati proclamando in pieno Parlamento che le truppe d’Adua avevano dimostrato ad esuberanza il loro valore, rimanendo per due terzi sul campo di battaglia, e dichiarando che egli si riterrebbe fiero di poterne comandare in guerra delle consimili, esercitava la massima severità verso il generale che le aveva condotte al disastro, sottoponendolo al giudizio di un Tribunale di guerra. Frattanto il generale Baldissera era sbarcato a Massaua il 4 marzo e vi aveva appreso la terribile notizia della battaglia d’Adua, che gli lasciava una delle più tristi eredità: un corpo d’operazione quasi distrutto e cogli avanzi in dissoluzione che si raccoglievano feriti e sbandati in varie località; le altre truppe ancora poco organizzate e dibattentisi fra mille difficoltà, e sotto l’impressione del disastro; un presidio di 2000 uomini assediato in Adigrat ad una enorme distanza; l’immenso esercito abissino che da Adua si era già avanzato fino a Mai-Ciò e ad Entisciò donde, spingendo avanguardie verso il Belesa e verso Gundet, minacciava di procedere verso Gura nell’interno della vecchia Colonia; il fermento e le sollevazioni nell’Okulè-Kusai e nel Seraè, e Kassala investita dai Mahdisti. Era lo sfacelo che minacciava l’Eritrea. Tale stato di cose deve ben aver impressionato il nuovo Governatore, che sperava di trovare tutt’altro al suo giungere in Massaua; tuttavia egli non si perdette d’animo, e conscio della sua posizione e della tremenda responsabilità che pesava sopra di lui, si diede con tutta l’attività delle sue forze e del suo ingegno a scongiurare il pericolo che minacciava l’esistenza stessa della Colonia. D’ordine del Governo egli inviò subito il maggiore Salsa per intavolare trattative di pace col Negus, ma tutt’altro che fiducioso in esse, pensò invece a porsi in grado di respingerlo. Fece perciò ripiegare sull’Asmara le truppe raccolte in Adi Caiè o sparse in altri luoghi di frontiera, lasciando come posti avanzati verso il nemico soltanto i presidi di Saganeiti e di Adi Ugri. Poscia si diede a concentrare tutte le truppe disponibili tra Ghinda e Asmara, quivi raccogliendo anche i superstiti della battaglia d’Adua, dei quali 3260 italiani furono poi inquadrati in nuovi reparti e 3041 indigeni concorsero con nuovi arruolati a ricostituire il 1.° 3.° 6.° 7.° 8.° battaglione indigeni, già rimasti disfatti il 1.° marzo. In pochi giorni così Baldissera potè avere sotto le mani, escluso il presidio di Adigrat e le truppe dislocate verso Kassala, circa 18000 uomini, che scaglionò in una linea di posizioni tra Baresa, Ghinda, Asmara, Sichet e Auscià, coprendo in tal modo efficacemente Asmara e Saati, e sbarrando le vie che per l’altipiano e pel versante orientale conducono da Gura alle predette località ed a Massaua. Si diede quindi alacremente a riordinare i servizi d’intendenza, ed a provvedere per l’arrivo e l’equipaggiamento dei nuovi rinforzi, la maggior parte dei quali, la divisione Heusch, erano già in viaggio dalla fine di febbraio, e 3 battaglioni e 3 batterie erano state da lui chieste dopo il suo arrivo nella Colonia. Ma mentre queste provvide disposizioni riuscivano a migliorare sensibilmente le condizioni militari della Colonia, e le nostre truppe, sotto l’energico impulso del nuovo Governatore, si rianimavano, Menelik arrestò tutto ad un tratto il suo movimento di avanzata verso Gura e, raccoltosi col grosso del suo esercito nel Farras Mai, si disponeva alla ritirata. Egli aveva certamente constatato che, se anche la fortuna lo aveva sorretto ad Adua, non era però più in grado di sostenere un altro sforzo consimile. Le grandi perdite ivi subite, la penuria dei viveri, e la paura delle sagge disposizioni di Baldissera, lo costringevano al ritorno, prima che veramente urgesse la stagione delle pioggie; e le notizie dei grandi rinforzi che appunto in quei giorni sbarcavano a Massaua, devono avergli fatto capire che nella giornata del 1.° marzo non era già stata vinta tutta l’Italia, ma soltanto una piccola parte del suo esercito. Frattanto continuavano le trattative di pace già iniziate da Salsa il giorno 6. Le condizioni che in tal giorno egli potè avere da Menelik imponevano l’abolizione del trattato di Uccialli, lo sgombro immediato di Adigrat, e promettevano pel Tigrè un capo amico dell’Italia che sarebbe stato Maconnen; ma pare che lasciassero dei dubbi sulla concessione della linea di confini del Mareb-Belesa-Muna, nè contenevano la liberazione dei prigionieri. Inoltre furono accompagnate dalle strane pretese di Maconnen che l’Italia non erigesse fortificazioni entro i proprii confini. Naturalmente queste condizioni non piacquero al Governo italiano, il quale alla sua volta domandò che fosse incluso nel trattato l’obbligo per Menelik di rifiutare qualsiasi protettorato di altra nazione europea. Ma il Negus non ne volle sapere; ed in un secondo convegno con Salsa al Farras Mai il giorno 16, stendeva per iscritto presso a poco le stesse sue condizioni predette, apponendo al documento, la firma ed il sigillo imperiale come segno dell’ultima sua volontà. Respinte anche queste dal Governo italiano Salsa ritornò una terza volta presso il Negus per avere nuove condizioni di pace, ma questa volta oltre che ebbe a stentare assai prima di potersi abboccare con Menelik, già in ritirata presso Makallè, vi fu ricevuto in malo modo ed invitato a restituire anche il documento scritto e sigillato consegnatogli il giorno 16; e poichè egli ne era sprovvisto, fu trattenuto prigioniero e lasciato presso Mangascià. Così le trattative di pace furono definitivamente rotte; e non rimaneva che da proseguire le ostilità. Erano frattanto arrivate dall’Italia le truppe di rinforzo della divisione Heusch e gli ultimi 3 battaglioni e 3 batterie chieste da Baldissera, così che si aveva complessivamente nella Colonia una forza di oltre a 41000 uomini. Baldissera pensò tosto alla riscossa e cominciò col provvedere alla liberazione di Kassala il cui presidio versava in tristi condizioni. * L’invasione abissina, contro la nostra Colonia aveva determinato anche l’entrata in campo dei dervisci. Fino dai primi di dicembre 1895 una missione tigrina spedita da Mangascià era andata a stringere accordo con Ahmed Fadil emiro del Ghedaref per spingerlo contro Kassala; e fin da quel tempo anche Osman Digma si agitava nella Nubia minacciando i nostri confini e le nostre tribù a nord di Kassala. Le numerose piantagioni di dura che esistevano intorno a Kassala e specialmente quelle eseguire dal Governatore a Gulusit, Futà e Adarcaiai situate tra alcune diramazioni del Gasc a circa 15 Km. a nord della stessa annunciavano uno splendido raccolto ed avevano eccitato l’avidità dei dervisci che, approfittando dell’occasione propizia, vollero tentare un colpo contro di esse e contro la città. A compiere l’operazione fù designato dal Kalifa l’emiro Ahmed Fadil che nella prima metà di gennaio potè raccogliere nel Ghedaref un corpo di oltre 5000 fucili e 1000 lancie col quale indi a poco mosse verso Kassala. Il 22 febbraio l’avanguardia di Ahmed Fadil attaccava di viva forza i posti italiani a guardia della coltivazioni di Gulusit, rimanendone respinta, e tre giorni dopo tutto il corpo dei dervisci accampava presso le predette località formandovi un grande campo trincerato donde si dava a molestare i dintorni. Le forze italiane che in quel tempo erano scaglionate contro i dervisci consistevano: a Kassala, alloggiato nel forte Baratieri, il 2.° battaglione indigeni, una sezione artiglieria da montagna, un distaccamento di cannonnieri, genio e sussistenza: in tutto 20 ufficiali, 82 uomini di truppa italiana e 1225 indigeni con 6 pezzi d’artiglieria e 4 mitragliere; a Sabderat circa 150 uomini tra fanteria, indigeni, telegrafisti e banda di Ali Nurin; a Ela Dal circa 120 uomini fra irregolari e Chitet; ad Agordat poco più di 300 uomini tra milizia mobile, cannonnieri e bande; a Keren circa 600 uomini di diversa specie. La prima cura di Baldissera fu di disporre che la carovana mensile, che da Agordat doveva recarsi a fornire di vivere e munizioni Kassala, fosse aumentata da 400 a 600 cammelli, e che fosse scortata dalla maggior parte delle truppe scaglionate lungo la via tra le due località. La carovana stessa, appena compiuto il rifornimento di Kassala, avrebbe dovuto ritornare indietro trasportando seco ammalati, feriti e famiglie per sgombrare il forte. Per assicurare questa uscita e per liberare Kassala dall’investimento dei dervisci Baldissera dispose inoltre che un corpo d’operazione composto di 4 battaglioni indigeni (3.° 6.° 7.° 8.°) e di una sezione di artiglieria da montagna, si recasse in soccorso del maggiore Hidalgo, e ne affidò il comando al colonnello Stevani, il quale, per facilitarne ed accelerarne la formazione fece concentrare i varii reparti in Sabderat. Intanto i dervisci si erano ancor più stretti attorno a Kassala impiantandosi anche a Tucruf a pochi chilometri dalla città; e quindi imprendevano continue razzie e scorrerie intomo spingendosi fino a Sabderat, ove l’8 marzo una loro turba di circa 600 fu respinta dal posto d’osservazione italiano. Tuttavia la carovana il 16 marzo potè entrare felicemente nel forte; ma avendo l’indomani i dervisci occupato la gola del monte Mocram ad est di Kassala, non le fù più possibile di uscirne e si dovette rinunziare allo sgombro progettato. Anzi il giorno 18 i dervisci ritornarono in numero di circa 1300 contro il nostro posto di Sabderat, sperando di impadronirsi di quella importante posizione che avrebbe preclusa la via di ritirata alla carovana predetta, e rotte le comunicazioni colla Colonia; ma anche questa volta i nostri ascari con pochi uomini del Chitet e della banda di Ali Nurin, ai quali si aggiunsero arditamente quattro telegrafisti italiani, poterono respingere i dervisci cagionando gravi perdite, e salvare così la posizione. Allora i dervisci si diedero a stringere più d’appresso Kassala, e nella notte del 27 al 28 riuscirono a scavare inosservati diverse linee di trincee a poco più di un Km. tutto intorno al forte, dalle quali cominciarono giornalmente a molestare l’interno. Da questo momento le condizioni del presidio si fecero criticissime, tanto più che dopo l’arrivo della carovana, sebbene buona parte dei quadrupedi fosse rimasta fuori del forte, questo conteneva 4047 persone, delle quali poco più di un terzo combattenti, e 253 quadrupedi, per cui si rendevano più difficili ancora le operazioni della difesa. Ma per fortuna dei nostri, non tardarono ad arrivare i soccorsi necessari per rimediare a tali tristi condizioni. Il colonnello Stevani facendo accelerare i movimenti, potè riunire a Sabderat il 31 marzo quasi tutto il suo corpo d’operazione, tranne il 6.° battaglione rimasto indietro di una sola tappa; ed all’indomani, l.° aprile, dopo aver lasciato ordini perchè il predetto battaglione lo seguisse appena fosse possibile, si mise in marcia verso Kassala. Kassala è situata in territorio piano sulla riva destra del Gasc (Mareb) a 399 Km. ad ovest, e quasi sullo stesso parallelo di Massaua. La coprono da sud e da est due linee di alture che le distano dai 3 ai 4 Km. e la rinserrano contro il Gasc, formando con esso una specie di rettangolo aperto su un lato minore verso nord ove si stende una vasta pianura. Le alture del lato sud sono denominate Monti di Kassala, quelle del lato est sono formate in parte dalle Cadmie che si distaccano dai precedenti, e in parte dall’isolato Monte Mocram che si eleva sul prolungamento di queste, formando con esse una gola per cui passa la via che da Sabderat conduce a Kassala. Stevani che aveva potuto prendere per mezzo di lettere e dispacci gli opportuni accordi con Hidalgo, sapendo che la predetta gola era già occupata dal nemico, decise di evitarla girando a nord del Monte Mocram, e così mentre al primo chiaro di luna il forte apriva il fuoco sul fronte sud per attirare l’attenzione dei dervisci verso quella parte, il corpo di rinforzo poteva compiere inosservato il giro predetto, ed alle 3 del 2 aprile penetrava indisturbato in Kassala. Mezz’ora dopo arrivava presso Monte Mocram anche il 6.° battaglione, e si disponeva già ad occuparne le falde sud-est, quando essendo stato scorto dagli avamposti nemici, fu immediatamente assalito a fucilate. Il battaglione si difese con grande vigoria e riuscì ad occupare i fianchi e le creste del monte, dando così tempo alle truppe del forte di accorrere in suo aiuto. Stevani appena si accorse del combattimento, riunì i quattro battaglioni e le due sezioni d’artiglieria esistenti nel forte ed uscì dirigendosi verso la gola; quivi sostando alquanto e riconosciute al chiarore dell’alba le posizioni occupate dal 6.° battaglione, dispose le altre truppe in linea sulla sua destra e con esse diede l’assalto al nemico. Il combattimento si fece vivacissimo ed accanito da ambe le parti, ma dopo un’ora di lotta i dervisci in piena rotta dovettero ritirarsi disordinatamente verso Tucruf inseguiti e bersagliati dall’artiglieria e subendo gravissime perdite. In seguito a questa brillante vittoria, poche ore dopo poteva uscire dal forte la carovana con 500 cammelli ed altrettanti uomini del Chitet, che la sera stessa senza alcun incidente giungevano a Sabderat. La vittoria di Monte Mocram aveva rotto il blocco di Kassala ed assicurate le comunicazioni colla Colonia, ma non aveva debellati completamente i dervisci, che raccoltisi nel campo trincerato di Tucruf a 3 km. circa a nord della città, avrebbero potuto ritornare ancora all’assalto. Perciò il colonnello Stevani decise di sloggiarli di là e liberare completamente la piazza da ogni pericolo. Con questo intendimento, la mattina del 3 aprile verso le ore 6 uscì dal forte coi quattro battaglioni ed i 4 pezzi da montagna disposti in quadrato, dirigendosi verso Tucruf. Giunto a circa 2 Km. dalle trincee nemiche, Stevani sostò e cominciò a batterle coll’artiglieria, e poichè esse non davano segno di vita, riprese il movimento facendo degli sbalzi, seguiti dal fuoco, di 200 in 200 metri finchè si fu avvicinato di un’altro Km. Allora si videro uscire dalle trincee due masse numerose di dervisci che si diedero tosto a tentare un’aggiramento sulla destra. I nostri raddoppiarono il fuoco ed in breve le predette masse dovettero darsi a precipitosa fuga, dirigendosi verso Gulusit. L’uscita di tanta gente dalle trincee le fece ritenere ormai sgombre, perciò il colonnello Stevani, dopo averle fatte perlustrare da due pattuglie di cavalleria, spintesi fino a pochi passi dalle palizzate che le coprivano senza scorgere alcun indizio di nemico, fece avanzare una compagnia del quadrato per occuparle. Ma appena questa ebbe percorso circa 300 metri fu accolta da un fuoco violentissimo per parte dei dervisci appostati dietro le trincee credute vuote, così che Stevani per disimpegnarla dovette muovere all’assalto delle trincee stesse con tutte le sue forze. Tale assalto fu seguito da un combattimento micidialissimo nel quale i nostri che erano allo scoperto ebbero delle perdite gravi, e si videro anche minacciati da oltre a 300 cavalieri dervisci apparsi improvvisamente da tergo. Davanti al doppio pericolo Stevani fu costretto n ritirarsi ordinatamente in posizione retrostante più coperta e dominante, e quindi schierando le truppe sulle due fronti di combattimento potè ridurre al silenzio le trincee e disperdere in fuga la cavalleria nemica. Poscia si ritirava ordinatamente e senza molestie nel forte. La giornata di Tucruf fu più sanguinosa ed a tutto prima apparve meno decisa di quella del giorno precedente; tuttavia ebbe un risultato molto più grande, perchè mentre il colonnello Stevani si disponeva, per niente scosso, a riprendere nei giorni successivi l’assalto del campo nemico, Ahmed Fadil invece non si sentì più in grado di sostenerlo, e bastarono alcune minaccie di pattuglie e d’artiglieria nei giorni 4 e 5 perchè il nemico abbandonasse spontaneamente i suoi trinceramenti ritirandosi precipitosamente verso Osobri, e lasciando in potere dei nostri armi, feriti e quadrupedi, ciò che veniva a costituire la vittoria completa delle truppe italiane. La tremenda minaccia che gravava sui confini occidentali della Colonia era ormai sventata; Kassala era alfin libera ed un respiro di sollievo corse per la Colonia e per l’Italia. Il prode colonnello Stevani che aveva così brillantemente condotte le operazioni militari a lui affidate, dopo aver cambiato il presidio di Kassala, e disposto per la sicurezza della regione secondo le istruzioni avute dal Governatore, ritornava col 2.° e 7° battaglione e con una sezione d’artiglieria a ricongiungersi al corpo principale operante contro il Tigrè. L’assedio e la liberazione di Kassala avevano costato alle nostre truppe 2 morti e 20 feriti nel forte; 20 morti e 35 feriti nelle operazioni esterne precedenti ai combattimenti del 2 e 3 aprile, ed in questi ultimi 127 morti e 281 feriti, cioè: un centinaio complessivamente nella giornata di monte Mocram ed il resto in quella di Tucruf1. I dervisci secondo quanto si potè constatare, perdettero oltre un migliaio di morti e moltissimi feriti. *** La ritirata ormai accertata del Negus e la liberazione di Kassala vennero a migliorare molto sensibilmente le condizioni politiche e militari della nostra Colonia, ed a permettere al governatore Baldissera di abbandonare la sua posizione difensiva e di spingersi invece all’offensiva movendo alla liberazione di Adigrat assediata dai Ras tigrini. Questa liberazione che tanto gli stava a cuore e che era tanto necessaria, aveva formato l’oggetto delle sue cure fin dai primi giorni dopo il suo arrivo nella Colonia, nei quali aveva già pensato di tentarla con un colpo di mano improvviso, prima, valendosi dei 5 battaglioni intatti che il colonnello Di Boccard aveva raccolto ad Adi Caiè, poscia affidandone l’impresa al capitano De Bernardis che con circa 700 uomini guardava il passo di Cascassè; ma aveva dovuto rinunziare a questi due tentativi per le gravi difficoltà che quell’operazione presentava specialmente in considerazione dell’ingente numero di feriti e di ammalati che esistevano nel forte, i quali ne avrebbero reso lungo e penoso lo sgombro, ed anche in riguardo alle condizioni materiali e morali delle truppe che vi si volevano destinare, alquanto scosse dopo la battaglia. Ora però che Menelik era già in marcia verso lo Scioa e la sua stessa retroguardia con Maconnen si era già spostata fino ad Ausen per seguirne il movimento, e che intorno ad Adigrat non esistevano più che circa 12,000 armati agli ordini di Mangascià, ras Alula, ras Sebath ed Agos Tafari, e solo pochi altri nuclei nemici erano sparsi in altri punti del Tigrè, Baldissera deliberò di muovere verso Adigrat per liberarlo a viva forza. Dopo gli ultimi rinforzi giunti dall’Italia, le truppe coloniali compreso il presidio assediato di Adigrat ed i reparti e servizi vari non combattenti, avevano raggiunto l’ingente numero di 1301 ufficiali e 41,545 uomini di truppa, di cui circa 7000 tra regolari indigeni e bande, e disponevano di 10,248 quadrupedi. Di queste forze il generale Baldissera formò un corpo d’operazione composto di due divisioni della forza complessiva di 16,717 uomini agli ordini dei tenenti generali Del Maino (1.°) ed Heusch (2.a) con quattro brigate di fanteria comandate dai maggiori generali Bisesti (1a), Barbieri (2a), Gazzurelli (3a), Mazza (5a), e con due brigate d’artiglieria, ed altri reparti e servizi vari. Dispose inoltre che lo raggiungessero i due battaglioni indigeni 2° e 7° e la sezione d’artiglieria che ritornavano con Stevani da Kassala. Tutte le altre truppe vennero lasciate dislocate tra Asmara e Massaua e sparse negli altri presidi della Colonia. Il generale Baldissera dopo di aver fatto in persona dal 24 al 28 marzo accompagnato da 140 uomini una perlustrazione fino a Toconda per riconoscervi e far preparare le strade ed il terreno atto all’avanzamento ed all’accampamento del corpo d’operazione, e dopo aver disposto che la linea di rifornimento delle truppe si dovesse spostare prima dalla strada Saati-Asmara a quella di Saati-Saganeiti e poscia più tardi a quella di Archico-Adi Caiè, il giorno 4 aprile fece avanzare le sue truppe verso Mai Serau e Adi Caiè la quale ultima località fu completamente occupata il giorno 12, riducendovisi lo stesso Comando in capo. Il generale Baldissera sperava di poter riprendere il movimento in avanti verso la metà di aprile; ma ne fu impedito dalle enormi difficoltà che dopo la sua avanzata su Adi Caiè vennero a turbare il servizio dei viveri, sia per causa della insufficenza e della moria dei quadrupedi, sia perchè gli spostamenti forzati subiti dalla linea di rifornimento avevano cagionato non lieve incaglio nel servizio stesso. Il corpo d’operazione fu quindi costretto a sostare fin quasi al termine di detto mese vivendo alla meglio alla giornata, e ricorrendo a requisizioni ed a ripieghi d’ogni genere anche per rimediare alla deficenza dell’acqua. Intanto però Baldissera aprofittò della sosta forzata per fortificare le posizioni occupate, migliorare le strade, ed eseguire perlustrazioni spingendosi personalmente fino a Senafè e quivi distaccando poscia delle truppe del genio per scavarvi dei pozzi. Verso la fine di aprile poi quando a forza di cure e di sacrifici si era potuto costituire una abbondante riserva di viveri in Adi Caiè, che toglieva la preoccupazione principale per l’avanzata delle truppe, Baldissera dispose per la ripresa della marcia in avanti. Prima però volle sconcertare le forze dei Ras tigrini e trarli in inganno perchè non s’opponessero in massa al movimento del nostro corpo d’operazione, ciò che considerate le intricate e montuose condizioni del suolo e le tortuosissime e alpestri vie da percorrere, e le difficoltà di manovrare e marciar compatti in esse, avrebbe potuto recargli seri imbarazzi. A tal uopo Baldissera ordinò la costituzione di una colonna di truppe che col 6° e 7° battaglioni bersaglieri, metà del 1° battaglione fanteria, una sezione d’artiglieria, le bande del Seraè ed altre minori, raggiunse la forza di 2210 uomini; e la destinò a fare una dimostrazione su Adua per la via di Adì Ugri-Gundet. Il comando di detta colonna fù affidato al colonnello Paganini, che raccolte le sue truppe parte in Asmara e parte lungo la via predetta, il giorno 1 maggio potè passare il Mareb colla sua avanguardia. In pari tempo Baldissera dispose che il tenente Sapelli colle bande dell’Amasen e dell’Okulè Kusai facesse un’altra dimostrazione in direzione di Coatit e di Debra Damo. Queste due finte eseguite sul fianco del corpo d’operazione principale ed accompagnate da voci minaciose e da bandi per la popolazione, ottennero l’effetto che ras Alula si recasse immediatamente con circa 2000 armati a coprire Adua e che una parte delle altre forze tigrine disposte intorno ad Adigrat si spostasse verso Debra Damo per chiudere le vie dell’Entisciò e quella cosidetta del Negus, rimanendo in tal modo indebolite e ridotte le forze nemiche rimaste sul fronte, le quali consistevano ormai in poco più di 10,000 fucili, tra gli 8000 di Mangascià campeggiante presso Amba Sion e quelli di Sebath e Agos Tafari sparsi intorno al forte di Adigrat. Predisposte così le cose, Baldissera iniziò la seconda avanzata spingendosi fino a Senafè che fu occupata negli ultimi giorni di aprile; nei giorni 1 e 2 maggio tutto il corpo di operazione si trasferì fino intorno a Barachit, ed il giorno 3 successivo dopo aver disperso a fucilate alcuni stormi nemici che dal ciglione di Guna-Guna avevano fatto fuoco sui nostri avamposti, riprese il movimento verso la piana di Gullabà, donde con un’imponente marcia in colonna di battaglioni e ad intervalli di spiegamento proseguì ancora spingendosi fino ai monti di Dongollo ed ai villaggi circostanti che furono sgombrati dai ribelli. Il giorno 4 maggio poi mentre il colonnello Stevani ed il generale Gazzurelli occupavano con truppe indigene ed artiglieria i fianchi orientali e meridionali di Dongollo, ricacciandosi innanzi con scambio di fucilate la gente dei Ras tigrini e mentre la brigata Mazza disperdeva intorno a Mai Maret degli altri nuclei d’armati che molestavano il fianco destro del corpo d’operazione, questo si riduceva a Cherseber ed a Legat già in vista e tosto in comunicazione col forte di Adigrat. Fu questo un giorno di letizia pel bravo maggiore Prestinari e pel suo valoroso battaglione che da oltre due mesi, così lontani ed isolati dalle truppe sorelle, erano sottoposti alle cure ed alle preoccupazioni snervanti di un assedio lungo, molesto e insidioso che toglieva perfino la speranza di un’aperta lotta col nemico, e che minacciava soltanto il triste epilogo di una resa per fame. Nè meno grande fu l’entusiasmo col quale l’esercito liberatore raccolse i fratelli di Adigrat, e quello prodotto dalla lieta notizia nella madre patria. L’esito brillante dell’impresa di Baldissera sollevò gli animi della truppa e della popolazione e fece rinascere la speranza di una rivincita del 1. marzo. Ma il Governo, al quale il Baldissera si rivolse per chieder ordini, gli significò che essendo la liberazione di Adigrat avvenuta senza una vittoria contro il nemico in campo aperto, non era più il caso di mantenersi in quelle posizioni, e gli ordinò che predisponesse pel loro abbandono. In seguito a quest’ordine che da taluni fu tanto biasimato perchè videro in esso la rinunzia completa ai frutti dell’opera di Baldissera ed all’Agamè, che ritenevano almeno un buon pegno per facilitare la liberazione dei prigionieri e ottenere la bramata delimitazione di confini, il generale Baldissera fece incominciare le operazioni per lo sgombro del forte. Prima però di disporre per la ritirata del corpo d’operazioni egli cercò di ritrarre tutti i vantaggi possibili dalle sue posizioni nell’intento di liberare almeno quel centinaio di prigionieri che si sapevano esistenti presso gli spaventati ed annichiliti Ras tigrini. A tal uopo pubblicò un bando alle popolazioni tigrine invitando i capi a consegnare immediatamente i prigionieri che tenevano e minacciando in caso di rifiuto le più severe rappresaglie; e poichè Sebath cominciò a mentire ed a tergiversare in proposito, Baldissera gli spedì subito contro il colonnello Stevani cogli indigeni, che lo snidarono da Debra Matzo, uccidendogli molti uomini e portandogli via una grande quantità di bestiame. Poco dopo lo stesso Stevani si recò contro il convento di Debra Damo, covo di ladri e di banditi, allo scopo di indurre quel priore a facilitare la consegna dei prigionieri ed a fornire delle vettovaglie per le nostre truppe, ciò che si ottenne subito. In pari tempo avendo saputo che il figlio di ras Sebath, degiac Desta, occupava e teneva con molti ribelli la posizione di Amba Debra, Baldissera gli mandava contro le bande del tenente Sapelli, che con brillante combattimento lo sconfiggevano ricacciandolo in fuga. Alcuni villaggi che avevano fatto atto di ostilità contro le nostre truppe furono tosto incendiati. Un salutare terrore si sparse subito in tutto il Tigrè, ed anche Mangascià che seguendo gli ordini di Menelik, evitava ogni combattimento ritirandosi qua e là, dovette raccogliere l’intimazione di Baldissera e dimostrarsi pronto ad accordi. In breve Agos Tafari e Sebath si piegarono a consegnare i prigionieri che essi tenevano (due ufficiali e 19 soldati) ed il 18 maggio dopo patteggiata la consegna del forte di Adigrat a ras Mangascià anche i prigionieri che aveva costui (6 ufficiali e 90 uomini di truppa, col maggiore Salsa ed il colonnello Nava) furono liberati. Ottenuto tuttociò, ed ottenuto anche da ras Mangascià che una colonna di nostri soldati del genio agli ordini del tenente colonnello Arimondi, fratello dell’eroe caduto sul monte Raio, si potesse recare sui campi d’Adua a dar pietosa sepoltura ai caduti del 1 marzo, il generale Baldissera iniziò la ritirata del corpo d’operazioni, entro i vecchi confini del Mareb-Belesa-Muna, e poi dispose pel rimpatrio della maggior parte delle truppe. Così ebbe termine la sfortunata campagna dell’Italia in Africa del 1895-96. In essa la nostra patria dimostrò una potenzialità economica e militare di veramente grande nazione, ma non ottenne il successo finale perchè i suoi sforzi furono slegati e sconnessi e contristati dagli errori. Le primitive lesinerie che esposero la nostra patria impreparata a sostenere l’urto scioano, non poterono essere compensate dai successivi graduali sacrifici votati man mano che le sorti della campagna peggioravano; così che l’Italia alla fine si trovò ad aver speso poco meno di duecento milioni per essere sconfitta, mentre colla stessa somma votata in una sol volta, e in tempo a preparare ed a provvedere alle esigenze della guerra, avrebbe indubbiamente ottenuto il successo. Come triste epilogo della campagna venne a svolgersi presso il Tribunale militare dell’Asmara il processo già istruito contro Baratieri, che con sentenza delli 15 maggio fu assolto e soltanto dichiarato inetto all’alta carica sostenuta. * * * ↑ Lasciarono la vita a Tucruf i tenenti Panini, Bassetti, Stella e Di Salvio. Note CAPITOLO XXI. (1896-1899) * * * Pratiche di pace e per liberare e soccorrere i prigionieri — Si intromette il Sommo Pontefice — Insuccesso di mons. Macario — Missione Nerazzini — Convenzioni stipulate col Negus — Preliminari di pace e liberazione dei prigionieri — Rimane insoluta la questione dei confini — Il programma di raccoglimento del ministero Di Rudinì — Seconda missione Nerazzini — Invio di Cicco di Cola — Il Governatore Civile — Ultimi avvenimenti etiopici — Ribellione e spodestamento di Mangascià. Avvenimenti dalla parte del Sudan — L’Inghilterra scesa in lizza contro il Kalifa — Campagna anglo-egiziana negli anni 1896-97-98 — Cessione di Kassala — Battaglia di Ondurmann — Caduta della Mahdia — Il Nilo riaperto alla civiltà europea. Terminata la infelice campagna del 1895-96, la Colonia fu ridotta sul piede di pace, colle sole forze sufficienti a tenere in rispetto i Ras tigrini; e le cure dell’Italia si rivolsero interamente alle trattative diplomatiche per liberare e soccorrere i prigionieri dello Scioa e per ottenere un componimento con Menelik. Un comitato di signore, presieduto dalla marchesa di Santafiora dama d’onore di S. M. la Regina, per mezzo di pubbliche sottoscrizioni aveva raccolto in tutto il regno dei vistosi soccorsi, e fino dal 25 maggio 1896 aveva potuto inviare verso lo Scioa il prete polacco Varsowiz-Rey, cui si era aggiunto il padre Audin, per farne la distribuzione ai prigionieri. Questa missione dopo molte peripezie e dopo la morte del suo capo, cui sottentrò l’Audin, giunse il 14 agosto all’Harrar dove ebbe a sostare inerte per circa un mese prima di potere far pervenire ai prigionieri gli aiuti che essa portava, essendo stata contrastata in mille maniere da ras Maconnen. Nello stesso tempo anche il Sommo Pontefice interveniva di propria iniziativa in favore dei prigionieri, ed il 6 luglio spediva a Menelik in missione speciale monsignor Macario, incaricato di far pratiche per ottenerne la liberazione. Egli giunse ad Adis Abeba il 14 agosto 1896 e vi fu ricevuto con grandi onori e riguardi ma non potè ottener nulla da Menelik, che dichiarò volersi giovare dei prigionieri per avere delle garanzie di pace coll’Italia. Da parte sua il Governo italiano, mentre valendosi segnatamente dell’opera dell’ingegnere svizzero Illg faceva preparar terreno pei negoziati di pace e per la liberazione dei prigionieri, destinava per inviato ufficiale dell’Italia presso il Negus il solito dottor Nerazzini, il quale partito da Napoli il 3 giugno, giunse il 6 ottobre in Adis Abeba, munito di istruzioni diplomatiche e di copiosi soccorsi pei prigionieri. In pari tempo per provvedere ad una nuova e più importante missione qualora le circostanze lo richiedessero, o le esigenze di Menelik fossero inconciliabili colle istruzioni date a Nerazzini, fu inviato il generale Valles a Massaua, ove rimaneva pronto a partire per lo Scioa. Ma l’opera del Generale non ebbe ad occorrere, perchè Nerazzini in poco più di 15 giorni dopo il suo arrivo ad Adis Abeba, potè concludere col Negus due convenzioni speciali, l’una contenente i preliminari di pace fra l’Italia e lo Scioa; l’altra le condizioni per la liberazione dei prigionieri. I preliminari di pace contenevano approssimativamente quanto segue: 1.° Cessazione dello stato di guerra; pace ed amicizia perpetua tra i due paesi. 2.° Abolizione del trattato d’Uccialli. 3.° Riconoscimento dell’indipendenza assoluta dell’Etiopia. 4.° Concessione provvisoria della linea Mareb-Belesa-Muna finchè Delegati dell’Italia e dello Scioa avessero fissato entro un anno, di comune accordo, la frontiera e obbligo all’Italia di non cedere frattanto ad altre potenze il territorio etiopico. Rimandavano poi ad altra occasione la conclusione di accordi commerciali e industriali. La convenzione relativa ai prigioneri stabiliva la loro libertà, il loro concentramento ad Harrar e successivo invio a Zeilà; la facoltà alla Croce Rossa di avanzare fino a Gildessa, e lasciava arbitro il Governo italiano di fissare l’indenizzo pel loro mantenimento. Naturalmente, sebbene l’ottenuta liberazione dei prigionieri destasse in tutta Italia un senso di vivissimo compiacimento, le altre condizioni dei preliminari di pace apparvero piuttosto ostiche, e non per riguardo all’abolizione del trattato d’Uccialli e del seguente protettorato sull’Etiopica, che l’Italia ne aveva avuto già abbastanza ed era disposta a privarsene senza rammarico; ma per riguardo alla questione dei confini dell’Eritrea, che rimaneva sempre aperta e faceva temere un’umiliante riduzione loro, od appigli per una nuova guerra. Vi fu anche chi dubitò della generosità di Menelik nel lasciare arbitro il Governo italiano di fissare la somma per pagare il mantenimento dei prigionieri, e chi criticò l’opera diplomatica del Nerazzini ritenendone i risultati eguali o meno favorevoli di quelli già concessi dal Negus a Salsa il 16 marzo nel convegno al Farras Mai. Tuttavia, considerato che l’Italia sarebbe stata disposta a qualunque sacrificio per liberare quei prigionieri che erano nelle mani di Menelik, e considerato anche la poca fiducia che generalmente inspirano le promesse, le offerte ed i patti di Menelik, la maggioranza della popolazione si adattò facilmente a sanzionare non sfavorevolmente l’opera del Nerazzini, tantopiù che la somma pagata pei prigionieri (somma che si conobbe poi di circa 10 milioni) non poteva essere colossale, essendovisi rimediato coi fondi già votati per la guerra senza ricorrere alla necessità di uno speciale e nuovo stanziamento che gravasse sul bilancio. In seguito alla convenzione stipulata da Nerazzini ed approvata pienamente dal Governo, i prigionieri italiani raccolti allo Scioa furono riuniti in scaglioni e per la via dell’Harrar dal dicembre 1896 al maggio 1897 in numero di circa 1500 rientravano in Italia, preceduti da un drappello di 50 uomini che il Negus stesso con cavalleresco pensiero volle offrire alla nostra Regina pel suo giorno natalizio (20 novembre). Gravi frattanto fervevano in Italia le discussioni intorno alla politica coloniale. Il ministero Di Rudini, pressato dall’opposizione parlamentare, aveva dovuto fare tali dichiarazioni alla Camera che lasciavano supporre una possibile e graduale riduzione della Colonia, e fin l’abbandono dell’altipiano. A tal uopo si era anche deciso a rimettere in vigore la carica di Governatore Civile della Colonia, e poi designava a coprirla il noto antiafricanista R. Bonfadini. Ma la temuta liquidazione della Colonia destò l’avversione nella maggior parte della popolazione, che per quanto contraria a nuovo avventure e ad imprese guerresche, era però mal disposta a lasciare andare in fumo tutto il frutto di tanti sacrifici già fatti; e sorsero anche dispareri in seno allo stesso Gabinetto; così che alla fine temporeggiando, abbandonò ogni idea di riduzione dei nostri possedimenti coloniali, e si dispose invece a voler conservare la linea di confine del Mareb-Belesa-Muna, scegliendo poi come governatore civile l’on. Ferdinando Martini, il quale per aver fatto parte della Commissione d’inchiesta del 1891 e per avere più volte e scritto e parlato intorno all’Africa italiana con competenza ed amore, venne riconosciuto universalmente adatto all’alta carica. A risolvere la penosissima questione dei confini, nel marzo 1897 fu mandato ad Adis Abeba una seconda volta il Nerazzini; ma senza frutti. Sulla fine dell’anno stesso vi andò poi il tenente colonnello Cicco di Cola che vi si trova tuttora e che tanto dal gabinetto Di Rudinì quanto dall’attuale di Pelloux, succeduto nel giugno 1898, avrebbe per missione speciale di indurre il Negus a considerare come stabile la predetta frontiera. Morto in questo frattempo Ras Alula in seguito a ferita riportata in battaglia contro il vecchio Ras Agos dello Scirè, che vi rimase ucciso, Mangascià che non dava più alcun disturbo all’Italia, si risollevava contro Menelik, che sulla fine del 1898 mandò a domarlo e a spodestarlo, affidando l’incarico e la successione a ras Maconnen. Il Ras già ritenuto tanto amico all’Italia, alla quale però ha fatto tanto male, ha avuto ragione di Mangascià ed al suo posto si è già installato a Capo del Tigrè. Uno scambio di cortesie tra lui ed il Governatore della Colonia e di lettere tra Menelik ed il nostro Re fanno ritenere favorevolmente risolta la quistione dei confini secondo i desideri dell’Italia e del Parlamento. * Intanto che tra l’Italia e l’Abissinia si svolgeva il periodo di trattative che dura tuttora, dalla parte del Sudan si compievano dei grandi avvenimenti. I tristi risultati della battaglia d’Adua ebbero un contraccolpo anche in Inghilterra, la quale desiosa di venire in soccorso dell’alleata, avventuratasi in Africa per secondare la sua politica coloniale, e più specialmente timorosa che questa dovesse perdere anche Kassala assediata dai Mhadisti, ciò che avrebbe costituito un loro trionfo e consolidato il dominio del Kalifa, il 14 marzo 1896 deliberava l’immediata ripresa della campagna anglo-egiziana contro il Sudan. Però, sebbene questo grande avvenimento venisse a determinare un nuovo orientamento nella politica coloniale europea e ad attirare gli sguardi e le cupidigie delle potenze verso la lunga ed importantissima valle del Nilo, l’Italia non solo abbandonò ogni idea di nuove avventure verso il Sudan, ma si dispose a cedere anche Kassala. Essa si adattò tanto più volentieri a tale cessione in quanto che, sul gennaio del 1897 proprio pochi giorni dopo che il generale Baldissera lasciava il governo della Colonia al generale Viganò, vennero contro di essa nuovamente ed improvvisamente in campo i dervisci. Essi passarono il Gasc in numero stragrande, e devastando e razziando, si avanzarono fin presso Agordat. Il generale Viganò fu sollecito ad accorrere alla difesa, e raccolte celeramente le sue truppe disponibili nella predetta località, riuscì ad arrestare l’invasione nemica che si faceva minacciosissima. I dervisci stettero di fronte ai nostri alcuni giorni senza osare di attaccarli malgrado la loro grande superiorità numerica; quindi dovettero ritirarsi verso il Gasc lasciando i segni della devastazione sul loro passaggio. In seguito a questa novella sorpresa che se non ebbe dolorose conseguenze lo si deve al pronto accorgimento del generale Viganò, così sollecito ed efficace nel porvi riparo, apparve sempre più pericolosa ed onerosa per l’Eritrea una frontiera occidentale spinta fino a Kassala, e poichè questa località, secondo l’articolo 2 del protocollo 2 aprile 1891 non poteva ritenersi che occupata provvisoriamente e per conto dell’Inghilterra, il Governo italiano ne patteggiò con essa la cessione che venne poi fatta il 19 dicembre 1897. Frattanto proseguivano le operazioni degli anglo-egiziani lungo il Nilo, con esito disastroso per il Kalifa. L’Inghilterra aveva affidato l’impresa al Sirdar dell’esercito egiziano, generale Kitchener, uno degli ufficiali inglesi che ebbero a sostenere parecchie lotte contro il Mahdismo, dandogli in sott’ordine molti ufficiali e graduati inglesi. L’Egitto doveva invece fornire le sue finanze ed i suoi soldati Fellàh. Il Sirdar imprese le operazioni militari nella primavera stessa del 1896 procedendo lentamente, ma ordinatamente e tenacemente, come sanno fare gli inglesi, verso Dongola, che con l’aiuto di flottiglie salienti pel Nilo e di ferrovie costruite lungo le sue sponde fu occupata nel settembre di detto anno. Dopo questo primo successo la campagna fu sospesa per lasciar tempo ai preparativi, e fu ripresa nel maggio 1897 procedendo su Berber, che venne in potere degli anglo-egiziani nei primi di settembre. Fu sospesa di nuovo e per gli stessi motivi nell’inverno seguente; ed intanto il colonnello Parsons sostituiva a Kassala il dominio italiano, preparando al Sirdar la via dell’Atbara, sulle cui sponde nell’aprile 1898 egli sconfiggeva a Umdabia le forze degli emiri Mahmud ed Osman Digma, e nell’agosto 1898 poteva concentrare 25000 uomini e 48 cannoni. Il Kalifa mediante sforzi disperati potè mettere insieme 40,000 uomini e si apprestò alla difesa del suo dominio in Ondurmann; ma quivi all’alba del 2 settembre fu attaccato da tutte le forze del Sirdar e disastrosamente sconfitto, perdendovi 18,000 uomini e 3,000 prigionieri. Questa battaglia segnò la fine della Mahdia il cui capo seguito da pochi si è ritirato, senza speranza di rifarsi, sulle montagne di Kordofan, abbandonando i suoi tesori, la tomba del Mahdi, il corso e le feraci sponde del Nilo, in potere degli Anglo-Egiziani. Il grande avvenimento ha dischiuso un nuovo orizzonte alla colonizzazione. Le potenze europee dai possedimenti costieri che circondano tutta l’Africa, si tendono le mani verso le misteriose regioni dell’interno, e studiano già dei colossali progetti di viabilità a vapore che spazzeranno la barbarie e cambieranno la faccia al continente nero. Era così destino, che i danni sofferti dall’Italia nella battaglia d’Adua fossero compensati dai benefici generali apportati alla causa della civiltà 1. * * * ↑ A contrastare il frutto di quei successi che all’Inghilterra ed all’Egitto costarono tante spese e tanti sacrifici, avveniva frattanto uno strano incedente, cioè l’occupazione di Fascioda nel Nilo a 600 km. circa da Kartum per parte dei Francesi. Dopo la caduta del dominio di Emin Pascià nelle ricche regioni equatoriali, queste attrassero gli sguardi e destarono le cupidigie della Francia, e quando poi, ripresa la campagna contro il Sudan, le sorti dell’impresa Mahdista si videro già decise, la Francia intraprese verso di esse due spedizioni laterali, una dal Congo francese comandata dal maggiore Marchand, un altra dall’Abissinia col marchese Bonchamps. Ma l’Inghilterra vegliava, e mentre le sue truppe anglo-egiziane salivano il Nilo ricacciandosi avanti i Mahdisti, faceva muovere dalla parte opposta, cioè dall’Uganda il maggiore Macdonald ad affermare i diritti inglesi sulle regioni equatoriali. Senonchè Macdonald essendoglisi ribellati i sudanesi, dovette fermarsi a mezza via, mentre Marchand invece il dieci luglio 1898 per la via del Congo, dell’Ubanghi e del Bahr el Gazal potè giungere con 8 ufficiali e 120 uomini del Senegal a Fascioda. Bonchamps ammalatosi per via dovette rinunciare all’impresa. Gravissimo incidente generò questo fatto tra la Francia e l’Inghilterra, la quale dopo aver sostenuto tante lotte e tante spese per la riconquista del Sudan si vedeva occupare una città che è la chiave dei laghi equatoriali. Il Sirdar Kitchener dopo la battaglia del 2 settembre andò tosto ed in persona con un battaglione Sudanese, su pel Nilo ad occupare anch’egli la Città, lasciando alla diplomazia la soluzione dello strano incidente. Più che il diritto e la ragione i giganteschi armamenti tosto preparati dall’Inghilterra, indussero la recalcitrante Francia a richiamare più o meno velatamente il Marchand che abbandonò la sua conquista nelle mani degli anglo-egiziani. Note CONCLUSIONE. Ecco esposte sommariamente le vicende della nostra colonia, dalla sua origine fino al terzo anniversario della battaglia d’Adua, e dal loro esame superficiale appare subito evidente che se la nostra patria in questo suo primo esperimento di colonizzazione non ha fatto tutto di bene, non ha neppur fatto tutto di male. Ora limitata da una linea che dal capo Kasar addentrandosi nel continente africano abbraccia le vaste regioni degli Habab, dei Beni Amer, dei Baria, dei Mensa e dei Bogos, e congiungendosi poi con quella del Mareb-Belesa-Muna rinchiude le regioni abissine dell’Amasen, del Seraè, e dell’Okule Kusai, e rasentando poscia l’orlo orientale dell’altipiano etiopico e il Sultanato dell’Aussa, taglia la costa Dancala, fin quasi presso lo stretto di Bab El Mandeb l’Eritrea ha una estensione di quasi 100000 kmq. di territorio ed una popolazione di circa mezzo milione di abitanti. Se si dovesse considerare il breve tempo impiegato nell’impiantarla, l’importanza della sua posizione in relazione alla vita politica e commerciale che si svolge sul mar Rosso ed a quella che indubbiamente rinascerà e si farà grande nella valle del Nilo rientrata nel dominio della civiltà anglo-egiziana; se si dovesse considerare senza esagerato ottimismo, ma anche senza pessimismo preconcetto, la produttività agricola e commerciale che può sperarsi colle cure e col tempo da’ suoi terreni, e la sua suscettibilità di miglioramento, forse l’amor proprio della nostra Italia potrebbe esserne lusingato, nè vi sarebbe motivo di pentimento del passo fatto. Tuttavia la memoria dei recenti sacrifici e disastri subiti ha prodotto nel paese un’avversione che è altrettanto ingiustificata, quanto era inopportuna l’eccessiva speranza e gli irrefrenati entusiasmi che per un lungo periodo di tempo accompagnarono i movimenti nostri di espansione coloniale. Avviene così sempre nella vita umana di cui si scordano tanto facilmente i piaceri e le gioie, e dura invece il ricordo dei dolori e delle sventure specialmente quando a questi si connettono le sofferenze negli interessi. Ma come degli individui, è pure dovere dei popoli forti e virili il non lasciarsi abbattere dall’avversità, ma di saperla dominare e riparare. E per riparare ai danni già subiti non sarebbe certamente il miglior modo quello di propugnare ora, come fanno taluni, l’abbandono di una Colonia che se non è un Eldorado non è neppure un Sahara, mentre 14 anni or sono, quando l’impazienza e l’entusiasmo spronavano l’Italia alle imprese coloniali, essa avrebbe giocato quasi la sua unità per conquistare un sasso nel Mediterraneo o nel Mar Rosso. Ma può invece convenire: prima di tutto assicurarsi quella frontiera che fu riconosciuta la più utile la più facilmente difendibile cioè quella del Mareb-Belesa-Muna, appoggiandosi più che alla speranza nei trattati, di una efficacia molto dubbia e sempre provvisoria, ad un buon sistema di fortificazioni per cui gli Abissini, e l’animo di Galliano informi, provano un sacro orrore; in secondo luogo dedicare molte cure alla colonizzazione interna, servendosi anche dell’opera degli stessi ascari che potrebbero trovare la loro paga naturale nello sfruttamento del terreno senza abbandonare il servizio delle armi; quindi aspettare che il commercio coll’Abissinia si ravvivi da sè al soffio potente della civiltà; e specialmente ora che gli inglesi sono padroni del Nilo promuovere quello da Kartum, per Kassala, a Massaua. Forse per qualche tempo ancora l’Eritrea sarà un onere più o meno forte per la madre patria, ma non per questo è consigliabile l’abbandonarla ora che tanti interessi materiali e morali la tengono a noi avvinta. Le popolazioni soggette si sono sacrificate per metà alla nostra causa e sarebbe un’empietà l’abbandonarle alle rappresaglie ed alle vendette feroci di nuovi signori; l’affiatamento tra dominanti e indigeni è completo, ed ormai dai matrimoni avvenuti, non pochi Eritrei novelli sanciscono i vincoli tra le due razze; numerosi lavori di costruzioni edilizie, stradali e fluviali, impianti di poderi, coltivazioni di campi, e seminagioni di piante rappresentano certi capitali che sebbene per ora diano pochi frutti, ne promettono indubbiamente per l’avvenire degli importanti, ed abbandonarli nelle mani del nemico costituirebbe un suo vantaggio ed un suo trionfo. Ormai questa Eritrea ci costa quasi quattrocento milioni e più di 6000 vittime bianche e l’abbandono di essa dopo tali sacrifici imprimerebbe all’Italia nostra una tale taccia di debolezza o di viltà che prima o poi si dovrebbe scontare.1 Dunque non abbandonarla; ma curarla, aspettando che il tempo e gli eventi e le cure la rendano se non proficua alla patria almeno bastevole per sè, ciò che al dire di molti deve ritenersi tutt’altro che impossibile e neppure assai lontano; purchè le lezioni del passato servano di norma per l’avvenire, purchè l’Italia sappia approfittare di quel tanto di buono che i suoi sacrifici le arrecarono e non lo cementi con nuove imprese, con nuovi errori che dopo quelli del passato sarebbero imperdonabili. * * * ↑ Secondo un rendiconto consuntivo presentato dal Governo alla Camera, l’Italia dal 1882 al 1 Luglio 1898 avrebbe speso per l’Eritrea L. 368,921,832. Attualmente la spesa è ridotta intorno agli 8 milioni annui, oltre ai due milioni e mezzo circa di entrate che dà la Colonia. Con questo stanziamento si provvede ai bisogni di tutti i possedimenti coloniali, compreso Assab e il Benadir. Note APPENDICE. I. NOTE SULL’ABISSINIA. Geografia fisica dell’Abissinia. — Il territorio abissino è compreso tra l’8.° ed il 15.° grado di latitudine nord ed il 35.° e 41.° di longitudine est dal meridiano di Greenvich. Esso è costituito da un ammasso di montagne che si annodano ad una lunga ed altissima dorsale la quale, partendo dalle regioni nubiane un poco a nord di Massaua si dirige verso sud seguendo quasi la linea del meridiano, e si mantiene prima poco discosta dal Mar Rosso fino contro la baia di Arafali, quindi taglia la costa Dancala spingendosi sino al massiccio centrale dello Scioa; donde poi ripiega verso ovest e sud-ovest, dirigendosi alle regioni di Ghera e di Kaffa e seguendo la grande ossatura del continente africano. Questa grande dorsale nel suo tratto orientale sovrasta quasi a picco, come un immensa muraglia, alla costa Dancala, formando l’orlo dell’impero etiopico ed il suo principale baluardo di difesa. A sud invece spinge i suoi fianchi meno ripidi verso i bacini dell’Ueri e del Giuba scendenti all’Oceano Indiano. L’interno dell’Abissinia offre una serie di altipiani separati fra loro e percorsi da catene montane che si svolgono in tutti i sensi, degradando lentamente verso il Nilo e sul territorio nubiano. Le principali di queste catene, staccandosi dalla dorsale principale si dirigono quasi parallelamente da est ad ovest separando i bacini dei fiumi e torrenti che solcano l’interno dell’Abissinìa. La prima cominciando dal nord, s’annoda al massiccio dell’Asmara e prolungandosi tortuosamente verso il Dembelas separa i versanti del Lebka, dell’Anseba e del Barca tributari del Mar Rosso, da quello del Mareb che per mezzo dell’Atbara affluisce al Nilo. Altra catena si distacca nell’Agamè e dirigendosi verso Adua e Axum separa il bacino dei Mareb da quello del Tacazzè altro affluente dell’Atbara. Dal Ieggiù a sud del Lasta se ne dirama una terza che va fin contro il lago Tsana, separando il bacino del Tacazzè da quello dell’Abai, o Nilo Azzurro, e dei suoi affluenti. Quest’ultimo bacino è limitato a sud dal tratto della grande dorsale etiopica che ripiega verso i regni di Kaffa e di Ghera, il cui versante opposto manda le acque ai bacini del Ueri e del Giuba. Al centro dell’Abissinia, ad un’altezza di 1851 m. sul livello del mare trovasi il magnifico lago Tsana, emissario dell’Abai, con una superficie approssimativa di oltre 2000 Kmq. ed una profondità media di circa 50 metri. Ad ovest di questo grande lago, dai monti che lo separano dal Gallabat discendono il Racad e, più importante, l’Atbara che si congiunge al Nilo presso Kartum. L’Abai, l’Atbara e il Tacazzè sono i soli veri fiumi d’Abissinia con acqua perenne; tutti gli altri sono torrenti quasi asciutti nella maggior parte dell’anno, ma che nella stagione delle piogge si ingrossano furiosamente. Tra i fiumi che scendono al Mar Rosso e che sono tutti di poco corso, oltre al Lebka, all’Anseba e al Barca già nominati ed altri minori, sono da notarsi l’Auask, originario dai monti dello Scioa, ed il Golima dall’Enda Moeni, che si perdono entrambi nelle sabbie della costa. Il suolo dell’Abissìnia è tutto sconvolto da giganteschi fenomeni vulcanici che ne hanno rotto e tagliata e sollevata in mille modi la superficie. Le sommità spiccano ovunque nell’azzurro dell’aere calve, cineree, nelle più strane forme e dimensioni e alle più disparate altezze; sovrastando a fianchi ripidi dirupati e brulli, e rinserrando spesso tra pareti di pietra e crepacci auguste gole e profondissimi letti di torrenti; tratto tratto degli ammassi solitari di granito detti Ambe coi fianchi verticali e la sommità piatta torreggiano intorno come titani del cielo. Ma ai piedi dei monti orridi e sterili, tra cui scherzano i nembi e le tempesta e regna desolante lo squallore, si stendono frequenti convalli e pianori ove il verde scherza tra le acque, ove le erbe e le piante sentono tutta la rigogliosità di una vegetazione tropicale, ove l’occhio si riposa, dove ferve la vita, e l’animo si consola. I geografi dividono il territorio abissino in tre zone a ciascuna delle quali corrisponde una fauna, una flora ed un clima speciale. La prima detta dei Kolla è la più bassa e comprende la zona inferiore a 1500 m. In essa il clima è tropicale, e la vegetazione rigogliosissima; vi abbondano dense foreste di palme e boscaglie di ogni specie, e l’erbe crescono ad una prodigiosa altezza. Il suolo vi darebbe ogni sorta di prodotti agricoli, ma la troppa umidità e le pioggie periodiche che dal giugno al settembre trasformano i fondi delle vallate in altrettanti torrenti, rendono i Kolla disabitabili e malsani; numerosi serpenti strisciano fra l’erbe, nei torrenti e nei fiumi vive il coccodrillo, e nelle foreste, allietate da miriadi di variopinti augelli, rugge il leone; e la iena, gli sciacalli ed un’infinita quantità di scimmie fanno all’uomo una poco gradita compagnia. Gli agricoltori e pastori che scendono ai Kolla, generalmente nella notte risalgono più in alto. La seconda zona è detta Uoina Bega (o altipiano delle vigne) e comprende le altezza tra 1500 ai 2500 m. In essa il clima è salubre e temperato, non arrivando mai il calore al disopra dei 25 gradi, nè al disotto dei 5. In questa zona prosperano la vite, l’ulivo, il cotone, l’orzo e la dura, ed altre graminacee; vi sono ottime praterie e vi cresce rigoglioso il caffè. Quivi è agglomerata la popolazione maggiore, gli animali feroci vi sono in minor numero; qui il cavallo e l’elefante addomesticati rendono buoni servigi all’uomo; vi abbondano pure gli uccelli d’ogni specie, il leone vi appare di rado, e la iena sale soltanto di notte a cercare il suo posto tra le carogne abbandonate. La terza zona è quella dei Dega che comprende le alture superiore ai 2500 m. In essa i frequenti geli nuociono alla vegetazione, gli abitanti sono scarsi e solamente dediti alla pastorizia. ⁂ Geografia politica dell’Abissinia. — Le catene montane ed i corsi dei fiumi e torrenti formano la divisione naturale e politica delle varie regioni. Al nord sulla destra del Belesa e del Mareb si stende il territorio etiopico dell’Eritrea, che abbraccia l’Okulè Kusai, il Seraè, l’Amasen, i Bogos ed i bacini superiori del Barca e dell’Anseba. Sulla sinistra del Belesa e del Mareb fino al Tacazzè si stende il Tigrè, che comprende l’Agamè, (cap. Adigrat), il Tigrè propriamente detto (cap. Adua) ed il Lasta (cap. Socota). Oltre il Tacazzè ed intorno al lago Tsana sino al corso superiore dell’Abai, si stende il regno Amhara, il cuore dell’Abissinia (cap. Gondar). Rinchiuso nel gomito fatto dall’Abai, che uscito dal lago Tsana si dirige verso sud-est e poi piega verso ovest e quindi verso nord -ovest per affluire al Nilo Bianco presso Kartum, stà il regno del Goggiam (cap. Monkorer). Oltre l’Abai ed il Bascilo, lungo l’Auasch e sino ai corsi superiori dell’Uebi e del Giuba, stanno lo Scioa (cap. Adis Abeba) e l’Harrar (cap. Harrar). La popolazione complessiva dell’Etiopia è valutata intorno ai 5 milioni di abitanti. ⁂ Costituzione politica dell’Abissinia. — La costituzione politica dell’Abissinia è basata sul sistema feudale che fa capo ad una suprema autorità imperiale, il Negus Neghest. Tutto l’impero comprende quattro regni o principati cioè: l’Amhara, il Tigrè, il Goggiam e lo Scioa ai quali furono recentemente aggiunti altri territori meridionali appartenenti alle tribù dei Galla ed il principato d’Harrar. Attualmente è Negus Neghest, ossia re dei re d’Etiopia, Menelik II re dello Scioa, che successe nel 1889 a Giovanni Cassa morto nella battaglia di Mettemma1. Secondo la costituzione politica abissina, dal Negus Neghest dipendono i re (Negus) ed i principi (Ras) e da questi i capi di Provincie e villaggi (Degiac e Scium) i quali sono prefetti, sindaci, agenti delle imposte e sottocapi militari, nel territorio e nelle popolazioni soggette alla loro giurisdizione. Generalmente queste cariche sono distribuite secondo il sistema ereditario e costituiscono un diritto feudale consacrato dai codici; ma le rivalità e le ribellioni tra capi e dipendenti, appoggiate da partigiani comperati o beneficati turbano le successioni, e non di rado avviene che al posto del legittimo feudatario sia installato dai Negus o dai Ras qualche persona che non ne ha alcun diritto. Tutte le norme di diritto pubblico e privato vigente in Abissinia hanno origine dal così detto codice dei Re (Feta Neghest) e dal Codice Ecclesiastico detto Sinodo. Questi due codici sanciscono il principio della monarchia ereditaria nei discendenti da un primo Menelik, ritenuto figlio di Salomone e della regina Saba, e fondatore della Monarchia Etiopica, e stabiliscono come religione dell’impero la cristiana di rito copto, che riconosce in Gesù Cristo la sola natura divina ed ha una speciale venerazione per Maria Vergine. Sono speciali suoi riti il battesimo a 40 giorni, la circoncisione pei maschi e femmine, una quaresima di 55 giorni, il digiuno di mercoledì e venerdì, il pellegrinaggio a Gerusalemme, ed innumerevoli feste durante l’anno. Il capo della chiesa copta è un Abuna (nostro padre) nominato dal patriarca di Alessandria; non può essere abissino e risiede in Gondar che è il semenzaio dei religiosi. La sua autorità è esclusivamente spirituale e l’unico potere che egli esercita è quello di nominare e consacrare i religiosi. Dopo l’Abuna viene l’Eccighiè che è una specie di principe della chiesa, esercita il potere civile e religioso ed influisce grandemente in tutta la vita pubblica abissina. Dopo l’Abuna e l’Eccighiè, vengono per importanza i Depterà, specie di dottori e professori e cantori della chiesa, che sono le persone più colte dell’Abissinia; molti Depterà funzionano da avvocati e da scrivani, e col titolo di Memer sono nominati capi dei feudi religiosi dell’impero. Quindi vengono una turba di preti, monaci e monache, rozzi, superstiziosi, e ignoranti che vivono più che altro d’accattonaggio. In Abissinia il clero è potente e gode grande rispetto e venerazione; e molti Negus perdettero il trono o l’acquistarono per odio o protezione sua: la fede religiosa degli Abissini, resa più forte dagli urti sostenuti da secoli contro l’islamismo, è grande e sincera; nelle case e nei mercati e nei campi si disputa continuamente di principi religiosi e di dogmi e la vivace fantasia di quei cenciosi, ha popolato tutto il territorio abissino di nomi sacri e venerati come Debra Tabor, Debra Cristos, Debra Libanos, Amba Mariam, Amba Cristos e tanti altri. ⁂ Vita, costumi e caratteri degli Abissini. — La vita ed i costumi dei popoli abissini risentono ancora di uno stato di semibarbarie. Le abitazioni sono quasi tutte capanne ad un sol piano con tetti di paglia e con pareti di rami d’alberi e di mota impastata con sterco di bue; in queste capanne ad una sola stanza abitano alla rinfusa uomini e donne, vecchi e fanciulli e molte volte anche animali; i loro letti sono specie di barelle il cui telaio è intrecciato di pelli di bue o di cammello; non sedie quadri o specchi, non utensili di qualsiasi specie, tranne le armi e qualche coccio di pentola, adornano il meschino abituro. Solo nelle case dei ricchi e dei capi, qualche tappeto cuscino od ombrellino sovrasta al lurido squallore di quelle catapecchie. Il vestito caratteristico degli Abissini consiste per gli uomini nello sciamma, specie di lenzuolo bianco che i capi portano ornato di una striscia rossa, e nel quale si avvolgono le persone sempre, giorno e notte, addormentati o desti; ed al dissotto dello sciamma in un paio di mutandine bianche che scendono strette fino al ginocchio. Le donne invece portano una lunga camicia bianca orlata di rosso cupo intorno al collo e spesso con una croce dello stesso colore disegnata sul davanti. Uomini e donne hanno i capelli comunemente disposti in fitte treccie ed unti di grasso; portano al collo un nastro azzurro al quale è appeso qualche grosso Cristo o reliquia o immagine di Maria. Camminano a piedi scalzi, e solo i ricchi ed i capi, nelle grandi occasioni calzano i sandali. Il loro cibo consiste generalmente in focaccie di orzo o di dura che poi intingono in una salsa piccante di peperoni pesti; questo cibo viene da loro chiamato engerà. Usano molto le carni di bue, di vacca, di pecora e montone cotte nell’acqua o più spesso crude o disseccate al sole; i poveri mangiano anche erbaggi come crescione, radici, asparagi e spinacci. La bevanda favorita in Abissinia è l’idromele o tegg fatto con miele ed acqua fermentata con foglie di mirto secche. Gli Abissini sono generalmente poco puliti, si lavano poche volte e vanno perciò soggetti a molte malattie cutanee, d’occhi, e veneree. Il bucato è sconosciuto fra loro e generalmente gli oggetti di vestiario non si lavano mai, perciò tanto le persone come le case sono infestate da insetti parassiti. Non mancano però, specialmente tra le famiglie dei nobili, coloro che si mantengono abbastanza lindi e ricercati nella persona e nel vestiario, e che usano lavarsi mani e faccia anche tutti i giorni. Altre malattie speciali che affliggono la popolazione abissina sono la tenia o verme solitario, causata dall’uso di carni crude, e che essi combattono con bevande infuse di legno e fiori di cosso; la corea delle donne, o più comunemente ballo di san Vito per il quale esse danno in urli e convulsioni, e che esse attribuiscono più che a malattie uterine, ad esorcismi e malie di nemici. La superstizione rende così sospettosi e guardinghi gli Abissini che quasi tutti temendo il mall’occhio si coprono quando mangiano, o bevono; inoltre nutrono una specie di orrore pei fabbri che essi ritengono iettatori ed amici del diavolo. In Abissinia vive una grande turba di accattoni; la mania del chiedere vi è proverbiale, e si può dire che l’accattonaggio più e meno palese o umiliante fa parte di tutta la vita pubblica abissina, politica, religiosa e civile. Questa strana industria arriva a tale che si usa perfino a forzare i doni dalle persone col far prima loro accettare delle meschine offerte (debito d’ossequio). Il colorito degli Abissini è generalmente castano-scuro; la statura è media, la conformazione del viso è regolare, quella del corpo è prestante e snella negli uomini, che sono svelti, arditi, resistenti ma di poca forza; più morbida e gentile nelle donne la maggior parte delle quali quando sono giovani sono anche belle e piacenti. ⁂ Ordinamento della famiglia. — L’ordinamento della famiglia in Abissinia è basato sulle disposizioni del Codice che stabilisce la monogamia, il matrimonio civile e religioso, la fedeltà coniugale e la cura dei figli; ma la rilassatezza dei costumi fa sì che queste prescrizioni siano pochissimo osservate; perciò si fanno matrimoni nell’uno e nell’altro modo e spesso si disfanno; si pratica la poligamia come tra i mussulmani, e si abbandonano i figli per non mantenerli. Le donne però sono buone, tolleranti e mansuete; esse sopportano il maggior peso nelle cure della famiglia; quando sono maritate conservano una fedeltà esemplare e sono piene di amorevolezza pei figli; l’unica barbara usanza che le deturpa è quella del tripudio osceno sui campi di battaglia, ornandosi il collo dei genitali recisi ai vinti. Anche i figli hanno grande rispetto pei genitori, e sebbene il padre generalmente li trascuri, essi lo hanno quasi sempre in venerazione, specialmente se forte e valoroso in guerra. Le relazioni tra famiglie vicine, sono cortesi ed urbane; le donne ambiscono mostrarsi gentili e premurose e sono molto ospitaliere e caritatevoli. Nelle nozze, nelle nascite e nei funerali, tutti gli amici partecipano alla gioia od al dolore della famiglia in festa od in lutto, e poichè qualunque evento, o lieto, o triste, ivi si solenizza colle danze, col canto e colle smodate libazioni di idromele, queste partecipazioni riescono graditissime e ricercate. ⁂ Delinquenza e Giustizia. — In Abissinia sono rarissimi i furti e le violenze in genere tra famigliari e privati, ma sono frequenti quelli commessi armata mano in campo aperto da molti contro pochi (razzie). La menzogna è popolare come l’accattonaggio; nessuno dice mai la verità senza sotterfugi o restrizioni e pochissimi giurano sinceramente. Le ribellioni ed il brigantaggio sono le peggiori piaghe che infestino l’Abissinia, e la giustizia che emana dai codici o dalle consuetudini è informata a dei principii di barbarie che sanciscono la vendetta del sangue, la pena del taglione, l’estirpazione della lingua agli spergiuri, le mutilazioni ai traditori, l’accecamento, l’impiccazione dei ribelli e l’evirazione dei nemici morti in battaglia. ⁂ Esercito. — L’esercito abissino in pace è formato da tutti i figli, servi e clienti dei capi militari, e da volontari che si aggregano all’uno o all’altro capo. In tempo di guerra possono essere chiamati alle armi tutte le persone valide; in questo caso i capi di villaggi e tutti quelli di nobile famìglia sono anche capi militari; raccolgono le loro truppe e le conducono al luogo indetto per la riunione. I soldati abissini hanno l’obbligo di portarsi dietro quel numero di razioni di vitto che viene stabilito dal Ras o dal Re, quindi sono provveduti con le riserve di questi o con le imposte nei luoghi di passaggio o con razzie. I soldati abissini sono sobrii, si nutrono di poca farina d’orzo, di dura di frumento che cuociono in borgutta, od anche di carne cruda essicata al sole; non hanno uniforme speciale, ma a seconda della loro condizione sociale portano lo stesso vestiario della popolazione. La chiamata alle armi in casi di guerra generalmente si fa per mezzo di pubblico bando che fissa il giorno e l’ora, della radunata e col suono del negarit (specie di tamburo). Le vettovaglie personali sono generalmente portate dai soldati stessi, dalle loro mogli e dai loro figli; quelle del Ras e del Re dai servi e dai quadrupedi. Dopo il Re il grado più importante è quello di Ras, comandante di un’armata, poi di Degiasmacc comandante della retroguardia; vengono poi il Cagnasmacc ed il Guerasmacc, comandanti delle ali di destra e sinistra, ed il Fitaurari comandante dell’avanguardia. Questi sono grandi capi militari e generalmente hanno anche giurisdizione civile sopra un territorio od una provincia. Vengono poi tutti i sotto capi detti Balambaras, Bascià, Turk bascià, ed altri che hanno speciali cariche nei seguiti militari cioè: Agafari (portinai), Asasc (capi di servi), Assalafi (maestri di casa). Gli Scium sindaci dei villaggi assumono talora o l’uno l’altro dei gradi suddetti a seconda delle forze che comandano, e talvolta conservano lo stesso titolo di Scium che può equipararli ad un Degiasmacc ed anche ad un Ras. Negli accampamenti le truppe si dispongono intorno alla tenda del Ras o del Re, costituendosi ripari con frasche, o con tende per chi ne ha, senza ordine di sorta. La tenda del Ras e del Re serve di bandiera, e di segnale per la marcia o per le tappe e per tutte le operazioni di guerra. L’armamento e munizionamento è vario ed incompleto, ma in questi ultimi anni ha subito un notevole aumento e miglioramento. A poco per volta le lancie cadono in disuso, ed il fucile più o meno recente è l’arma generalmente adottata. In seguito alle ultime guerre anche l’artiglieria non è più sconosciuta in Abissinia, e l’ultima campagna contro l’Italia ha dimostrato che essa può mettere insieme un esercito di 200,000 combattenti con 100,000 fucili e 50 pezzi d’artiglieria. ⁂ Lingue e dialetti. — La lingua parlata o scritta in Etiopia è generalmente la così detta Amahrica che ha origine dalle regioni meridionali; è diffusa nello Scioa nell’Amahra, e nel Goggiam. È la così detta lingua ufficiale e si insegna nelle varie scuole dell’impero. V’è poi la lingua sacra o geez, antichissima, che servì per la traduzione della bibbia e colla quale sono scritti tutti i libri sacri; essa è conosciuta soltanto dai preti e dai dotti come da noi il latino. Ma da questa derivarono dialetti che sono parlati in tutta l’Abissinia settentrionale e nelle regioni limitrofe. Cioè la lingua tigrè (dialetto più antico e più affine al geez) parlato nei Mensa, Barca, Habab; e la lingua tigrai o tigrigna (dialetto più moderno e contraffatto) che si parla nell’Eritrea, nello Scirè, nell’Agamè e nell’Enderta fino al Semien. Una speciale lingua detta bilena è parlata nelle regioni dei Bogos e dei Maria, e pare che abbia origine dagli antichi popoli Bileni venutivi sotto l’Impero d’Aureliano nell’anno 350. I mussulmani della costa parlano un dialetto derivato dalla trasformazione della lingua araba. ⁂ Storia. — La storia primitiva dell’Abissinia è avvolta nella più grande oscurità. Vogliono gli etnologi che gli aborigeni etiopi fossero i progenitori dei Barca, Kunama e Sciangalla e arrivassero dalla valle del Nilo; che dopo di essi invadessero l’Etiopia altre genti Camitiche cioè gli Agau, i Fallascià ed i Bogos ed altre ancora, e che specialmente gli Agau costituissero l’antica razza etiopica. L’Asia settentrionale assai fiorente nell’antichità avrebbe poi per l’Egitto e per lo stretto di Bab el Mandeb riversato sull’Etiopia anche due invasioni di genti semitiche che stabilitesi al sud e al nord di essa, vi soggiogarono gli Agau e predominando a nord quivi fondarono l’antico impero d’Axum. La leggenda invece vuole che questo impero sia stato fondato da Menelik I, figlio di Salomone e della regina Saba, il quale da Gerusalemme sarebbe andato alla conquista dell’impero materno conducendo seco gran numero di gente e l’Arca santa degli Ebrei colle tavole di Mosè. Secondo tale leggenda Menelik sarebbe stato il capostipite di una dinastia di Salomonidi che da circa 28 secoli, con circa 3 d’interregno, governerebbe la Etiopia; e l’attuale Menelik II dello Scioa ne sarebbe discendente diretto. In quanto all’Arca santa degli Ebrei ed alle tavole di Mosè la religione abissina afferma, e lo afferma anche il Nebrait di Axum che ne è il custode, e vi si crede da tutta la popolazione, che giacciano depositate nel sacro tempio di questa città in luogo inaccessibile a tutti, e visibìli soltanto a Dio ed al Nebrait stesso. Accogliendo da questa leggenda quanto si può e si vuole, pare però che l’antico impero di Axum godesse d’un certo splendore. Ne fanno fede alcuni grandiosi obelischi esistenti ancora in detta città, sebbene uno di essi coll’iscrizione in greco del re Tolomeo Evergete, significhi che egli più fortunato di Cambise sia riuscito ad impadronirsene, soggiogando gli Etiopi. Caduti i Tolomei, l’impero d’Axum sarebbe ritornato fiorente resistendo ai Romani, avvicinatisi fino alle attuali regioni dei Bogos ed alle spiaggie d’Archico, e stendendo i suoi domini anche sulla vicina Arabia. Verso il 350 dell’Era Volgare per opera di un naufrago greco, San Frumenzio, sbalestrato dai flutti sulla costa etiopica si sarebbe introdotto in Abissinia il cristianesimo che fu sancito dal Concilio di Nicea, donde uscirono poi il codice dei Re abissini (Feta Neghest) e la traduzione in Geez della bibbia. In seguito alle controversie tra la chiesa romana e quella orientale, il cristianesimo abissino si trasformò poi secondo il rito copto che ebbe sede in Alessandria d’Egitto. Narrano le cronache abissine di guerre tremende sostenute dai Negus contro gli egiziani e specialmente contro i popoli della vicina Arabia, nella quale arrivarono a stabilire il loro dominio; narrano pure come verso il 950 una sollevazione interna (degli Agau) cacciasse dal trono la dinastia salomonide che rimase detronizzata fino al 1268, nel qual tempo però, la sede dell’impero invece che ad Axum si trasferì nello Scioa, con grave scapito della potenza etiopica che ricadde nell’oscurità. Dopo la terribile e lunga lotta che l’impero etiopico dovette sostenere contro il sorgere ed il propagarsi dell’Islamismo, avvenne l’invasione di numerose tribù Galla del Sud, che avendo già abbracciato l’Islamismo si stabilirono verso il 1540 nel cuore dell’Abissinia, minacciandone la religione e la compagine proprio allora che un’altro avventuriero ribelle, Maometto Graniè, di Zeila, con un’audace spedizione di mussulmani si avanzava fino ad Axum incendiandolo. In tal frangente il Negus David III chiedeva aiuti ai Portoghesi che nel 1543 sbarcavano in circa 400 a Massaua e riuscivano a battere e ad uccidere il ribelle Maometto ed a ristabilire alquanto la pace dell’Impero. Ad Axum ed a Gondar, sorsero per opera dei portoghesi palazzi e chiese, e presso Adua il chiostro di Fremona; ma poi scoppiarono i dissîdî specialmente religiosi ed i nuovi venuti vennero quasi tutti uccisi. Si intromise allora il Papa ed intervennero i gesuiti, che vi fecero nascere un dissidio così potente da generare la guerra civile; ma poi furono sfrattati ed il negus Fasilidas riproclamò di nuovo la religione copta, quella dell’Impero. Ridotto sempre più debole, ma pur tuttavia sempre strenuamente resistendo ai ripetuti assalti dell’Islamismo e mantenendo salda la sua indipendenza e la sua religione, l’impero etiopico, dopo aver portato la sua sede dallo Scioa a Gondar visse per alcuni secoli in preda all’oscurità, alle ribellioni ed ai rivolgimenti interni, finchè verso la metà del secolo presente, salito al trono il negus Teodoro, avventuriero intrapendente, coraggioso e feroce, l’Abissinia fu tratta in urto contro l’Inghilterra. Teodoro figlio di un capo secondario dell’Amhara, coll’ardimento e col valore aveva saputo concentrare nelle sue mani tutto il potere politico e religioso dell’Impero. Erano suoi vassalli, frementi di ribellione, il capo dello Scioa padre dell’attuale Menelik, che allora viveva presso Teodoro; quello del Goggiam (certo ras Desta), ras Gobasiè nell’Amhara e Giovanni Cassa nel Tigrè. Teodoro nella sua opera unificatrice dell’Impero aveva dimostrato un grande valore ma anche commesso delle efferate crudeltà, che rendevano il suo nome odiato e temuto da tutti. Le continue ribellioni de’ suoi vassalli lo fecero insanire: si dice che in un sol giorno abbia fatto giustiziare più di mille persone, facendone rotolare le teste dalle roccie basaltiche del Wuoggerà. Il suo nome incuteva spavento in tutta l’Etiopia. Un giorno, e non è ben certo per quale motivo, fece incatenare e relegare sopra un’amba alcuni europei inglesi e francesi che si erano recati alla sua corte in Debra Tabor per scopi scientifici e commerciali. Dopo vane preghiere e minaccie per liberarli, l’Inghilterra decise di muovere guerra a Teodoro, ed approfittando dello stato di ribellione interna dei principi vassalli, le fu facile di riuscire nel suo intento. Strinse un trattato d’alleanza con ras Gobasiè dell’Amhara e con Giovanni Cassa del Tigrè, si assicurò della neutralità dei Re del Goggiam e dello Scioa, e con un corpo di 16000 combattenti con circa 40000 quadrupedi e 20000 servi nel 1867-68 salì da Zula nella baia di Anneslei all’altipiano etiopico per la strada di Senafè. Teodoro, che nell’ora del pericolo era stato abbandonato da quasi tutto il suo esercito, si era ritirato coi prigionieri europei e coi pochi soldati rimastigli fedeli sull’Amba di Magdala. Quivi sostenne l’assalto degli Inglesi opponendo una disperata resistenza, finchè visto vana ogni difesa, piuttosto che darsi vivo nelle mani del nemico, si uccise con un colpo di pistola sull’ingresso dell’Amba. La campagna inglese terminò così felicemente grazie al valore delle truppe inglesi, ed alla sapienza del loro capo Sir Napier, ma più specialmente grazie ai milioni di sterline consumati nella impresa (che alcuni fanno arrivare fino a 20), ed alle intestine discordie dell’Abissinia. Se invece dei capi alleati come Giovanni Cassa e Gobasiè, che le furono di guida e di aiuto, e di altre neutralità benevoli come quelle del Goggiam e dello Scioa, l’Inghilterra avesse trovato, come 28 anni dopo l’Italia, tutta l’Etiopia riunita contro di essa, l’impresa di Magdala sarebbe rimasta un sogno, ed il piccolo esercito inglese non avrebbe potuto raggiungere neppure l’altipiano. L’Inghilterra, appena debellato e morto Teodoro, si ritirò completamente dall’Abissinia, nè avrebbe potuto fare altrimenti, accontentandosi dei risultati morali ottenuti. I vantaggi materiali invece andarono tutti in favore di Giovanni Cassa che ingraziatosi Sir Napier, seppe con finissimo accorgimento farsi preferire al Gobasiè ed ottenerne in dono duemila fucili, dodici cannoni ed altri materiali da guerra, coi quali potè affermare maggiormente la sua signoria nel Tigrè ed aspirare alla corona imperiale. Gobasiè intanto si faceva incoronare Negus in Gondar e movendo contro il Goggiam vi detronizzava ras Desta, mettendovi in sua vece il giovane valoroso ras Adal, l’attuale Re del Goggiam; quindi rivolgeva le armi contro il Tigrè, ma dopo lunga ed ostinata battaglia, fu vinto e fatto prigioniero da Giovanni Cassa che si faceva poi incoronare Re d’Abissinia e quindi Negus Neghest (Re dei Re). Seguirono altre lotte interne nelle quali il Negus Giovanni potè sottomettere ras Adal del Goggiam, divenuto poi Re col nome di Tecla Haimanot, finchè gli intrighi tra Munzinger governatore egiziano di Massaua, e Menelik già prigioniero di Teodoro e divenuto poi capo dello Scioa, condussero alla guerra egizio-abissina. La prima fase di questo conflitto fu fatale al suo iniziatore Munzinger, che nel recarsi verso lo Scioa presso il suo alleato Menelik fu sorpreso ed ucciso insieme alla moglie ed a tutti i suoi nel territorio dei Somali. Menelik allora non tardò a smentire l’alleanza egizia chiedendo pace a Re Giovanni, il quale rassicurato così alle spalle potè rivolgere tutti i suoi sforzi verso l’Egitto che intraprendeva le invasioni in Abissinia; e nel 1875 a Gudda Guddi e nel 1876 a Gura due eserciti egiziani, il primo di 6000 uomini, ed il secondo di 20,000, furono quasi interamente distrutti. Giovanni, circondato dall’aureola della gloria, potè consolidare la sua autorità su tutta l’Abissinia; ed anche Menelik nel 1879 si presentò col sasso al collo a fargli atto di sottomissione, ottenendo il perdono delle sue antiche e recenti ribellioni e la nomina a Negus tributario dello Scioa. Da quell’epoca in poi la storia generale dell’Abissinia si connette con quella della nostra Colonia. ↑ Secondo il Cecchi Menelik sarebbe nato nel 1844. Note II. NOTE SULLE TRIBÙ MUSSULMANE DELL’ERITREA. Nel territorio Nubiano, tra le valli del Lebka del Barca e dell’Anseba, e nel litorale del Mar Rosso che si stende da Massaua a Raehita fin contro l’orlo dell’Altipiano etiopico, all’infuori del Sultanato d’Aussa che è semplicemente sottoposto al protettorato dell’Italia, vivono genti di origini diverse che fanno parte diretta della Colonia Eritrea. Qui l’elemento in maggioranza è mussulmano e fervente seguace dell’arabo Profeta, e subisce una certa influenza morale dall’Egitto e dalla Turchia che prima vi dominavano e sono ritenuti come il sacrario della loro patria e della loro religione. La popolazione è ordinata in tribù, nelle quali i vecchi esercitano una autorità patriarcale funzionando da capi militari, politici e religiosi. La paura dei rapaci Etiopi e dei fanatici dervisci li fece accogliere con simpatia il blando dominio degli Italiani, che rispettò i loro averi e le loro vite e non pose alcun ostacolo ai loro costumi famigliari e religiosi. La popolazione è sobria e buona, ma debole e fiacca, refrattaria alle industrie ed al lavoro, soltanto dedita alle pastorizie e scarsamente all’agricoltura. Molte tribù nelle stagioni estive, abbandonano l’arida costa salendo pei pascoli in regioni più elevate e confortate dalle pioggie, e ritornano poi in basso all’inverno; altre fanno continuamente vita randagia trasportando qua e là le loro famiglie e le loro mandre a seconda che il suolo è più fecondo e meno pericolose le insidie dei nemici. Queste tribù girovaganti si dicono di beduini. La popolazione araba è, come l’abissina, attaccata ai riti ed ai precetti religiosi ed è abbastanza morale quantunque la poligamia, sancita senza limite dal Corano, la snervi e abbrutisca la donna assoggettandola ad essere comperata e venduta come una merce, idolatrata nella giovinezza, disprezzata e sottoposta a lavori da schiava nella vecchiaia. Sono speciali suoi riti la circoncisione per gli uomini e l’infibulazione per le donne; le continue fantasie o feste religiose in cui si canta, si strepita, si danza e si giostreggia e contemporaneamente si fa all’amore, glorificando coi versetti del Corano Allah e il suo Profeta; le preghiere e le abbluzioni parecchie volte al giorno; il seppellimento dei morti rivolti verso la Mecca; il pellegrinaggio in questa città; una speciale macellazione delle bestie recidendo il collo; un sacro orrore per la carne di maiale. Il paradiso degli Arabi sta nell’avere un harem di molte mogli che ognuno si provvede a seconda delle sue facoltà e che spera anche di ottenere in cielo come promessa del Profeta. Il colorito degli Arabi è, come quello degli Abissini, in generale castagno; il tipo è piuttosto bello ma meno regolare nel volto e negli arti che quello degli Abissini. Le femmine a 12 anni sono già donne ed in genere simpatiche con begli occhi, bel viso, bel seno e denti candidissimi, quantunque le deturpino i capelli intrecciati e unti cadenti intorno disordinatamente; a 25 sono già invecchiate e divengono poi cispose, macilenti, luride e querule; e col seno scoperto cascante e coi capelli radi impegolati, ributtanti come megere. Gli uomini invece sono baldi e prestanti e scarni ma belli da giovani; più gravi, più seri, e talora pingui ma non brutti e spesso imponenti nella vecchiaia: hanno capelli lanuti talora rasi alla cute o corti, tal’altra lunghi, arricciati o raccolti a piramide intorno al capo. Maschi e femmine portano generalmente per vestiario un semplice grembiale (futa) che si avvolgono intorno alle anche e arriva fino al ginocchio lasciando scoperto tutto il resto della persona; in testa talora un cencio avvolto o cadente o un fez rosso e più spesso niente; ai piedi raramente i sandali nelle grandi occasioni. I più ricchi però se donne, si coprono da capo a piedi tranne gli occhi, se uomini indossano un camicione talare, un giacchettino variopinto e un ricco turbante in testa. Le tribù principali mussulmane sottoposte al nostro dominio sono le seguenti: Nel Samahr — tra il corso del Lebka, l’orlo dell’altipiano etiopico e la baia d’Arafali: Ad Ascar, Ad Cadede, Ad Ha, Ad Azeri, Ad Madhen, Ad Maallum, Ad Sciuma, Belad el Seik, Ghedem Siga, Meshiàlit, Nabera, Rascieda, Taura, Uaria, Miniferi, Assaorta, Teroa. Nelle valli del Barca e dell’Anseba: Ad Sclaraf, Afflenda, Algheden, Baria, Beit Mala, Beni Amer, Bogos e Baza (semi-etiopiche) Habab, Maria, Mensa, Omran. Nella Costa da Arafali a Assab, le tribù Dancale. Queste tribù non hanno storia, sebbene ciascuna vanti leggende e gloriose imprese d’antenati e capostipiti; e se non era l’occupazione italiana, sarebbero state assorbite dall’elemento etiopico o mahdista. Note III. NOTE SUL BENADIR E SULLE SPEDIZIONI DI BOTTEGO * * * La regione dei Somali è chiusa in un triangolo il quale ha per base una linea che dallo stretto di Bab el Mandeb presso Zeila, serpeggia intorno al meridiano di Harrar e si spinge fino a tagliar la costa presso Kismaio; e per vertice il capo Guardafui all’estremo del corno africano che chiude contro l’Arabia il golfo d’Aden. Questa regione litoranea è solcata dai fiumi Giuba, Uebi e Uadi Nogal che hanno foce nell’Oceano indiano, ed è limitata verso l’interno dalle poco conosciute regioni dei Galla. Ha una superficie approssimativa di 1 milione di kmq, suolo petroso e sterile nelle plaghe nord orientali e nell’Ogaden, coltivabile, irrigabile e fecondo nelle Valli del Uebi e del Giuba. Le città principali sorgono nella costa e sono Zeila e Berbera a nord, nella Somalia posta sotto il protettorato inglese; Bender Allula al vertice presso il capo Guardafui nel paese dei Migiurtini governato da un Sultano indipendente alleato dell’Italia; Garat, Obbia e Darat più a sud; e quindi Uarseik Magadixo, Merka, Brava e Kismaio nel Benadir (paese dei porti, da Bender che significa porto). La maggior parte della costa dei Somali prima che scoppiasse la rivolta mahdista e la rivoluzione in Egitto era in potere di questo vicereame tranne alcuni tratti settentrionali intorno al capo Guardafui ove già dominava l’Inghilterra. Sopraggiunti i predetti avvenimenti e venuto il consenso dalla conferenza di Berlino, l’Inghilterra si prese Berbera e Zeila delimitando poi il suo protettorato da Bender Ziadeh fino all’imboccatura del golfo di Tadgiura; e gli altri luoghi più a sud furono lasciati ai sultani locali. L’Italia, entrata allora in lizza nel movimento coloniale diresse i suoi sguardi dalle foci dell’Uadi Nogal a quelle del Giuba e con una serie di pratiche fatte coi predetti Sultani, s’assise protettrice e dominatrice su gran parte della costa orientale della Somalia. Cominciò il Sultano d’Obbia, ribelle a quello dei Migiurtini, a chiedere il protettorato dell’Italia, che gli fu concesso dal R. Incrociatore Dogali l’8 febbraio 1889. Il 7 aprile successivo anche il sultano dei Migiurtini cedeva all’Italia la sovranità del litorale da ras Auad al capo Beduin. Nell’Agosto di detto anno, in seguito ad accordi tra l’Inghilterra, l’Italia e il Sultano del Zanzibar, venivano cedute in affitto all’Italia, le cinque stazioni di Kismaio, Brava, Merka, Mogadixo e Uarseik, le prime con un circuito di 18 km. intorno, e l’ultima di 8; in seguito, coi protocolli 24 marzo e 15 aprile 1891 l’Italia estese la sua influenza anche sui territori limitrofi, e strinse anche un patto col sultano dei Migiurtini che lo obbliga a non cedere il suo territorio e a non accettare il protettorato di qualsiasi altra potenza. Quindi consolidò la presa in affitto delle predette stazioni del Benadir, affidandole alla compagnia V. Filonardi e compagni, per farvi i primi esperimenti agricoli. In seguito ai buoni risultati ottenuti, si costituì una nuova compagnia Milanese del Benadir che avrebbe dovuto subentrare a quella Filonardi e C; ma sopraggiunto il disastro d’Adua, che ebbe contraccolpo fin laggiù, questa tardò ad installarsi e frattanto la direzione delle stazioni del Benadir fu commessa ad Antonio Cecchi, il noto viaggiatore da Zeila alla frontiera del Kaffa, ed allora console a Zanzibar, allo scopo di preparare la cessione delle terre alla nuova compagnia. Ma anche in questi paraggi la politica coloniale italiana doveva essere funestata dal sangue. Le popolazioni somale non sono meno selvagge e rapaci dei loro vicini galla ed etiopi, e quando sperano di ottenere l’impunità sono pronte ad ogni delitto. Già fin dal dicembre 1887, sbarcando una lancia del Volta sulla Costa di Uarseik vi rimanevano trucidati il sottotenente di vascello Zavaglia ed il macchinista Bertorello. Nell’estate del 1896 era assassinato lo stesso residente a Merka sig. Trevis, e prima avevano già lasciata la vita, in quella regione anche i viaggiatori italiani Porro, Sacconi e Talmone. Ora si preparava un lutto maggiore. Il 25 novembre 1896 il console Cecchi con 23 italiani e 70 ascari intraprese un’escursione da Mogadixo sul Sebeli per esplorare il terreno e recarsi a visitare il sultano di Cheledi. Costretto a passare la notte in una boscaglia presso un villaggio detto Lafolè, dopo la mezzanotte fu assalito proditoriamente dagli indigeni che vennero respinti; ma all’alba dell’indomani questi ritornarono all’assalto in gran numero, e mentre il piccolo drappello disponevasi al ritorno, dopo accanita lotta lo disfecero quasi completamente a colpi di frecce avvelenate. Rimasero morti il console Cecchi, i capitani di fregata Mogiardini e Maffei, gli ufficiali di marina Sanfelice, De Cristofaro, Baraldi, Guzolini, Smuraglia, Gasparini e Baroni; ed altri quattro italiani, con molti ascari, il cui resto fu disperso. Accorsa subito in loro soccorso una compagnia di sbarco dalla costa, fu anch’essa assalita e costretta a ritornare. Sugli assassini di Lafolè il governo italiano fece eseguire una terribile vendetta, ma purtroppo essa non servì a togliere l’impressione dolorosa che il nuovo eccidio degli italiani produsse nella nostra patria, e il danno arrecato anche agli interessi generali del Benadir, il cui sviluppo dopo Adua e dopo questa novella scossa, rimase alquanto paralizzato1. Ma la serie degli avvenimenti dolorosi che vennero a turbare la politica coloniale italiana non era finita. La Società Geografica italiana d’accordo col Governo, fin dalla primavera del 1895 avevano allestito una spedizione coll’intendimento di inviarla nelle regioni dell’alto Giuba. L’esplorazione di questo fiume aveva già formato la gloria dell’intrepido capitano Vittorio Bottego che nel 1892-93, partendo da Berbera nel golfo d’Aden e traversando l’Ogaden ed altre regioni mai battute da piede europeo aveva, potuto scoprire i rami superiori, Helmal, Canale Doria e Daua Parma che lo formano, e quindi ne aveva seguito e studiato il corso fino a Lugh, ed a Bardera, il tutto poi descrivendo in un’opera magistrale: Il Giuba esplorato. Perciò egli fu posto a capo anche della nuova spedizione, di cui facevano parte il dottor Maurizio Sacchi ed i tenenti Vanutelli e Citerni con 250 ascari armati. Essa si concentrò a Brava nel Benadir e quindi, il 12 ottobre 1895, mosse per Lugh sul Giuba dove per incarico del Governo fondò poi una stazione commerciale, lasciandovi il capitano Ugo Ferrandi con 43 ascari e alzandovi la bandiera italiana. Il 27 dicembre la spedizione lasciò Lugh e seguendo il Ganana e quindi il Daua si diresse verso la regione dei Boran e dei laghi superiori arrivando fino a Burgi ove era già morto il viaggiatore Eugenio Ruspoli. Quivi la spedizione sostò alquanto, quindi il 1. maggio mosse tra mille peripezie in direzione dello Scioa scoprendo il bellissimo lago Pagadè, da Bottego battezzato poi col nome di Regina Margherita. Tra i laghi Pagadè e Ciamò, già scoperto da Ruspoli, e nel Gamò, Bottego trovò delle plaghe ridenti e popolate, ricche d’acqua, coltivate a dura e a cotone, fertilissime e, tali, da rivaleggiare colle più belle contrade dell’Italia settentrionale. Il 1. luglio 1896 la spedizione, proseguendo verso Ghera e Caffa, giunse all’Omo (detto poi Omo Bottego) costeggiando il quale andò poi ai laghi Rodolfo e Stefania, dove trovò una regione così ricca di elefanti che vi potè accumulare un’enorme quantità d’avorio. Distaccatosi dalla spedizione il dottor Sacchi per accompagnare questo avorio alla costa, Bottego sui primi di novembre proseguì per la sponda occidentale del lago Rodolfo, dirigendosi a nord ovest e raggiungendo i corsi di un altro Giuba e dell’Upeno (dedicato a Saint Bon) affluenti del Sobat che sbocca nel Nilo presso Fascioda. (Così Bottego era precursore di Bonchamps, Marchand e Macdonald verso la capitale dei Scilluk.) Ma risalite le sponde dell’Upeno e spintasi fino a Legà tra gli Uallegà a sud-ovest del Goggiam e dello Scioa, la spedizione, nella primavera del 1897, fu assalita proditoriamente dagli Amahrà accorsi in gran numero, sopraffatta e depredata. Vi morì strenuamente il duce, e i due tenenti Vannutelli e Gitemi riparando verso Adis Abeba ed Harrar, potevano trarre in salvo gran parte dei materiali scientifici della spedizione. La stessa triste fine faceva intanto il dottor Sacchi nell’accompagnare la carovana distaccatasi al lago Rodolfo. Questa impresa grandiosa del capitano Bottego ha lasciato tali traccie nella storia delle scoperte geografiche da far rivaleggiare il suo nome con quelle dei più grandi esploratori moderni. Sopra circa 6000 km. di percorso, più di 3000 non erano mai stati toccati da piede europeo; e la scoperta della defluenza dell’Omo, e del Sagan, del grande lago Pagadè e l’esplorazione dell’alto corso del Sobat, ultimo affluente di destra del Nilo, unitamente a quella già compiuta importantissima del Giuba, gli intrecciano una corona di gloria che non si sfronderà mai. ↑ Ora un progetto di riordinamento già presentato al Parlamento, si spera che gli infonderà novello e duraturo vigore. In questi ultimi giorni sta pure installandosi nel Benadir la nuova compagnia milanese. Note IV. DOCUMENTI * * * Indice Trattato d'Uccialli Convenzioni addizionali Protocole a) Trattato d’Uccialli. Art. I. — «Vi saranno pace perpetua ed amicizia costante tra Sua Maestà il Re d’Italia e Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia e i loro rispettivi eredi, successori, sudditi e popolazioni protette. Art. II. - «Ciascuna delle parti contraenti potrà essere rappresentata da un agente diplomatico accreditato presso l’altra, e potrà nominare consoli, agenti ed agenti consolari negli Stati dell’altra. «Tali funzioni godranno di tutti i privilegi ed immunità secondo le consuetudini dei Governi europei. Art. III. — «A rimuovere ogni equivoco circa i limiti del territorio sopra i quali le due parti contraenti esercitano i diritti di sovranità, una commissione speciale, composta di due delegati italiani e due etiopici, traccerà sul terreno con appositi segnali permanenti una linea di confine, i cui capisaldi siano stabiliti come appresso: a) La linea dell’alto piano segnerà il confine, etiopico-italiano; b) Partendo dalla regione di Arafali: Halai, Saganeiti ed Asmara saranno villaggi nel confine italiano; c) Adi Nefas ed Adi Johannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano; d) Da Adi Johannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-etiopico. Art. IV. — «Il convento di Debra Bizen con tutti i suoi possedimenti resterà proprietà del governo etiopico, che però non potrà mai servirsene per scopi militari. Art. V. — «Le carovane da o per Massaua pagheranno sul territorio etiopico un solo dritto di dogana di entrata dell’8 per cento sul valore della merce. Art. VI. — «Il commercio delle munizioni da o per l’Etiopia attraverso Massaua sarà libero per il solo Re dei Re d’Etiopia. «Ogni qual volta questi vorrà ottenere il passaggio di tali generi dovrà farne regolare domanda alle autorità italiane, munita del sigillo reale. «Le carovane con carico di armi e di munizioni vi agiranno sotto la protezione e con la scorta di soldati italiani fino al confine etiopico. Art. VII. — «I sudditi di ciascuna delle due parti contraenti potranno liberamente entrare, viaggiare uscire coi loro effetti e mercanzie nel paese dell’altra, e godranno della maggiore protezione del Governo dai suoi dipendenti. «È però severamente proibito a gente armata di ambo le parti contraenti di riunirsi in molti od in pochi a passare i rispettivi confini collo scopo d’imporsi alle popolazioni, e tentare con la forza di procurarsi viveri e bestiame. Art. VIII. — «Gl’Italiani in Etiopia e gli Etiopi in Italia o nei possedimenti italiani potranno comprare o vendere, prendere o dare in affitto, e disporre in qualunque altra maniera delle loro proprietà, non altrimenti che gli indigeni. Art. IX. — «È pienemente garantita in entrambi gli Stati la facoltà per i sudditi dell’altro di praticare la propria religione. Art. X. — «Le contestazioni o liti fra italiani in Etiopia saranno definite dall’autorità italiana in Massaua o da un suo delegato. «Le liti fra Italiani e Etiopi saranno definite dall’autorità italiana in Massaua o da un suo delegato e da un delegato dell’autorità etiopica. Art. XI — «Morendo un italiano in Etiopia o un Etiope in territorio italiano, le autorità del luogo custodiranno diligentemente tutta la sua proprietà e la terranno a disposìzione dell’autorità governativa a cui apparteneva il defunto. Art. XII. — «In ogni caso o per qualsiasi circostanza gl’italiani imputati di un reato saranno giudicati dall’autorità italiana. «Per questo l’autorità etiopica dovrà immediatamente consegnare all’autorità italiana in Massaua gli italiani imputati di avere commesso un reato. «Egualmente gli etiopi imputati di reato commesso, in territorio italiano saranno giudicati dall’autorità etiopica. Art. XIII. — «Sua Maestà il Re d’Italia e Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia si obbligano a consegnarsi reciprocamente i delinquenti che possono essersi rifugiati, per sottrarsi alla pena, dai domini dell’uno nei domini dell’altro. Art. XIV. — «La tratta degli schiavi essendo contraria ai principi della religione cristiana, Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia s’impegna d’impedirla con tutto il suo potere in modo che nessuna carovana di schiavi possa attraversare i suoi Stati. Art. XV. — «Il presente trattato è valido in tutto l’Impero etiopico. Art. XVI. — «Se nel presente trattato, dopo cinque anni dalla data della firma, una delle due alte parti contraenti volesse fare introdurre qualche modificazione, potrà, farlo, ma dovrà prevenirne l’altra un anno prima, rimanendo ferma ogni e singola concessione in materia di territorio. — Art. XVII. — «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre Potenze e Governi. Art. XVIII. — «Qualora S. M. il Re dei Re d’Etiopia intendesse accordare privilegi speciali a cittadini di un terzo Stato per stabilire commerci ed industrie in Etiopia, sarà sempre data, a parità di condizioni, la preferenza agl’italiani. Art. XIX. — «Il presente trattato, essendo redatto in lingua italiana ed amarica, le due versioni concordando perfettamente fra loro, entrambi i testi si riterranno ufficiali, e faranno sotto ogni rapporto pari fede. Art. XX. — «Il presente trattato sarà ratificato. «In fede di che il conte Pietro Antonelli in nome di S. M. il Re d’Italia, e S. M. Menelik Re dei Re d’Etiopia in nome proprio, hanno firmato e apposto il loro sigillo al presente Trattato, fatto nell’accampamento di Uccialli il 25 miazia 1881, corrispondente al 2 maggio 1889. (L. S.) «Per Sua Maestà il Re d’Italia (Bollo Imperiale d’Etiopia) “ Pietro Antonelli. b) Convenzione addizionale al Trattato d’Uccialli. Art. 1. — «Il Re d’Italia riconosce re Menelik imperatore d’Etiopia. Art. 2. — «Re Menelik riconosce la sovranità dell’Italia nelle colonie che vanno sotto il nome di possedimenti italiani nel Mar Rosso. Art. 3. — «In virtù dei precedenti articoli sarà fatta una rettificazione dei due territori, prendendo a base il possesso di fatto attuale, per mezzo dei delegati che al tenore dell’articolo III del trattato di maggio 1889 (25 miazia 1881) saranno nominati dal Re d’Italia e dall’Imperatore d’Etiopia. Art. 4. — «L’Imperatore d’Etiopia potrà far coniare pei suoi Stati una moneta speciale di un peso e di un valore da stabilirsi di comune accordo. Essa sarà coniata nelle zecche del Re d’Italia, ed avrà corso legale anche nei territori posseduti dall’Italia. «Se il Re d’Italia conierà una moneta pei suoi possedimenti africani, essa avrà corso legale in tutti i regni dell’Imperatore d’Etiopia. Art. 5. — «Un prestito di quattro milioni di lire italiane dovendo essere contratto dall’Imperatore d’Etiopia con una banca italiana, mercè la garanzia del governo d’Italia, resta stabilito che l’Imperatore d’Etiopia dà di sua parte al governo italiano come garanzìa pel pagamento degli interessi e per l’estinzione della somma capitale, gli introiti delle dogane di Harar. Art. 6. — «L’Imperatore d’Etiopia, mancando alla regolarità di pagamento delle annualità da convenirsi con la banca che fa il prestito, dà e concede al governo italiano il diritto di assumere l’amministrazione delle dogane suddette. Art. 7. — «Metà della somma, ossia due milioni di lire italiane, sarà consegnata in moneta d’argento; l’altra metà rimarrà depositata nelle casse dello Stato italiano, per servire agli acquisti che l’Imperatore di Etiopia intende di fare in Italia. Art. 8. — Resta inteso che i diritti di dogana dell’articolo V del sopracitato trattato fra l’Italia e l’Etiopia si applicheranno non solo alle carovane da o per Massaua ma a tutte quelle che scenderanno per qualunque strada dove regna l’imperatore di Etiopia. Art. 9. — Così pure resta stabilito che il 3° comma dell’articolo XII del sopracitato trattato è abrogato e sostituito dal seguente: «Gli etiopi che commettessero un reato in territorio italiano saranno giudicati sempre dalle autorità italiane.» Art. 10. = «La presente convenzione è obbligatoria non solo per l’attuale Imperatore di Etiopia, ma anche pei suoi eredi e successori nella sovranità di tutto o di parte del territorio sul quale re Menelik ha dominio. Art. 11. — «La presente convenzione sarà ratificata, e le ratifiche saranno scambiate il più presto possibile. «In fede di che il cavaliere Francesco Crispi in nome di Sua Maestà il Re d’Italia ed il degiasmacc Maconen in nome Sua Maestà l’Imperatore di Etiopia, hanno firmato e apposto il loro sigillo alla presente Convenzione fatta in Napoli il 1° ottobre 1889, ossia il 22 mascarram 1882 della data etiopica. «(L. S.) Maconen. «(L. S.) F. Crispi». c) Delimitazione della sfera d’influenza italiana. «Protocole. «Les soussignés, «Marquis de Rudini, président du conseil et ministre des affaires étrangères de S. M. le Roi d’Italie; Marquis de Dufferin et Ava, ambassadeur de S. M. la Reine d’Angleterre, Impératrice des Indes, «Après mûr examen des intérêts respectifs des deux pays dans l’Afrique orientale sont convenu de ce qui suit: «1° La ligne de démarcation dans l’Afrique orientale, entre les sphères d’influence respectivement réservées à la Grande Bretagne suivra, à partir de la mer, le thalweg du fleuve Juba jusqu’au 6° de latitude nord, Kismayu avec son territoire à la droite du fleuve restante ainsi à l’Angleterre. La ligne suivra ensuite le parallele 6° nord jusq’au méridien 35° est Greenwich, qu’elle remontera jusqu’au Nil Bleu. «2° Si les explorations ultérieures venaient, plus tard, en indiquer l’opportunité, le tracé suivant le 6° latitude nord et le 35° long.-est Greenwich pourra, dans ses details, être amendé d’un commun accord d’après les conditions hydrographiques et orographiques de la contrée. «Il y aura, dans la station de Kismayu et son territoire égalité de traitement entre sujets et protégés des deux pays, soit pour leurs personnes, soit à l’égard de leurs biens, soit enfin en ce qui concerne l’exercice de toute sorte de commerce et industrie. «Fait à Rome, en double exemplaire, ce 24 mars 1891. «(L. S.) Rudini. «(L. S.) Dufferin and Ava.» «Protocole. «Désirant compléter dans la direction du nord, jusqu’à la Mer Rouge la démarcation des sphères d’influence respective, entre l’Italie et l’Angleterre, que les deux Parties ont déja arrêtée, par le protocole du 24 mars dernier, depuis l’embouchure du Juba, dans l’Océan Indien, jusqu’à l’intersection du 35 long.-est Greenwich, avec le Nil Bleu, les soussignés; «Marquis de Dufferin et Ava, ambassadeur de S. M. la Reine d’Angleterre, Impératrice des Indes. «Marquis de Rudini, président du Conseil et ministre des affaires étrangères de S. M. le Roi d’Italie, sont convenus de ce qui suit: «I. La sphère d’influence réservée à l’Italie est limitée, au nord et à l’ouest, par une ligne tracée depuis Ras Kasar, sur la Mer Rouge, au point d’intersection du 17me parallele nord avec le 37me méridien est Greenwich. Le tracé, après avoir suivi le méridien jusq’au 16° 30’ lat. nord, se dirige, depuis ce point, en ligne droite à Sabderat, laissant ce village à est. «Depuis ce village le tracé se dirige au sud jusq’au point, sur le Gash, a 20 milles anglais en amont de Kassala, rejoignant l’Atbara au point indiqué comme étante un gué dans la carte de Werner Munzinger «Originalkart von Nordabessinien und den Ländern am Mareb, Barca, und Ansaba.» de 1814 (Gotha, Justus Perthes), et situé au 14° 52’ lat. nord. Le tracé remont ensuite l’Atbara jusq’au confluent du Kor Kakamot (Hamacot), d’ou il va dans la direction d’ouest jusqu’à la rencontre du Kor Lemsen, qu’il redescend jusqu’à son confluent avec le Rahad. Enfin, le tracé, après avoir suivi le Rahad pour le bref trajet entre le confluent du Kor Lemsen et l’intersection du 33° long. est Greenwich, s’identifiera, dans la direction du sud, avec ce méridien jusqu’à la rencontre du Nil Bleu, sans amendements ultérieurs de détail d’après les condition hydrographiques et orographiques de la contrée. «II. Le gouvernement italien aura la faculté, au cas ou il serait-obligé de la faire pour les besoins de la situation militaire, d’occuper Kassala et la contrée attenante jusqu’à l’Atbara. Cette occupation ne pourra, en aucun cas, s’étendre au nord, ni au nord-est de la ligne suivante: «De la rive droite de l’Atbara, en face de Gos Rejeb, la ligne va dans la direction d’est jusqu’à l’intersection du 36 méridien est Greenwich; de là, tournant au sud est, elle passe à trois milles au sud des points marqués Filik et Metkinab dans la carte précitée de W. Munzinger, et «rejoint le tracé mentionné dans l’art. I à 25 milles anglais au nord de Sabderat, mesurés le long du dit tracé. «Il est cependant convenu, entre les deux gouvernements, que toute occupation militaire temporaire sur le dit territoire additionnel spécifié dans cet article n’abrogera pas les droits du gouvernement égyptien sur le dit territoire, mais ce droit demeureront seulement en suspens jusqu’à ce que le gouvernement égyptien sera en mesure de réoccuper le district en question, jusqu’au tracé, indiqué dans l’art. I de ce protocole, et d’y mantenir l’ordre et la tranquillité. «III. Le gouvernement italien s’engage à ne construire sur l’Atbara, en vue de l’irrigation aucun ouvrage qui pourrait sensiblement modifier la défluence dans le Nil. «IV. L’Italie aura, pour se sujets et protégés, ainsi que pour leurs marchandises, le passage en franchise de droits sur la route entre Metemma et Kassala, touchant successivement El Affareh, Doka, Suk-Abu-Sin (Ghederef) et l’Atbara. «Fait à Rome en double exemplaire ce 15 avril 1891. «(L. S.) Rudini. «(L. S.) Dufferin and Ava.» ELENCO DEGLI UFFICIALI DECORATI al valor militare pei principali fatti d’arme avvenuti nella Colonia Eritrea dall’anno 1887 al 1897. Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. SAATI 25 Gennaio 1887 Magg. Boretti G. Battista 1 Capit. Sartorio Napoleone 1 Tenen. Bonessi Cesare 1 Croce Ireneo 1 Cuomo Federico 1 Noè Giuseppe 1 Sottoten. Bescali Annibale 1 Tenen. Gallotti Vincenzo 1 Zocca Araldo 1 Sottoten. Broggi Antonio 1 Gotti Enrico 1 Cusmano med. Enr. 1 DOGALI 26 Gennaio 1887 Ten. col. De Cristoforis Tom. 1 Capit. Michelini Carlo 1 Bonetti Pio 1 De Benedictis Andrea 1 Longo Vito 1 Puglioli Cesare 1 Gasparri medico Nicola 1 Tenen. Comi Girolamo 1 Di Bisogno Vincenzo 1 Feliciani Luigi 1 Fusi Luigi 1 Galanti Luigi 1 Gattoni Luigi 1 Griffo Carmelo 1 Saccani Pietro 1 Sburlati Ernesto 1 Tirone Giovanni 1 Ferretti medico Angelo 1 Sottoten. Bellentani Giovanni 1 Dessi Enrico 1 Lombardini G. Batt. 1 Martello Pietro 1 Tofanelli Luigi 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. GHINDA Marzo 1888 Tenen. Baronis Luigi Dav. 1 Poli Umberto 1 AGORDAT contro i dervisci Giugno 1890 Colon. Arimondi Giuseppe 1 Capit. Fara Gustavo 1 Tenen. Cristofano Raffaele 1 Issel Adriano 1 Spreafico Michele 1 Pennazzi Garibaldi 1 Contro i dervisci presso il forte d'Agordat Dicembre 1893 Colon. Cortese Giovanni Uff. Magg. Fadda Giuseppe Cav. Salsa Tommaso id. Capit. Galliano Giuseppe 1 Ciccodicola Federico 1 Cotta Ermenegildo 1 Catalano Luigi 1 Carchidio Malvotti Francesco 1 Forno Luigi 1 Framarin Alessandro 1 Grossi Giuseppe 1 Noè Giuseppe 1 Oddone Luigi 1 Verdelli Vittorio 1 Tenen. Borla Augusto 1 Brizio Giovanni 1 Colmia Pissotto Giovanni 1 Giraud Oreste 1 Miani Antonio 1 Pennazzi Lincoln 1 Capit. Bianchini Edoardo 1 De Bernardis Michele 1 Tenen. Bodrero Alessandro 1 Bonara Ugo 1 Benincasa Francesco 1 Barbaro Gaetano 1 Castello Andrea 1 De Marchi Ernesto 1 De Dominicis Gius. 1 Della Chiesa-Della Torre Federico 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Frizzi Pietro 1 Grampa Riccardo 1 Giannini Carlo 1 Leo Casale Vincenzo 1 Magnaghi Ermenegildo 1 Masotto Umberto 1 Magiagalli Michele 1 Manfredini Marzio 1 Olivari Emilio 1 Pavoni Alessandro 1 Pini Cesare 1 Roversi Ricciotti 1 Volpicelli Umberto 1 Vibi Arnaldo 1 Presa di Cassala Luglio 1894 Mag. Gen. Baratieri Oreste Com. id. Arimondi Giuseppe Uff. Magg. Hidalgo Stefano id. Capit. Salsa Tommaso 1 Spreafico Michele Cav. Barbanti Silva 1 Folchi Tobaldo 1 Giardino Gaetano 1 Martinelli Vittorio 1 Persico Salvatore 1 Tenen. Angherà Annibale 1 Barattieri di S. Pietro Vermondo 1 Baruto Giovanni 1 Capit. Spech Davide 1 Tenen. Bonora Ugo 1 Barale Giovanni 1 Benincasa Francesco 1 Celoria Candido 1 De Dominicis Giuseppe 1 Fioccardi Alberto 1 Fuso Giacomo 1 Lori Annibale 1 Leo Casale Vincenzo 1 Vecchi Augusto 1 Bucino Med. Tobia 1 Sottoten. Ferrari Salustio 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. DEBRA AILÀ Ottobre 1895 Magg. Ameglio Giovanni Cav. Capit. Angherà Domenico 1 Martini Giuseppe 1 Pinelli Gaspare 1 Tenen. Miani Antonio 1 Sapelli Alessandro 1 Costa Med. Quinto 1 Capit. Bignami Achille 1 Canovetti Luigi 1 Issel Adriano 1 Tenen. Bodrero Alessandro 1 Caruso Cosimo 1 Chiarini Raffaele 1 Grampa Riccardo 1 Guglielminetti Guglielmo 1 Lucca Carlo 1 Manfredini Marzio 1 Pantano Gherardo 1 Petracchi Aurelio 1 Riguzzi Alfonso 1 Rossi Luigi 1 Scala Raffaele 1 Schelembrid Gennaro 1 Volpicelli Umberto 1 HALAI e COATIT Dicem. 1894 Genn. 1895 Mag. Gen. Baratieri Oreste 1 Magg. Toselli Pietro Uff. Capit. Castellazzi Federico Cav. Folchi Tebaldo Cav. Tenen. Sanguinetti Giovanni 1 Arimondi Giuseppe 1 Magg. Galliano Giuseppe 1 Gigli Cervi Giovanni 1 Hidalgo Stefano 1 Salsa Tommaso 1 Capit. Artale Carlo 1 Alferazzi Alfredo 1 Barbanti Silva Edgardo 1 Ciccodicola Federico 1 Cantoni Ernesto 1 Cotta Ermenegildo 1 Gentile Nicolò 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Capit. Galli Giovanni 1 Olivari Emilio 1 Pavesi Angelo 1 Pisani Michele 1 Verdelli Vittorio 1 Tenen. Angherà Annibale 1 Bessone Ettore 1 Bodrero Alessandro 1 Bonora Ugo 1 Borra Augusto 1 Beruto Giovanni 1 Basile Giovanni 1 Craveri Federico 1 Camozzini Giovanni 1 Castellani Arnaldo 1 Cingia Pietro 1 Cariello Gabriele 1 Celoria Candido 1 De Marco Girolamo 1 De Stefano Gennaro 1 De Feo Florindo 1 De Marchi Ernesto 1 Guglielminetti Guglielmo 1 Giannini Carlo 1 Gallarini Aldo 1 Lucca Carlo 1 Mulazzeni Arturo 1 Mangiagalli Michele 1 Mulazzani Nabele 1 Pantano Gherardo 1 Romano Raffaele 1 Riguzzi Alfonso 1 Soliani-Raschini Vittorio 1 Spreafico Ferdinando 1 Silvestri Vittorio 1 Scalfarotto Giovanni 1 Tarlazzi Luigi 1 Tiretta Ignazio 1 Uccelli Azzolino 1 Volpicelli Umberto 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Vecchi Augusto 1 Vibi Arnaldo 1 Ten. med. Goppola Nicola 1 Mozzetti Eliseo 1 Virdia Tommaso 1 Sottoten. Ferrari Salustio 1 Fur. Mag. Molinari Attilio 1 AMBA ALAGÈ Dicembre 1895 Magg. Toselli Pietro 1 Capit. Vuillermoz Felice 1 Angherà Domenico 1 Canovetti Luigi 1 Issel Adriano 1 Persico Salvatore 1 Tenen. Ricci Domenico 1 Bodrero Alessandro 1 Barale Giovanni 1 Bruzzi Alieti Carlo 1 Bazzani Simone 1 Cariello Gabriele 1 Libera Ettore 1 Mazzei Elia 1 Manfredini Marzio 1 Mulazzani Natale 1 Messina Francesco 1 Pagella Vittorio 1 Sansoni Piero 1 Scala Raffaele 1 Tiretta Ignazio 1 Volpicelli Umberto 1 Ten. med. Jacopetti Edgardo 1 Sottoten. Molinari Attilio 1 MACALLÈ Dicem. 1895 Genn. 1896 Ten. colon. Galliano Giuseppe 1 1 Cap. Benucci Torquato 1 Castellazzi Federico 1 De Bailon Gaetano 1 Olivari Emilio 1 Mozzetti Med. Eliseo 1 Tenen. Amendolaggine Nic. 1 Basile Gennaro 1 Cavazzini Eugenio 1 De Feo Florindo 1 Francone Francesco 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Luccio Domenico 1 Moltedo Guido 1 Paoletti Giulio 1 Partini Umberto 1 Riguzzi Alfonso 1 Rogusin Augusto 1 Raimondo G. Batt. 1 Torelli Nicola 1 Ten. Cont. Giusto Placido 1 Sottoten. Frignani Ippio 1 Galvagno Giacomo 1 Fur. Mag. Magno Giuseppe 1 Baderna Pompeo 1 Furiere Robiglio Pietro 1 Monte Mocram-Tucruf Adigrat-Alequà-Legat Febbraio-Maggio 1896 Colon. Stevani Francesco 1 Com. Ten. Pagella Vittorio 1 Capit. Spreafico Michele Uff. Magg. Prestinari Marcello Cav. Capit. Vignola Giuseppe id. Zoli Vincenzo id. Magg. Amadasi Luigi 1 Ameglio Giovanni 1 Hidalgo Stefano 1 Capit. Alferazzi Alfredo 1 Brunelli Giacomo 1 Bramanti Nazzareno 1 Berrini Giuseppe 1 Corapi Francesco 1 De Bernardis Mich. 1 Martinelli Vittorio 1 Magnaghi Ermen. 1 Pelizzoni Dante 1 Paoletti Raffaele 1 Sormani Italo 1 Antonucci Alfoaso 1 Bessone Ettore 1 Tenen. Bellotti Bon Luigi 1 Bartoli Perugino 1 Benetti Augusto 1 Bernardis Vittorio 1 Bruno Rinaldo 1 Cuoco Francesco 1 Caputo Mario 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Cerrina Enrico 1 Chiarini Raffaele 1 Camozzini Giovanni 1 Crispi Francesco 1 Cisterni Cuore 1 Cantù Giuseppe 1 De Concilis Teodoro 1 Di Salvio Gaetano 1 De Giovanni Carlo 1 De Luca Michelangelo 1 De Dominicis Giuseppe 1 Della Chiesa - Della Torre Federico 1 De Rossi Giuseppe 1 Del Monte Alessandro 1 Ferrari Salustio 1 Fabre Giorgio 1 Gadducci Egisto 1 Genco Giovanni 1 Jemina Mario 1 Mosca Riate Romolo 1 Millo Antonio 1 Mangiagalli Michele 1 Miani Antonio 1 Maggiani Attilio 1 Negretti Luigi 1 Negri Raffaele 1 Negro Giacomo 1 Oro Vincenzo 1 Paiola Ulderico 1 Partini Umberto 1 Pancallo Fortunato 1 Raimondo G. Battista 1 Racina Carlo 1 Scoccia Nicola 1 Sapelli Alessandro 1 Stella Giuseppe 1 Turotti Agostino 1 Torelli Nicola 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Sottoten. Fossati Reyneri Alberto 1 Capit. Gallina Guiscardo 1 Tenen. Alcioni Edgardo 1 Carrari Giovanni 1 Carrara Carlo 1 Cristiano Raffaele 1 Corridori Giovanni 1 Cimino Giuseppe 1 Di Giorgio Antonio 1 Dompè Paolo 1 Gabbiano G. Battista 1 Guglielminetti Guglielmo 1 Galluppi di Cirella Vincenzo 1 Mazozzi Giuseppe 1 Silvestri Vittorio 1 Vitali Giuseppe 1 Ten. med. Gualdi Carlo 1 Ginelli Eugenio 1 Luciani Lavinio 1 Ten. cont. Maier Alfonso 1 Sottoten. Frignani Ippio 1 Sott. med. Cucca Sebastiano 1 Contro i dervisci Gennaio-Febbraio 1807 Mag. Gen. Viganò Giuseppe Uff. Capit. Airoldi Eugenio Cav. Tenen. Gambi Enrico 1 Pavoni Alessandro 1 Sottoten. Samoia Davide 1 BATTAGLIA D’ADUA Marzo 1896 Mag. Gen. Da Bormida Vittorio 1 id. Arimondi Giuseppe 1 Colon. Romero Giovanni 1 Ten. colon. Galliano Giuseppe 1 Magg. Baudoin Giuseppe 1 De Rosa Francesco 1 Prato Leopoldo 1 Capit. Bianchini Edoardo 1 Celia Pietro 1 Masotto Umberto 1 Rossini Antonio 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Albino Giuseppe 1 Grue Aurelio 1 Colon. Brusati Ugo Cav. Nava Luigi id. Ragni Ottavio id. Magg. Gamerra Giovanni id. Zola Alberto id. Tenen. Riguzzi Alfonso Mag. Gen. Albertone Matteo 1 Ten. col. Compiano Lorenzo 1 Magg. Branchi Luigi 1 Cossù Giuseppe 1 De Amicis Luigi 1 De Vito Lodovico 1 Ferraro Achille 1 Giordano Luigi 1 Manfredi Sebastiano 1 Menini Davide 1 Montecchi Alberto 1 Solaro Secondo 1 Turitto Domenico 1 Vandiol Eugenio 1 Viancini Flaviano 1 Capit. Aragno Vittorio Emanuele 1 Amenduni Alfredo 1 Ademollo Umberto 1 Bassi Mario 1 Bignami Achille 1 Barbanti - Silva Edgardo 1 Bonetti Battista 1 Brancato Giorgio 1 Cesarini Ciro 1 Ciccodicola Alfredo 1 Cossu Salvatore 1 Cerrina Pietro 1 Cancellieri Jacono 1 Castellani Federico 1 Cotta Ermenegildo 1 Casard Vito 1 Cicerchia Celestino 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Capit. Castrucci Castruccio 1 Cattaneo Celso 1 Cunietti Vincenzo 1 De Marco Girolamo 1 De Bailon Gaetano 1 De Crescenzio Francesco 1 Elia Leopoldo 1 Fabri Alfonso 1 Fabbroni-Marradi Stefano 1 Franzini Giuseppe 1 Frigenti Pio 1 Ferrero Giovanni 1 Gisla Vittorio 1 Guerritore Andrea 1 Henry Clemente 1 Loffredo Vincenzo 1 Long Emilio 1 Laurenti Giuseppe 1 Martini Giuseppe 1 Mazzi Italo 1 Mangia Domenico 1 Marchisio Domenico 1 Messaglia Valdimiro 1 Menarini Giuseppe 1 Mottino Giuseppe 1 Oddone Luigi 1 Olivari Emilio 1 Pinelli Gaspare 1 Plazzini Antonio 1 Pavesi Angelo 1 Pallotta Emilio 1 Pacca Guglielmo 1 Ritucci Alfredo 1 Rossini Antonio 1 Regazzi Cesare 1 Regazzi Giuseppe 1 Serventi Achille 1 Sini Innocente 1 Signori Michelangelo 1 Sbarbaro Maurizio 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Capit. Tola Vincenzo 1 Verdelli Vittorio 1 Varaldo Francesco 1 Zanetti Carlo 1 Cap. m. d. Orefice Maurizio 1 Tenen. Aimis Emilio 1 Ardissone Ettore 1 Brizio Giovanni 1 Bessone Cesare 1 Bassi Umberto 1 Barberis Alfonso 1 Buono Francesco 1 Benincasa Francesco 1 Boretti Giuseppe 1 Balbi Pietro 1 Busciani Attilio 1 Bargossi Enrico 1 Benedetti Enrico 1 Cossio Alberto 1 Cordulla Ernesto 1 Caruso Cosimo 1 Cimberle Paolo 1 Casalani Cesare 1 Centa Oreste 1 Compagna Giuseppe 1 Cavazzini Eugenio 1 Cartegni Italo 1 Cuccatti Giuseppe 1 Cavallazzi Giuseppe 1 Cottafava Enrico 1 Cosa Ettore 1 Cappettu Vitantonio 1 Cicambelli Luigi 1 Carraro Albano 1 Chevalley Giuseppe 1 Cucchi Manni 1 Cora Carlo 1 Cerimele Michelangelo 1 Cyber Carlo 1 Caputo Tullio 1 De Giovanni Carlo 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Dotto Sebastiano 1 Di Aicheburg Ervedo 1 Dina Giacomo 1 D’Agnino Pietro 1 De Gennaro Roberto 1 Del Chioppo Edoardo 1 Emanuelli Filippo 1 Fuso Giacomo 1 Frassinetti Romeo 1 Filippi Egisto 1 Fugenti Francesco 1 Ferrari Antonio 1 Ghighi Agostino 1 Gillo Adolfo 1 Garavaglia Arturo 1 Gonella Felice 1 Graziadei Giovanni 1 Giliberti Giuseppe 1 Giardino Ernesto 1 Parezzo Marco 1 Guerrini Carlo 1 Gaggiani Francesco 1 Galimberti Bartolomeo 1 Guareschi Pietro 1 Gazzo Marco 1 Izzi Daniele 1 Lori Annibale 1 Lucca Carlo 1 Lamberti Carlo 1 Lucci Giuseppe 1 Luzzatti Ugo 1 Landi Francesco 1 Molinari Luigi 1 Mola Alfredo 1 Mora Michele 1 Moltedo Guido 1 Mazzoni Tommaso 1 Maggiani Attilio 1 Mula Giammaria 1 Moschini Arturo 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Niri Clito 1 Odero Eugenio 1 Pugliesi Ettore 1 Pantano Gherardo 1 Pennazzi Garibaldi 1 Pini Cesare 1 Pettini Giovanni 1 Perle Alfredo 1 Poeti - Marentini Adolfo 1 Palmieri Federico 1 Pantani Tullio 1 Putti Cesare 1 Pastore Federico 1 Pacillo Francesco 1 Parodi Bartolomeo 1 Quaglia Federico 1 Queirolo Ottavio 1 Riguzzi Alfonso 1 Radici Giovanni 1 Romagnolo Pietro 1 Riva Antonio 1 Rizzi Giuseppe 1 Sandrini Pietro 1 Sansoni Romano 1 Schelembrid Genn. 1 Sbruzzi Lucinio 1 Saccarello Lodovico 1 Saja Edoardo 1 Scaffaro Emilio 1 Storaci Giuseppe 1 Supino Simone 1 Spacca Amedeo 1 Schiavoni Augusto 1 Taxil Vittorio 1 Testa Delfino 1 Uccelli Azzolino 1 Vassallo Giuseppe 1 Vecchi Augusto 1 Vibi Arnaldo 1 Viti Remo 1 Visca Antonio 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenen. Vecchio Clemente 1 Vitali Augusto 1 Valle Alfredo 1 Veggi Alfonso 1 Zampieri Nello 1 Zonchello Giacomo 1 Ten. med. Barmaz Teotino 1 Cupelli Pasquale 1 Di Giacomo Luigi 1 Lucci Carlo 1 Madia Giuseppe 1 Marsanich Arturo 1 Mauri Luigi 1 Nardino Giulio 1 Paltrinieri Umberto 1 Pistacchi Giuseppe 1 Santoro Giuseppe 1 Sottoten. Betrami Carlo 1 Baffidi Enrico 1 Bianchi Fedorico 1 Castelli Guido 1 Cappa Luigi 1 Della Chiesa D’Isasca Lodovico 1 Carozzini G. Battista 1 Camuzzi Endemio 1 Donzo Federico 1 Della Torre Alfredo 1 De Sanctis Nicola 1 Frigerio G. Battista 1 Galfrè Narciso 1 Gritti Riccardo 1 Lamberti Carlo 1 Monina Attilio 1 Malatesta Gaetano 1 Marchisio Vittorio 1 Paletti Priamo 1 Pellacani Agostino 1 Piccini Oreste 1 Pacillo Francesco 1 Perretti Remigio 1 Schilardi Salvatore 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Sottot. Vulpiani Ettore 1 Zucchi Giuseppe 1 Sott. med. Altamura Francesco 1 Amato Nicola 1 Dorato Emilio 1 Miccichè Gaetano 1 Tobia Arturo 1 Ten. Colon. Violante Luigi 1 Capit. Acerbi Luigi 1 Amatucci Lorenzo 1 Aghen Celestino 1 Bastianelli Gualtiero 1 Benucci Torquato 1 Bellavita Emilio 1 Bianchini Ferdin. 1 Calfaggini Antonio 1 Cavallina Edoardo 1 Chierici Alfonso 1 Cristofoli Francesco 1 D’Agostino Giovanni 1 Franconi Ermanno 1 Grossi Giuseppe 1 Liri Teofilo 1 Maggi Giovanni 1 Minucci Carlo 1 Mestrallet Ernesto 1 Mambretti Ettore 1 Nobis Guglielmo 1 Palumbo Vargas Ottorino 1 Rizza Sebastiano 1 Rossi Giuseppe 1 Rossi Umberto 1 Spreafico Michele 1 Scalettarir Eman. 1 Sciarra Giuseppe 1 Segrè Enrico 1 Trossarello Giovanni 1 Vignola Giuseppe 1 Villa Stefano 1 Zoli Vincenzo 1 Medici D’Albenzio Michele 1 De Micheli Antonio 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Tenenti Albanese Giovanni 1 Amendolagine Michele 1 Abeori Giuseppe 1 Angelini G. Battista 1 Alessandri Achille 1 Amore Carlo 1 Bellotti Bon Luigi 1 Bonora Ugo 1 Bertone Ettore 1 Bardelli Giuseppe 1 Borro Giulio 1 Benetti Augusto 1 Baisi Alfredo 1 Becchini Pietro 1 Biancheri Alfredo 1 Beruto Giovanni 1 Basseggio Ottonello 1 Borgna Giuseppe 1 Baglivo Salvatore 1 Beato Alberto 1 Banti Luigi 1 Castano Giuseppe 1 Coccanari Angelo 1 Calvino Giuseppe 1 Cantalamessa Guido 1 Cutrì Luigi 1 Cuniberti Biagio 1 Canegallo Lorenzo 1 Chiarelli Raffaele 1 Candieri Luigi 1 De Rossi Giuseppe 1 Di Giorgio Antonio 1 De Luca Antonio 1 De Campora Pasquale 1 Doneddu Giuseppe 1 D’Andrea Antonio 1 Damia Ernesto 1 Franchi Tommaso 1 Franchina Attilio 1 Ferigo Luciano 1 Fusa Ermenegildo 1 Ferrari Agostino 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Gagliardini Luigi 1 Guerini Federico 1 Grassi Alessandro 1 Gola Pietro 1 Ghirelli Umberto 1 Golfetto Umberto 1 Garetto Giacomo 1 Gaslini Gaetano 1 Gentilini Demetrio 1 Gallarini Aldo 1 Galletti Maurizio 1 Grazioso Pasquale 1 Galvagno Giacomo 1 Gammarelli Oreste 1 La Valle Giuseppe 1 Longagnani Silvio 1 La Villa Girolamo 1 Malagoli Giuseppe 1 Macola Antonio 1 Mocal Alfredo 1 Mangot Giovanni 1 Magliocchini Nicolò 1 Migliavacca Attilio 1 Marchiori Carlo 1 Micolini Secondo 1 Maccali Luigi 1 Massazza Emilio 1 Marra Enrico 1 Mateucci Roberto 1 Marchetti Luigi 1 Negrotto Cambiaso Pier Francesco 1 Nastro Pasquale 1 Mattino Pietro 1 Orsi Giuseppe 1 Pratesi Luigi 1 Pieri Ottavio 1 Pancallo Fortunato 1 Pace Luigi 1 Peratoner Giovanni 1 Quadrio Vincenzo 1 Rivi Francesco 1 Rosati Raffaele 1 Fatto d’arme e sua data Grado Casato e Nome Promozioni a scelta Croce dell’ordine Mil. di Savoia Medaglia d’oro al valor Milit. Med. d’argento al valor Milit. Medaglia bronzo al valor Milit. Roppa Alessandro 1 Rosso Carlo 1 Rasponi Teseo 1 Sansone Carmine 1 Stockler Filippo 1 Sostegni Luigi 1 Streva Vincenzo 1 Scoccia Nicola 1 Sbrignadello Francesco 1 Spreafico Ferdinando 1 Strini Ignazio 1 Troiano Gaetano 1 Treboldi Giuseppe 1 Versace Agostino 1 Vigna Luigi 1 Vernassi-Fondolo Filippo 1 Vacca-Maggiolini Arturo 1 Vilione Giovanni 1 Zaric Alfredo 1 Medici Cucca Sebastiano 1 Iacono Francesco 1 Lombi Giuseppe 1 Maglio Angelo 1 Mazza Alessandro 1 Sottoten. Giusto Placido 1 Radice Raffaele 1 Medici Gimelli Eugenio 1 Luciani Lavinio 1 * * * INDICE * * * Prefazione Elenco delle pubblicazioni consultate Spiegazione dei vocaboli indigeni Introduzione PARTE I. Dalle origini della Colonia al governatorato di Baratieri. Capitolo I. — (1869-1882) Acquisto di Assab e adiacenze — Primo atto di sovranità esercitata dall’Italia — Eccidio di Beilul — Incidente di Raehita — Convenzione coll’Inghilterra — Assab dichiarato colonia Italiana. Capitolo II. — (1882-1884) Crisi egiziana ed insurrezione Mahdista — Loro influenza sul movimento d’espansione coloniale dell’Italia. Capitolo III. — (1885) Eccidio della spedizione Bianchi — Occupazione di Beilul — Occupazione di Massaua — Proteste della Turchia — La caduta di Kartum — Conseguenze — L’Italia offre i suoi aiuti all’Inghilterra che li rifiuta — L’Inghilterra rinunzia al Sudan — La nostra occupazione di Massaua resta paralizzata. Capitolo IV. — (1885) Primi attriti coll’Abissinia — Missione Ferrari — Occupazione di Saati con truppe irregolari — Irritazione del Negus e di ras Alula — Protettorato sugli Habab — Cessazione del condominio egiziano a Massaua. Capitolo V. — (1886-1887) Missione Pozzolini — È sospesa in seguito a cattive notizie pervenute dall’Abissinia — Minaccioso contegno di ras Alula — Spedizione Salimbeni — Occupazione di Uà — Ras Alula fa incatenare la spedizione Salimbeni e la trascina dietro a Ghinda — Ultimatum di ras Alula al generale Genè — Combattimento vittorioso di Saati — Combattimento e strage di Dogali. Capitolo VI. — (1887-1888) Il Parlamento italiano vota 20 milioni per la rivincita di Dogali — Crispi ministro degli esteri — Invio di rinforzi — Spedizione San Marzano — Missione inglese Portal — Costruzione della ferrovia Massaua-Saati — Rioccupazione di Saati — Il Negus a Saberguma — San Marzano lo costringe alla ritirata. Capitolo VII. — (1888-1889) Il generale Baldissera succeduto a San Marzano — Prima sistemazione della colonia — Alleanze cogli Arabi intermedi tra Cassala e Massaua — Cure interne — Incidente italo-francese circa le capitolazioni — Vittoria di Crispi e scacco di Goblet — Doloroso avvenimento di Saganeiti — Vicende interne dell’Abissinia — Menelik alleato dell’Italia — Il negus Giovanni contro i Mahdisti — Sua sconfitta e morte a Metemmah — Menelik imperatore — Trattato d’Uccialli — Missione etiopica in Italia — Occupazione di Keren e Asmara e successivo ampliamento della colonia fino al Mareb — Rimpatrio di Baldissera — La Colonia Eritrea. Capitolo VIII. — (1890) Il generale Orero — Mangascià prevale nel Tigrè contro il legato imperiale e contro gli altri pretendenti — Menelik in marcia per il Tigrè — Marcia di Orero su Adua — Sua ritirata — Convegno di Ausen — Doppiezze ed inganni di Menelik — Ritorno di Menelik nello Scioa — L’articolo 17 del trattato d’Uccialli contestato da Menelik — Dissidi tra Antonelli ed Orero — Rimpatrio del generale — Il generale Gandolfi primo governatore dell’Eritrea — Prima vittoria italiana di Agordat contro i dervisci. Capitolo IX. — (1890-1892) Il generale Gandolfi governatore civile e militare dell’Eritrea — II colonnello Baratieri vice-governatore — Il deputato Leopoldo Franchetti commissario per la colonizzazione agricola — Consiglio di governo — Cure e riforme civili e militari — Missione Antonelli allo Scioa — Insuccesso della medesima — Zona d’influenza italiana e confini abissini — Accuse contro l’amministrazione coloniale e scandali — Reale Commissione d’inchiesta — Processo Cagnassi e Livraghi — Operato della Commissione d’inchiesta — Politica tigrina — Trattato del Mareb — Politica di raccoglimento del Gabinetto Di Rudinì — Rimpatrio del generale Gandolfi. PARTE II. La Colonia sotto il Governo di Baratieri e fino alla battaglia d’Adua. Capitolo X. — (1892-1896) Oreste Baratieri governatore civile dell’Eritrea — Arimondi comandante delle truppe — Riforme e provvedimenti interni — Meccanismo governativo — Bilancio unico — Ordinamento militare e giudiziario — Altri provvedimenti — Indemaniamento — Colonizzazione — Risultati. Capitolo XI. — (1892-1894) Lotte contro i Mahdisti — Combattimento di Serobeiti — Battaglia di Agordat — Conquista di Kassala. Capitolo XII. — (1894-1895) Relazioni tra l’Italia, il Tigrè e lo Scioa — Ribellioni interne del Tigrè — Missione Traversi allo Scioa — Formale denuncia del Trattato d’Uccialli — Missione Piano allo Scioa — Mangascià a Adis Abeba — Suo ritorno e suoi preparativi — Sua intesa con Batah Agros capo dell’Okulè-Kussai — Rivolta di costui — Combattimento di Halai — Morte di Bath Agos — Mangascià accoglie i ribelli superstiti — Ultimatum di Baratieri a Mangascià — Baratieri ad Adua — Mangascià minaccia e invade l’Okulè-Kussai — Giornate di Coatit e Senafe. Capitolo XIII. Espulsione dei Lazzaristi francesi dall’Eritrea — Mangascià si prepara alla riscossa — Chiede aiuti a Menelik — Si avvicina ad Adigrat per toglierlo ad Agos Tafari alleato dell’Italia — Baratieri invade ed occupa l’Agamè — Inseguimento infruttuoso di Mangascià — L’alleato Agos Tafari a Makallè — Baratieri entra in Adua per la seconda volta — Preoccupazioni politiche e finanziarie del Governo — Baratieri si ritira da Adua lasciandovi poche truppe — È chiamato in Italia — Grandi feste fattegli a Roma ed altrove — Sua intesa col Governo — Riparte per l’Eritrea — Ripresa della campagna contro Mangascià — Combattimento di Debra Ailat — Occupazione del Tigrè — Conseguenze politiche e militari. Capitolo XIV. Guerra Italo-Scioana — Preparazione militare e politica dell’Italia e dello Scioa — Conseguenze. Capitolo XV. — (1895) Arimondi comandante del Tigrè — Sue forze — Suoi provvedimenti — Il capitano Persico ad Amba Alagi — Il maggiore Toselli vicino ad Ascianghi — Informazioni sul nemico — Sorprese ed equivoci — Toselli si ritira ad Amba Alagi — Baratieri parte da Massaua — Glorioso combattimento di Amba Alagi — Scontro di Aderà — Ripiegamento di Arimondi su Adagamus — Il battaglione Galliano a Makallè. Capitolo XVI. Condizioni della Colonia dopo Amba Alagi — Concentrazione delle forze eritree in Adigrat — Baratieri ne assume il comando e Arimondi è mandato a Massaua — Il Parlamento vota 20 milioni per la rivincita e il Governo conferma la fiducia in Baratieri — Spedizioni di rinforzi — Incertezze del Governatore — Assedio di Makallè — Arrivo del Negus — Attacchi degli assedianti e gloriosa resistenza di Galliano — Dolorose condizioni dell’eroico presidio — Ammirazione e preoccupazioni — Liberazione. Capitolo XVII. Conseguenze dell’abbandono di Makallè — La posizione di Adagamus — Vicende del battaglione Galliano — Il Negus se ne serve per mascherare e coprire una marcia strategica su Ausen e quindi lo libera trattenendo alcuni ostaggi — Inerzia di Baratieri — Il Negus verso Gandapta — Baratieri è costretto ad abbandonare Adagamus ed a fronteggiare verso Adua — Spostamenti strategici — Il Negus nella conca di Gandapta e Baratieri nell’Entisciò e a Saurià — Difficoltà logistiche italiane — Defezione di ras Sebath e Agos Tafari — Fatti di Seetà e Alequà — Le retrovie minacciate — Vicende dell’Intendenza — La nuova linea di rifornimento per Mai Maret-Debra-Damo — Stevani, Valli e Oddone mandati contro i ribelli — Assotigliamento e difficoltà del corpo d’operazione italiano — Predisposizioni di ritirata del 28 Febbraio — Ras Gabeiù al Mareb — Critiche condizioni di Baratieri — Rinunzia alla ritirata e fa una dimostrazione offensiva verso Adua — Gli abissini intorno ad Adua — Stevani e Valli rientrano a Saurià — Il reggimento di Boccard a Mai Maret — Grandi rinforzi in viaggio — Il Generale Baldissera. Capitolo XVIII. — (1896) Forze e condizioni dei due eserciti avversari alla vigilia della battaglia — Necessità per entrambi di una imminente ritirata — Astuzie di Menelik — Baratieri delibera l’attacco — Precedenti e disposizioni. PARTE III. Dalla battaglia d’Adua fino al 1.° marzo 1899. Capitolo XIX. — (1 marzo 1896) Battaglia d’Adua. Capitolo XX. — (Marzo-giugno 1896) Effetti della battaglia d’Adua in Italia — Crisi ministeriale — Agitazioni e violenze — Il gabinetto Di Rudinì — Suo programma — Votazione di 140 milioni per continuare la guerra — Baldissera difende la Colonia — Il Negus si ritira — Trattative di pace — Stevani a Kassala — Combattimenti di Monte Mocram e di Tucruf — Baldissera muove alla liberazione di Adigrat — Sua ordinata ed imponente marcia in avanti — I ras tigrini non ardiscono opporglisi — Sgombro ed abbandono di Adigrat — Liberazione dei prigionieri del Tigrè — Fine della campagna. Capitolo XXI. — (1896-1899) Pratiche di pace e per liberare e soccorrere i prigionieri — Si intromette il Sommo Pontefice — Insuccesso di mons. Macario — Missione Nerazzini — Convenzioni stipulate col Negus — Preliminari di pace e liberazione dei prigionieri — Rimane insoluta la questione dei confini — Il programma di raccoglimento del ministero Di Rudinì — Seconda missione Nerazzini — Invio di Cicco di Cola — Il Governatore Civile — Ultimi avvenimenti etiopici — Ribellione e spodestamento di Mangascià. Avvenimenti dalla parte del Sudan — L’Inghilterra scesa in lizza contro il Kalifa — Campagna anglo-egiziana negli anni 1896-97-98 — Cessione di Kassala — Battaglia di Ondurmann — Caduta della Mahdia — Il Nilo riaperto alla civiltà europea. Conclusione Appendice: I. Note sull'Abissinia II. Note sulle tribù mussulmane dell'Eritrea III. Note sul Benadir e sulle spedizioni di Bottego IV. Documenti. a) Trattato d'Uccialli b) Convenzioni addizionali c) Protocole Elenco degli ufficiali decorati. * * * Informazioni su questa edizione elettronica: Questo ebook proviene da Wikisource in lingua italiana[1]. Wikisource è una biblioteca digitale libera, multilingue, interamente gestita da volontari, ed ha l'obiettivo di mettere a disposizione di tutti il maggior numero possibile di libri e testi. Accogliamo romanzi, poesie, riviste, lettere, saggi. Il nostro scopo è offrire al lettore gratuitamente testi liberi da diritti d'autore. Potete fare quel che volete con i nostri ebook: copiarli, distribuirli, persino modificarli o venderli, a patto che rispettiate le clausole della licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 3.0 Unported[2]. Ma la cosa veramente speciale di Wikisource è che anche tu puoi partecipare. Wikisource è costruita e amorevolmente curata da lettori come te. Non esitare a unirti a noi. 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